sabato 18 giugno 2011

Brigante se more, le canzoni del brigantaggio (1861-1870).


fonte: http://people.accordo.it/journals/FBASS/2011/06/53694/brigante-se-more-le-canzoni-del-brigantaggio-1861-1870.html
Lungi da me fare un'analisi politica o critica del periodo tristemente noto come il "Brigantaggio", immediatamente successivo alla proclamazione dell'Unità d'Italia del 1861 e passato alla storia come una vera e propria guerra civile scoppiata nell'Italia del Sud, con a capo alcuni dei più noti briganti della storia come Carmine "Donatello" Crocco, originario di Rionero in Vulture (Basilicata), Ninco Nanco, Giuseppe Caruso e con la figura eroica di Michelina de Cesare ( nella immagine di copertina ). Vi fu l'intervento dei  50mila "Bersaglieri" del Re Vittorio Emanuele II, lo Stato d'Assedio proclamato nell'estate del 1862 seguito dalla legge 1409/1863, più conosciuta come legge Pica ( Giuseppe Pica era un Deputato Abbruzzese ), proclamata dallo stesso Re il 15 agosto del 1863 e prorogata fino al 31 dicembre 1865, con l'istituzione dei Tribunali Militari e l'applicazione della Legge Marziale contro i gruppi familiari riconosciuti appartenenti al brigantaggio ( cioè l'esclusione di questi poveri contadini dallo Statuto Albertino ), prevedendo anche la fucilazione sul posto, vi furono circa 20mila tra fucilazioni e morti ammazzati in vere e proprie guerriglie locali, ma qualcuno parla di circa 120mila vittime tra bande di briganti e popolazione rurale, soprattutto in Basilicata, Calabria, Sicilia e confine dello Stato Pontificio, non ci dimentichiamo che ne facevano parte, tra le fila di questi briganti, anche ufficiali e soldati dell'ex Regno Borbonico, cioè uccisioni ed esecuzioni tutte avvenute in quel decennio ed in località quasi tutte al Sud ( famosissima la battaglia di Melfi del 1861, il preludio con la battaglia di Bauco in Ciociaria a fine gennaio 1861 ed il triste episodio di Gaeta non del tutto chiarito ). Ma quì invece voglio parlare delle canzoni popolari relative al periodo in questione, cominciando dalla più famosa, "Brigante se more" 

mercoledì 15 giugno 2011

BRIGANTAGGIO in ABRUZZO


 LE VIE DELLA MISERIA

Penso al “Mammone quando alle prime luci dell’alba ci immergiamo nel silenzio del bosco diretti alle Fosse Pasqualetti, luogo solitario e misterioso ancora oggi, sul versante che il Monte Sirente affaccia sull’abitato di Gagliano Aterno. Al pari di “Gasparoni”, “Fra Diavolo”, “Marco Sciarra” e tante altre figure di briganti vissute a cavallo tra il XVI e il XIX secolo, il suo nome è passato alla leggenda al punto da divenire messaggio subliminale di terrore e deterrente per più generazioni di bambini capricciosi: -Mo’ vién’ Mammone!-, come a voler dire “adesso viene l’orco che ti mangia!” o “viene  il lupo cattivo!”. Più verosimilmente Gaetano Mammone, macellaio di Sora, fu uno dei tanti “capimassa” che guidarono l’insurrezione contro i francesi della Repubblica Partenopea: eroe per la tradizione popolare, vile bandito per la storia patria.
Qui sulla montagna del Sirente, come su tutto l’Appennino centromeridionale, sono transitati molti altri briganti; personaggi oscuri, di cui si conoscono solo le efferatezze commesse, perché raccontate con dovizia di particolari solo da chi dava loro una caccia feroce, che inevitabilmente si concludeva con la morte del brigante. Qualcuno è sopravvissuto abbastanza per far parlare di se, emergendo così dall’orda anonima; autentiche primule rosse per l’esercito sabaudo, spine nel fianco di un’altrettanta vendicativa e spietata Guardia Nazionale. A nessuno di loro è stato dato il tempo o l’opportunità di spiegare le proprie “ragioni”, tantomeno di scrivere memorie!
Le storie dei briganti sono tutt’uno con quelle di fame e miseria che le popolazioni di un territorio esteso quanto metà della penisola, hanno sopportato per secoli e il cui retaggio di arretratezza è ancora sotto i nostri occhi. Le cronache del brigantaggio si intrecciano con  le vicende dei ceti più umili: pastori, carbonai, contadini; sono le storie dolorose di queste montagne, di questi paesi, di tante genti vissute fino a ieri e la cui eco risuona ancora tra  i solitari valloni e le creste boscose che chiudono l’orizzonte di queste terre aspre.
A spingermi in queste contrade oggi è un senso di grande solidarietà, per quegli uomini che le vicende disgraziate della storia hanno relegato in un mondo di ombra, a cui neanche la pietà dei vivi per i perdenti è concessa. La figura del brigante nei secoli, ha calamitato i risentimenti di una società che spesso scrive le proprie verità con il sangue dei vinti, scaricando sui ceti più deboli tutte le paure ancestrali e i mali che l’ipocrisia dell’Uomo, non riuscendo a eliminare, cerca di occultare. Un’emancipazione sociale unilaterale la nostra, che lascia il mondo diviso in ricchi e diseredati, in potenti ed oppressi, in Nord e Sud. Terre del finimondoqueste ultime, per dirla con Jorge Amado, dove la storia dei potenti ha lasciato nei secoli una scia di sangue e di sventure, pagate sempre da chi non è padrone neanche della propria vita. Penso a Héctor Chacón per esempio, del libro Redoble por Rancase alle lotte disperate dei braccianti peruviani negli anni ‘50 di questo secolo: inutili sussulti di una classe senza futuro che in tutti i Sud del mondo ha pagato a caro prezzo l’illusione di un riscatto sociale. Ad accomunare peones, campesiños, mugiki e cafoni, nel corso dei secoli e in ogni parte del globo, sarà un semplice gesto: quello di abbassare la testa.
            LE VIE DELLA MISERIA

Giuseppe, l’anziano taglialegna che mi guida in questa selva, non porta “ciocie” ai piedi, né orecchini, ma tra i suoi avi conta sicuramente qualche brigante, come d’altronde quasi tutte le famiglie in questi paesi di montagna. Basta scorrere i lunghissimi elenchi che la Guardia Nazionale, dopo l’Unificazione, andava compilando in ogni comune delle cosiddette “zone militari”, per tenere sotto controllo le persone in “odore di brigantaggio”.
Eppure qui molta gente, la fame l’ha fatta ugualmente, e fino agli anni del dopoguerra, sbarcando il lunario nelle attività più umili e vivendo di ciò che miracolosamente la montagna serbava loro. Facendo questo essi hanno tracciato sui monti una fitta ragnatela di sentieri e mulattiere, a volte esili tracce, che solo i nativi e quant’altri percorrevano queste terre a volte ostili, dove la vita è ancora oggi fortemente legata alla natura, riuscivano a trovare e a seguire. In queste peregrinazioni, durante le attività che permettevano loro di sopravvivere, hanno dato vita a innumerevoli fili di Arianna: le Vie della Miseria, con le quali raggiungere i luoghi più inaccessibili, per mettersi in salvo o per tornare a casa:. Oggi quei fili servono a noi per ripercorrere le tracce di avvenimenti, non troppo lontani nel tempo, di cui però ugualmente abbiamo perso memoria.

LValle Subequana sotto i Romani aveva acquisito una importanza rilevante, grazie soprattutto alla posizione che occupava rispetto alla viabilità dell’epoca. Nel MedioEvo e poi ancora nel Rinascimento mantenne una felice posizione economica e sociale, anche per un positivo compattamento del territorio, nei feudi prima e nei comuni poi, contro l’ingerenza e l’egemonia della opulenta città dell’Aquila. Autonomia che, mantenuta fino a metà del XIX secolo per via di un forte polo di allevamento ovino e una fitta rete di tratturi esistente tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli, perse in breve tempo per il tramonto della pastorizia e lo smembramento del tessuto sociale causato dell’emigrazione. Decadenza rapida ed incisiva che proiettò i paesi della valle nel pesante isolamento tipico delle aree interne appenniniche.
L’isolamento fino alla metà di questo secolo era totale, quando anche la strada che sale ora dalla valle percorrendo l’altipiano delle Rocche non esisteva e sui pascoli del Sirente si ascendeva direttamente dalle case del paese, con i muli o a piedi. I valichi di montagna restavano ancora gli unici accessi consentiti per il passaggio nella limitrofa Marsica, nell’alta Valle dell’Aterno e nella più urbanizzata Valle Peligna. Negli anni del dopoguerra sulla montagna appenninica si andava ancora e soprattutto per caricare il carbone e la legna, ma sul Sirente c’era un’altra risorsa: il ghiaccio, che si asportava da alcune provvidenziali neviere, accumuli di neve che ancora oggi, grazie all’esposizione e alla quota, resistono per gran parte dell’anno e in alcuni casi sono praticamente perenni. Quando non esisteva ancora il ghiaccio artificiale la neve serviva, specie nei grandi centri, per conservare ogni sorta di alimenti, ma anche nella terapia medica, per abbassare le febbri tifoidee per esempio. Occorrevano sei ore col mulo per andare e tornare dalla montagna e in una settimana spesso si facevano tre, anche quattro di viaggi. Chi possedeva un mulo per il trasporto, perché nessun altro animale poteva fare quei percorsi impervi, alternava quest’attività ad altre, come il taglio della legna o il lavoro su piccoli appezzamenti di terra. -Si partiva di notte, anche in segreto, perché si rubava il lavoro ad un altro: la povertà e le poche risorse della montagna mettevano le famiglie le une contro le altre. Era la Miseria. (...) Nel Paese c’era tanta concorrenza tra le famiglie per la neve, come per il taglio del bosco ed altri mestieri. Solo con la neve, a Secinaro, non si poteva vivere.”(1). Il comune provvedeva all’appalto per la raccolta e poi al trasporto della neve, che si effettuava con squadre di mulattieri attraverso i tratturi, a Roma e fino alle Puglie. I mestieri più diffusi nei paesi a ridosso della montagna erano quelli del carbonaio, del tagliatore di legna, degli operai addetti alla lavorazione della calce, degli artigiani del legno. Questi ultimi che producevano aratri, rastrelli, basti per muli, spesse volte erano costretti ad agire di nascosto alle guardie del Corpo Forestale: andavano in montagna a raccogliere particolari piante di faggio che per le loro caratteristiche crescevano solo in alcune zone del bosco non soggette al taglio. L’economia dei paesi si reggeva quasi esclusivamente sul bosco. La legna era venduta in tutti i paesi della Val Pescara, della Marsica, dell’Aquilano, soprattutto in occasione delle fiere annuali. Chi aveva i muli era fortunato, trasportava la legna per conto terzi e vedeva qualche lira in più. Con i cavalli e i muli si facevano tutte le attività agricole, i lavori in montagna e i trasporti di merci e derrate varie. Gli altri, specialmente i carbonai, guadagnavano meno: passavano un’intera stagione nel bosco, dentro baracche appositamente costruite, dove spesso abitavano con l’intera famiglia. Si dormiva insieme alla legna, alle frasche e agli animali, su semplici sacchi di paglia. Mangiavano essenzialmente polenta e una piccola capra forniva il latte ai bambini. Alle donne toccava ugualmente una giornata massacrante. Per raccogliere la legna secca partivano di notte in piccoli gruppi e tornavano la mattina, dopo aver girato tutta la montagna con le fascine sulla testa. Senza riposare, spesso lasciando i figli piccoli, partivano di nuovo per attingere l’acqua che, specie a Secinaro era poca e per attingerla le donne scendevano con le conche nei paesi più a valle. -l’acqua si imprestava,-racconta un’anziana donna- si misurava con il coppino e poi si restituiva; era preziosa. Anche il fuoco si prestava. Dicevano “dammi una paletta di brace”. Per non far consumare la legna, si metteva dentro il camino solo con le punte, per risparmiare(1). 
C’era poi chi integrava i magri bilanci familiari con la raccolta di altri prodotti del bosco: fragole, noci, funghi, che arrivavano fin sulle tavole dei ristoranti della capitale. La belladonna veniva raccolta per farne medicinali, la genziana e altre erbe officinali per i liquori. Le viole servivano alla produzione dei profumi. Le donne soprattutto, ma anche i bambini, raccoglievano di tutto, per vendere o barattare. Le frasche per il fuoco ad esempio venivano barattate con le patate, le lenticchie e le fave nei paesi del Fucino, ma era un lavoro estenuante, per guadagnare alfine solo un tozzo di pane. Dopo la raccolta delle frasche nel bosco, bisognava girare per i paesi e vendere le fascine; si faceva ritorno al tramonto. Chi lavorava nel bosco, non dormiva mai!

Tutta la popolazione viveva della montagna, eccetto pochi notabili: il medico, il curato, il notaio, il capitano, il funzionario, il magistrato. Terra da coltivare non c’è n’era e chi non c’è la faceva proprio a tirare avanti andava a Roma o a Milano, a fare il lavapiatti, la cameriera, la cucitrice, l’ombrellaio. Quelli destinati oltreoceano erano già partiti con le prime migrazioni d’inizio secolo.
Era tanta la miseria! Ma la fame di un altro essere superava forse in quegli anni quella degli uomini: il lupo. Fino al 1950 i branchi entravano di notte nei paesi. Sentivano da lontano l’odore degli animali, ed in montagna girovagavano irrequieti nel bosco intorno agli accampamenti degli operai. Per chi percorreva la montagna negli angoli più appartati, nei boschi e nei valloni solitari, l’incontro con questo animale era abituale: -in montagna si andava anche di notte, per la fame tagliavamo la legna di nascosto e si sentiva l’ululato, sempre.(1), raccontano i protagonisti. Il numero dei lupi, destinato poi a calare vertiginosamente, in equilibrio con la fauna selvatica e soprattutto con le mandrie di bovini e le greggi al pascolo, era in quegli anni elevato. Solo la fame, specie d’inverno, poteva spingere questo animale, altrimenti schivo e riservato, ad avvicinare l’uomo. Ma per le popolazioni di montagna il lupo era pari al brigante, perché uccidendo gli animali domestici toglieva al pastore quel poco che aveva. Era una contesa accanita quella tra l’uomo e il lupo in queste contrade, una caccia feroce come quella tra il carabiniere e il brigante.

In fondo sia il brigante che il lupo vivevano ai margini della società, entrambi esseri al limite della sopravvivenza. Chi ammazzava un lupo veniva per questo ricompensato, con piccole offerte di cibo: pane, fagioli e anche formaggio.

Con la schiena rotta dalla fatica e lo stomaco roso dal morso della fame, nel buio e nel silenzio misterioso della selva, si raccontavano vecchie storie e di nuove ne nascevano: racconti intrisi di timore e superstizione tramandati da madre in figlia, leggende i cui soggetti giravano invariabilmente intorno a figure di streghe, fantasmi, lupi e, naturalmente, briganti.

            Tutto questo accadeva solo pochi anni fa, al temine della seconda guerra mondiale, ed era tutto come un secolo prima -soprattutto la miseria-, quando giovani senza futuro, braccianti, boscaioli, pastori s’illusero fosse arrivato il momento del riscatto da una vita grama e disgraziata,  la rivincita contro i torti e le angherie subite ad opera dei “galantuomini”, borghesi e notabili, che spartivano e regolavano la vita sociale ed economica dei paesi e del Meridione d’Italia.


 Il fenomeno, che infiammò per ben dieci anni le terre a sud dello Stato Pontificio, propagandosi dagli Abruzzi, alla Campania, dalla Puglia alla Calabria, passando per la Basilicata, fu bollato come mera attività di bande criminali e passò alla storia come Brigantaggio Post-Unitario.

Fu l’illusione breve di un’avventura amara che coinvolse tutti: uomini, donne, bambini di ogni età e ceto sociale; una vicenda lunga e terribile conclusasi drammaticamente!

            LE CIFRE DI UNA TRAGEDIA

Un esercito di 120.000 uomini, tra Fanteria, Bersaglieri, Cavalleggeri e Reali Carabinieri, quello impiegato dal governo Cavour e successivi nella repressione del brigantaggio, oltre a decine di migliaia di Guardie Nazionali, inquadrate in milizie volontarie, reclutate in quasi tutti i comuni interessati dal fenomeno. 
Impossibile invece accertare quanti uomini componessero l’insieme delle “masse” contadine che dal ‘61 al ‘63 presero parte ai fatti della “reazione” e negli anni successivi dedite ad azioni delittuose e di mera sopravvivenza. E’ stato ricostruito attraverso i documenti il numero che costituì in seguito le singole bande, ma quest’operazione appare inattendibile se si pensa che gli effettivi delle stesse si rinnovavano continuamente e che molto spesso i loro ranghi davano origine a fusioni e  disgregazioni continue. E poi nessuno aveva interesse a tenere il conto di quanti briganti venissero uccisi nei combattimenti o sottoposti a sommarie esecuzioni dopo gli scontri. -Dal mese di maggio 1861 al mese di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso 7151 briganti. Non so niente altro e non posso dire niente altro.”-(2). 
Così si esprimeva il Gen. La Marmora, celebre “eroe del Risorgimento Italiano”, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio. Appare invece approssimativa per difetto la cifra di 14.000 “briganti” uccisi in combattimento, fatti prigionieri e condannati ai lavori forzati, ma soprattutto “passati per le armi” dopo la cattura, fino a tutto il 1870, data della fine delle operazioni.
-Cercheremo di vincere gli ostacoli con le buone, -tuonava Cavour in Parlamento- se ciò non giova li vinceremo con mezzi estremi. (...) Finché avremo un voto di maggioranza ed un battaglione non cederemo un palmo”-(3). 
I generali che si succedettero al comando delle truppe, i vari Pallavicini, Pinelli, Cialdini, Govone, eseguirono con zelo: decretarono lo stato di guerra nelle province infestate dai briganti. Nel 1861, nel pieno vigore delle sommosse popolari appoggiate dalla Chiesa e dai Borboni, il Gen. Enrico della Rocca consigliò -che non si perdesse tempo a fare prigionieri!”-; così negli anni successivi, fu la caccia all’uomo, il massacro indiscriminato. Un esempio per tutti la fucilazione degli insorti di Scurcola Marsicana in Abruzzo: dove il 19 gennaio 1861 vennero scovati casa per casa e sommariamente giustiziati tutti gli sbandati e i borbonici insorti. Le cifre fornite da alcuni storici oscillano da 89 a 130 cadaveri, ma non si ebbe mai il numero ufficiale o l’identità delle vittime. Nessuno è stato mai sollecito a divulgare la verità sull’operato dell’esercito durante la repressione del brigantaggio. I parlamentari che insistentemente chiedevano ragione al governo, oscillavano essi stessi tra la reticenza e la vergogna.

E’ storicamente accertato che la logica che muoveva l’operato dei Piemontesi era esclusivamente di tipo militare, quindi di repressione; una logica ferrea e senza compromessi, la sola in grado di dare risultati e “bonificare” così le marche del sud infestate dalle bande di “ladri, criminali e assassini”.
E’ chiaro che la tendenza dei quadri dell’esercito fosse quella di vedere anche nella popolazione inerme un potenziale nemico, fiancheggiatrice di briganti, depravata essa stessa. 


Ecco come un ufficiale vede le genti del sud:
 -”...qui siamo tra una popolazione che, sebbene in Italia e nata Italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, (...) epperciò non è d’uopo parlar qui di cose che non sono nemmeno accessibili alla loro intelligenza. Qui dunque (...) odio e livore, libidine di potere e di vendetta, qui invidia, qui tutte le più basse e vili passioni, tutti i vizi i più ributtanti, tutte le più nefande nequizie dell’umana natura.”(4). In quanto alla truppa, proiettata improvvisamente lontana da casa, tra popolazioni ostili e territori aspri e sconosciuti, gravata essa stessa da disagi e fatiche, reagì a situazioni complesse di cui non capiva il senso, nell’unico modo che conosceva: con ferocia inumana. -Abitanti dell’Abruzzo Ulteriore -scriveva il Generale Pinelli pochi giorni dopo l’incontro di Teano, in un manifesto affisso sui muri dei paesi della Marsica- ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti. Quattro facinorosi sono già stati passati per le armi: il loro destino vi serva da esempio, perché io sarò inesorabile(2).
Fu una serie infinita di ritorsioni a catena che a sangue chiamava altro sangue. Ancora oggi, a Sulmona, sotto il sesto arco dell’acquedotto medievale, si può notare il gancio dove veniva appesa una gabbia con i resti esanimi dei briganti catturati. Ma ovunque in tutte le provincie dell’ex Regno di Napoli i cadaveri dei briganti venivano lasciati marcire per giorni e giorni, a volte smembrati e sanguinanti, come monito alla popolazione.

Delle perdite ingenti da parte dell’esercito, poco si è saputo, ma basti pensare che migliaia di soldati morirono soprattutto per patologie legate alle cattive condizioni igienico-sanitarie, al clima e al forte stress cui erano sottoposti; malaria, tifo e varie malattie infettive mieterono numerose vittime. Secondo le fonti del Ministero della Guerra, nel solo periodo che va dall’ottobre 1863 al settembre 1864 si ebbero 47.510 ricoveri in ospedale, di cui 1.178 decessi  per sole febbri. Per quanto riguarda le vittime nelle operazioni di guerra, in 22 mesi dal 1861 al 1863 vengono dichiarati 315 morti tra truppa e ufficiali, 80 feriti e 24 prigionieri. E’ importante confrontare queste cifre con le perdite subite nello stesso periodo dalle bande brigantesche nella sola Basilicata: fucilati 1.038 briganti, 2.413 “uccisi in combattimento” e 2.678 caduti prigionieri.

Un dato molto interessante infine, mai confermato ufficialmente, è quello riguardante le diserzioni frequenti, di chi preferì lasciare i ranghi dell’armata sarda per entrare in quelli delle bande brigantesche. Quello degli sbandati e dei renitenti alla leva, che nei primi anni ‘60 raggiungeva cifre esorbitanti, fu il vero cruccio del nuovo governo. La leva militare obbligatoria imposta all’indomani dell’unificazione era per le famiglie contadine (già gravate da tributi, come la tassa sul macinato) un’ulteriore aggravio al già precario tenore di vita, portando lontano da casa braccia abili al lavoro e quindi fonte di reddito. Per sfuggire alla coscrizione i giovani si davano alla macchia, andando ad ingrossare le fila  degli sbandati del disciolto esercito borbonico. Circa 70.000 soldati caduti prigionieri dopo la presa di Gaeta, furono buttati allo sbando. Rinviati a casa laceri ed affamati costituirono in breve nei paesi d’origine un ennesimo problema: un “esercito di bocche da sfamare”. Per sopravvivere furono costretti ad imparare uno dei mestieri più antichi del mondo: quello del ladro. A questa fiumana di sbandati vanno aggiunti inoltre più di 20.000 giovani volontari dell’esercito garibaldino; anch’essi liquidati in fretta e furia da Vittorio Emanuele, dopo che ebbero rischiato la vita per conquistare il Regno delle due Sicilie. Tutti andarono ad accrescere il numero già alto degli operai senza lavoro.

            Queste alcune cifre scarne che i governi post-unitari si affrettarono a cancellare dalle cronache, seppellendo frettolosamente i documenti ufficiali tra la polvere degli archivi dei tribunali, delle prefetture e soprattutto dello Stato Maggiore dell’Esercito. Cifre queste, sicuramente parziali ed espresse per difetto, che non rendono appieno l’idea delle vicende che sconvolsero la vita civile del nostro paese all’indomani dell’annessione del Regno di Napoli al nuovo stato unitario, né tantomeno rendono giustizia alla verità storica. Una vera e propria guerra civile dunque, quella che dal 1860 al 1870 impegnò quasi metà dell’intero esercito sabaudo e dove la repressione prese ben presto le sembianze di una delle operazioni militari più lunghe, estenuanti e sanguinose di tutto il Risorgimento italiano. Ma Torino, allora capitale (Firenze lo diventerà nel 1865), era lontana e qualcuno in fondo sperava che la eco di questa carneficina non arrivasse fin li, che il silenzio stemperasse il clamore di ciò che qualcuno si ostinava a considerare semplice recrudescenza del banditismo, ma che il governo, visto gli scarsi risultati dell’intervento armato, per battere fu costretto a promulgare alla fine del 1863 una vera e propria legge di guerra, la Legge Pica che, ironia della sorte, venne promossa proprio da un parlamentare del Sud, appunto Giuseppe Pica dell’Aquila. Fu la carta bianca che permise alle truppe piemontesi e alle milizie volontarie di condurre una vera e propria caccia all’uomo e di infierire sui simpatizzanti, sui familiari e sulle popolazioni in generale.

Tanto o niente si è scritto su questi dieci anni di cronaca italiana, a seconda di come si consideri la faccenda; ma spesso lo si è fatto travisando gli avvenimenti, rispetto a quanto emerge dagli atti di archivio o ignorandoli del tutto sui libri di scuola. 

Questi dieci lunghi anni spesso sono stati cancellati tout court, come a voler disconoscere quel profondo malessere e quella tremenda sofferenza in cui versavano le masse popolari del meridione; un rigetto a considerare quell’embrione di lotta di classe che avrebbe rappresentato il fulcro degli avvenimenti italiani e non solo, nel primo scorcio del ventesimo secolo. 
Ancora oggi, dopo una parziale riabilitazione delle “ragioni” popolari e della figura del “brigante”, ad opera di una storiografia più illuminata e obiettiva, vedono la luce opere tendenziose e anacronistiche, a cui piace anteporre alle disastrose condizioni sociali ed economiche dell’epoca, la sola cosiddetta “ragion di stato”.  

D' altronde  dietro gli impulsi di fumoso patriottismo, ipocrita moralità civica e virilità militaresca, che contraddistinguono  e infarciscono abbondantemente questi testi, si è pronti sempre a nascondere le stragi, i saccheggi, le brutalità, troppe volte perpetrate con crudeltà e senza discernimento alcuno, da un esercito in fondo sceso in queste terre come i precedenti: la mano forte cioè, di uno stato estraneo e lontano, di cui il popolo nulla conosce, impositore solo di leggi e gabelle come sempre esose e insostenibili.

I governi che hanno assistito alla recrudescenza del brigantaggio -per certi versi endemico-, hanno reagito forse legittimamente al sommovimento sociale, ma con uguale ferocia e brutalità; accomunando insieme sotto il termine spregevole di “brigante”, ufficiali borbonici, ex garibaldini, renitenti alla leva, ma anche legittimisti francesi, spagnoli, tedeschi, manutengoli, criminali comuni e soprattutto braccianti e contadini: un ceto sociale intero questo, i cosiddetti “cafoni”, a cui ancora nessuno riusciva a dare una giusta collocazione in un panorama politico e sociale in forte fibrillazione, ma essenzialmente ancora retto secondo schemi e logiche feudali.

Una Italia voluta fortemente unita, ma solo per una sorta di esigenza estetica; il cancro che divorava le popolazioni del sud sembrava non interessare nessuno anzi, intorno al 1865, con il brigantaggio che non accennava ad affievolirsi ma al contrario si riacutizzava, qualcuno paventò l’idea di abbandonare definitivamente le province meridionali al proprio destino.

L’errore più grosso commesso dai  governi del novello stato è stato quello di non voler capire le ragioni complesse che covavano sotto un fenomeno che in fondo era, ed è sempre stato, scontro di classe. Lo sbaglio di rispondere solo militarmente ad una situazione caotica, aggravandola con ulteriori duri provvedimenti (stato d’assedio, coscrizione obbligatoria, caccia indiscriminata a renitenti, sbandati e manutengoli, tribunali militari, nuove tasse), senza mai prendere veramente in considerazione le cause di un conflitto sociale che durava da secoli, misconoscendo quella benedetta”riforma agraria” che da più parti si urlava, condannando di fatto le popolazioni del sud ancora alle angherie e alla miseria, ha regalato all’Italia alcune tra le pagine più amare della sua storia. 
Questa tragica vicenda ha avuto come palcoscenico le montagne che vanno dalla Sila al Cicolano, dall’Aspromonte al Matese. Le montagne abruzzesi e molisane hanno continuato a nascondere fino al 1871, data della cattura del brigante Crocitto, alcune tra le bande brigantesche più irriducibili, quando in Puglia, Basilicata e Calabria l’orda era stata ormai già annientata.

Alti e impervi monti ricchi di anfratti, caverne e profondi canyons, coronano un orizzonte sempre frastagliato ed aspro. Coperti di neve per molti mesi l’anno, hanno offerto per secoli un ottimo riparo a banditi e uomini in fuga, ma anche luogo di sopravvivenza e ritiro per pastori ed eremiti. In un territorio privo di strade, spesse volte lontano da grandi insediamenti urbani, i sentieri nel bosco, le sinuose mulattiere che scavalcano le montagne, e che sole permettono l’accesso a chiuse valli e ad alti valichi,  hanno rappresentato per i briganti l’unico mezzo per muoversi in fretta e in sicurezza durante le scorrerie o durante la fuga da truppe che con il passare del tempo diventavano sempre più intraprendenti e spietate. A questi uomini non restava altro da fare che tornare ai luoghi selvaggi conosciuti sin dall’infanzia e percorrere ancora una volta le tracce che essi stessi ed altri uomini in passato, comunque in cerca di sopravvivenza, avevano inciso sui fianchi della montagna.

            I ”CAFONI”: TANTE PENE, UNA SOLA  UTOPIA

-Lacero e scalzo, curvo e deforme dal disumano lavoro della zappa, il bracciante pugliese nella seconda metà del secolo scorso , e anche oltre, vive in affumicate e luride stamberghe, vere tane di bestie; si nutre ogni giorno di legumi secchi o di erbe, che la sua donna cerca nei sentieri o nei prati. La carne è affatto bandita dal suo desco miserevole, ed anche il pane  per lui è un cibo di lusso, sostituito per lo più da una minuta polvere di orzo, ceci e granone abbrustolito, che gli strozza e corrode la gola affamata. E, triste a dirsi, una classe d’ingordi e tracotanti terrieri non solo ne manomette le sudate fatiche, non solo lo insidia nell’onore, seducendone le consorti e le figlie, ma lo cosparge di ludibrio e irride alla sventura, additandolo coi roventi appellativi di “tamarro”, “cafone”, “villano!”(5). Questa in poche battute la lucida analisi sulle condizioni del bracciante nel Meridione d’Italia fatta da Antonio Lucarelli, storico degli anni ’20, che per altri versi sarà tutt’altro che tenero con la figura del brigante. Egli non fa che riprendere quella più estesa data nel 1863 da Saverio Sipari (ricco proprietario di armenti (!), nonché zio di Benedetto Croce) che recita: -”(...) se non è accasciato (il contadino) dalle febbri dell’aria, con sedici ore di fatica, riarso dal sollione, rivolta a punta la vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piove, e non nevica e non annebbia. Con questi ottantacinque centesimi vegeta esso, il vecchio padre, invalido dalla fatica e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli. Se gli mancano per più giorni gli ottantacinque centesimi il contadino, non possedendo nulla, nemmeno il credito, non avendo che portare all’usuraio o al monte dei pegni, allora vende la merce umana; esausto l’infame mercato, piglia il fucile e strugge, rapina incendia, scanna, stupra, e mangia. (...) Ma il brigantaggio, -conclude l’autore- non è che miseria, miseria estrema, disperata...”(6).
All’epoca in parlamento non mancarono testimonianze obiettive a “favore” delle popolazioni del sud, e molti deputati dell’ala moderata, tra cui il Massari, si fecero promotori di una relazione tesa ad individuare le ragioni del fenomeno: -“(...) Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle provincie appunto, dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice.”- (7). Ciò non impedì loro, poco dopo, di votare comunque la famigerata Legge Pica, che di fatto passava definitivamente le consegne, per la soluzione del caso, ai militari!

Senza dubbio la situazione di generale arretratezza, di crisi economica e culturale in cui versavano gran parte delle province meridionali dell’ex Regno delle due Sicilie, fu la causa principale del secolare fenomeno di ribellismo. Il brigantaggio post unitario, fomentato dagli avvenimenti politici e cavalcato dagli interessi di una parte delle classi agiate, sostanzialmente fu una questione sociale e agraria, l’insorgenza del contadino oppresso che vedeva nei Galantuomini il proprio oppressore: la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie(7).

            ...O BRIGANTE O EMIGRANTE

Furono i Francesi di Bonaparte prima e i Giacobini di Murat dopo, che nel 1799 e nel 1810 usarono per la prima volta il termine spregiativo lesBrigands: “banditi”, per indicare le “masse” di insorti contro lo straniero invasore. In quelle occasioni la repressione fu spropositata e di inaudita crudeltà, portata avanti contro tutta la popolazione indiscriminatamente, come era già accaduto in Vandea; ma per la storiografia ufficiale quelle bande di “lazzaroni”che difendevano le loro terre dagli usurpatori che li gravavano di tasse, li spogliavano dei magri averi e li angariavano in tutti i modi, erano e rimasero briganti. I cartelli con la scritta bandito lasciati a bella posta sui cadaveri massacrati dei proscritti, sono gli stessi che in epoca a noi più vicina, pendevano dal collo dei partigiani impiccati dai Tedeschi durante l’ultima guerra! Purtroppo il confine che ha diviso l’uomo che si arma per difendere il proprio paese, da chi scorre la campagna per derubare il viandante, è sempre stato effimero. In fondo dice Lucarelli, il primo combatte contro una tirannide politica, il secondo contro una usurpazione economica. Dunque: eguaglianza politica ed eguaglianza sociale. Più in generale tutti i secoli passati sono stati o meno angustiati dal problema del brigantaggio, sia di matrice politica che volgarmente delinquenziale. La figura del furfante che coltello alla mano assaliva e derubava il viandante è antica quanto la storia dell’uomo, al punto da azzardare che forse, causa la fame e la miseria che spingono al facile guadagno, essa sia il retaggio di un mondo animale dove abitualmente la sopravvivenza spinge all’aggressione e alla rapina. Tant’è che i viaggiatori dell’ottocento, come il Lear e il Craven, che percorrevano monti e valli dell’Abruzzo a dorso di mulo, erano già al corrente della pessima fama di cui godevano queste contrade. Fama che affonda le sue radici indietro nel tempo, fino all’impero romano.

            Ma chi erano veramente i Briganti? 
Sostanzialmente braccianti e pastori, che per motivi quasi sempre legati all’onore, all’ingiustizia e alla miseria, si erano macchiati di qualche delitto e che nei monti proprio lì, dietro casa, trovavano rifugio. E’ la configurazione stessa del paese che ha favorito oltremodo il fenomeno del brigantaggio: un paese coperto di interminabili catene di montagne altissime e vasti dirupi, di macchie foltissime e di oscure, fitte e immense foreste(4). Le montagne del Gran Sasso e del Velino, i Simbruini e i Monti della Duchessa, ma soprattutto le Mainarde e la Majella, per nominare solo i massicci più importanti, furono teatro di assassinii, saccheggi e ogni altra forma immaginabile di violenza e sopruso, perpetrata metodicamente da più parti. -Ed in mezzo a tutta questa anarchia -scrive Fulvio D’amore- dovevano vivere i nostri contadini, i pastori, i montanari con le loro famiglie, e la gente comune.”(8).
Tra gli stessi briganti c’erano anche ladri, rapinatori o semplici sprovveduti, che facevano di tutto per rendere il loro nome e la loro fama temuta come quella dei lupi, anche al di fuori del circondario ove essi agivano. Questa fama di irriducibile ferocia era daltronte indispensabile per riuscire nelle azioni criminose, quasi sempre ricatti e grassazioni, ma soprattutto per primeggiare tra gli stessi compagni di (s)ventura. Molte figure di briganti sono ricordate per il particolare ardimento, la forza fisica e la sagacia, che per lunghi anni li portò a sfuggire la cattura, beffando le ingenti forze di polizia che ad essi davano la caccia. Questa fama ha sempre rappresentato le due facce di una stessa medaglia: figura di giustiziere quasi mitica per le plebi, belva feroce per i ”ricchi”. La realtà in verità presentava più sfaccettature; il fenomeno è sempre stato molto complesso e non riconducibile a facili schematismi, ma in linea di massima avendo le classi agiate un patrimonio, spesso più che rilevante da proteggere, rappresentavano chiaramente i soggetti a ragione più intimoriti. Di contro, il bracciante e il pastore non avevano nulla da perdere. -”...Non può venire più buio della mezzanotte!”-  recita ancora un detto popolare; essi anzi avevano qualcosa da guadagnare e moralmente e materialmente, dalla convivenza forzata con il brigante. Ma la vita del brigante non è stata certamente un idillio; una vita errabonda per monti e selve aveva reso questi uomini insensibili ad ogni sofferenza e indifferenti alla più elementare pietà umana. In una guerra così fratricida non ha senso la ricerca del “chi ha iniziato per primo”, le efferatezze e le brutalità  furono commesse da entrambe le parti. -Indubbiamente tra i briganti non pochi furono quelli che la miseria, l’ignoranza, la mancanza di un lavoro certo, e anche gli istinti perversi, spinsero a malfare e a porsi fuori dalla legge comunemente accettata, per soddisfare ciechi impulsi di vendetta e di rapina. Ma molti altri furono posti, dalle circostanze e dalla società in cui vissero, dinanzi all’alternativa di vivere in ginocchio o di morire in piedi.”(9). Il brigante non era tenero neanche con se stesso; all’interno delle bande vigeva una disciplina ferrea: la viltà e la disobbedienza erano pagate quasi sempre con la morte. Ma tutto ciò non impediva loro di essere religiosissimi; una religione lugubre e fatalista, intrisa di marcata superstizione, la sola in grado di nutrire quella speranza di scampare quotidianamente alla morte, soli e senza il conforto di chicchessia. Le foto d’epoca o le stampe del brigante con il crocefisso o il santino appuntato sul cappellaccio o in bella mostra sul corpetto, hanno fatto il giro del mondo.
Le vicende degli ultimi anni del brigantaggio sono cronache legate ad un istinto ferino da parte del brigante a sopravvivere, e questo dipenderà sempre più dall’appoggio delle popolazioni. Quando questa condizione verrà a mancare saranno solo scene di disperazione: fame, freddo e fatica. Sarà una spirale di inganni, vendette e delazioni. Per il brigante non v’è futuro, braccato ormai senza tregua, ogni momento addosso il fiato degli inseguitori, egli non avrà scampo: gli ultimi irriducibili saranno inseguiti, scovati ed uccisi, uno ad uno. Né d’altronde potevano aspettarsi clemenza da uno stato che aveva ingaggiato con loro una lotta senza quartiere, da chi non aveva esitato ad ammazzare e ad imprigionare amici, parenti, innocenti o semplicemente sospettati di connivenza, di chi aveva voluto ignorare le ragioni sociali di quella tragedia. Chi pensò di arrendersi fu ammazzato comunque, come un cane rabbioso. -L’orrore in fondo aveva dominato a lungo nell’animo di questi uomini, l’orrore per una fine quasi certa, in combattimento o per tradimento nella selva o fucilati in una piazza.”- (2). Il loro coraggio è stato quello più difficile da abbattere: il coraggio e la determinazione di chi non ha speranza di sopravvivere. I sopravvissuti, pochi, languiranno in carcere per il resto dei giorni. La morte li coglierà nell’abbandono senile in tetri sanatori, dove tutto è ormai lontano e ovattato e non v’è posto per i ricordi tremendi.
Sul contadino, protagonista e vittima allo stesso tempo degli avvenimenti storici, scenderà ancora una volta il sipario. Molti anni dovranno passare ancora, per dimostrare che un ordine politico e sociale, basato su una legge che favoriva i ricchi e i potenti, era ormai fuori dalla realtà dei tempi.
Altro sangue scorrerà sulle piazze e nelle campagne del meridione, ma nel frattempo la storia italiana avrà conosciuto un’altra fase importante: sarà un esodo biblico, quello dell’emigrazione, che vedrà le genti del Mezzogiorno partire nella sconfitta e nella disperazione.
Di nuovo il bracciante dei paesi riarsi dalla calura e rosi dalla miseria non avranno scelta, il destino riserverà loro una sola alternativa: ...o briganti o emigranti!
Sui nostri monti, se non i ricordi brucianti, restano ovunque le tracce della tragedia: -”(...) non c’è capanna laggiù senza una lugubre leggenda; non c’è macchia né roccia senza tracce di sangue; non c’è un antro, un viottolo che non sia servito ad un imboscata; non una eco che non abbia risuonato per i colpi della fucileria, per le grida di morte e di disperazione.”(10).

       Note bibliografiche:
1) “La Via dei Carrettieri”, V. Battista, L’Aquila 1997;
2) “Il Brigantaggio Meridionale”, A. De Jaco, Roma 1976;
3) “Sirente: Crocevia di briganti”, P. Casale, Chieti 1999;
4) “Il brigantaggio alla frontiera pontificia”, A. Bianco de Saint Jorioz, 1864;
5) “Il Sergente Romano. Il brigantaggio pugliese del 1860”, A. Lucarelli, Bari 1922;
6) “Storia del Regno di Napoli”, B. Croce, Bari 1926;
7) ”Relazione della Comm. parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio”, G. Massari, Roma 1863;
8) “Gli ultimi disperati. Sulle tracce dei briganti marsicani prima e dopo l’unità”, F. D’Amore, l’Aquila 1994.
 9) “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, F. Molfese, Milano 1966;
   10) “Memorie di Gasparoni”, P. Masi, Parigi 1867 

fonte:




BRIGANTI BANDITI O PATRIOTI ?

Questa ricerca non vuole giustificare le azioni del brigantaggio, molte delle quali negative, ma solo cercare di capire la motivazione che induceva semplici popolani, contadini, ex soldati borbonici, persino ex garibaldini a intraprendere questa difficile e “impopolare” vita.

In fondo, la gente del sud non ha mai accettato completamente la condanna senza appello dei briganti. Dopo l’unità d’Italia violenze e crudeltà ci sono state dall’una e dall’altra parte, non tutti i briganti erano volgari tagliagole e che c’era chi aveva, comunque un rudimentale senso di giustizia.
 Il brigantaggio è stato una cronaca delle nostre regioni. 


L’economia e la società meridionale ha dovuto pagare i conti delle guerre, delle lotte per la conquista e la difesa del poter dei sovrani e baroni.
Le bande guidate da popolani, da borghesi e anche da sacerdoti, e che raccolgono impiegati, soldati sbandati, contadini e pastori difendono la loro patria e la loro religione. Il motivo legittimistico è dominante e le modalità della guerriglia, capace di unire aristocratici e popolo, sono tali da richiamare alla mente l'epopea vandeana.

 Il Brigantaggio, dunque, è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto fra due mentalità, fra due differenti impostazioni culturali, ma soprattutto ha rappresentato l'espressione più macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, dunque, costituisce l'ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con la difesa di Roma a opera degli zuavi, per combattere la Rivoluzione con le armi


. Il brigantaggio non era  solo un fenomeno del mezzogiorno ma imperversava anche in Lombardia e in Romagna. Del brigantaggio si sono interessati criminologi, politici, militari, narratori e storici. Brigante patriota e ribelle all’oppressione? A distanza di anni non è ancora possibile rispondere.

Il brigantaggio non nasce da una brutale tendenza al crimine, ma da una vera e propria  disperazione ma è la protesta della miseria contro antiche e secolari ingiustizie, agli occhi dei contadini, il brigante diventava un essere speciale un paladino, un simbolo, un vendicatore dei torti da loro subiti, era colui che aveva il coraggio per ottenere quella giustizia che la legge non riusciva a dare.

 Alla caduta del Regno delle due Sicilie, i poveri si erano ritrovati ancora più poveri, i vincitori avevano cominciato ha imporre tasse e la leva obbligatoria, la terra promessa, mai data, la brutale repressione, con villaggi  e paesi bruciati e distrutti, legge marziale e esenzioni, dettata dalla legge Pica:

 Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria, esasperando ancora di più la popolazione, deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di "briganti") costretti ai ferri carcerari .

 "Chi sono i Briganti?
 Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi.
Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto.
 Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d'uomo, non ha farmachi.
Tutto gli è stato rapito dal prete al giaciglio di morte o dal ladroneccio feudale o dall'usura del proprietario o dall'imposta del comune e dello stato.
 Il contadino non conosce pan di grano, nè vivanda di carne, ma divora una poltiglia innominata di spelta (farro), segale omelgone, quando non si accomuni con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra matrigna a chi l'ama.
Il contadino robusto e aitante, se non è accasciato dalle febbri dell'aria, con sedici ore di fatica, riarso dal sollione, eivolta a punta di vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piobe, e non nevica e non annebbia. Con questi ottanticinque centesimi vegeta esso, il vecchio padre, spesso invalido dalla fatica già passata, e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli. Se gli mancano per più giorni gli ottantacinque centesimi, il contadino, non possedendo nulla, nemmeno il credito, non avendo da portare nulla all'usuraio o al monte dei pegni, allora (oh, io mentisco!) vende la merce umana.; esausto l'infame mercato, pigli il fucile e strugge, rapina, incendia, scanna, stupra, e mangia.


Dirò cosa strana: mi perdonino. 


Il proletario vuol migliorare le sue condizioni nè più nè meno che noi. Questo ha atteso invano dalla stupida pretesa rivoluzione; questo attende la monarchia. In fondo nella sua idea bruta, il brigantaggio non è che il progresso, o, temperando la crudezza della parola, il desiderio del meglio. Certo, la vita è scellerata, il modo è iniquo e infame...Ma il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e la fanno perdurare. Si facciano i contadini proprietari. Non è cosa così difficile, ruinosa, anarchica e socialista come ne ha la parvenza. Una buona legge sul censimento, a piccoli lotti dei beni della Cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante...Date una moggiata al contadino e si farà scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le orde straniere e barbariche dell'Austro-Francia".  F.S Sipari di Pescasseroli (Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli). Il fenomeno del brigantaggio nasce in Abruzzo fin dal 1500, con le imprese di Marco Sciarra, i fratelli Felice e Giuseppe Marinucci e Antonio La Vella, alias Scipione, la Banda degli Introdacquesi, che ebbe come rifugio ideale i fitti boschi del monte Plaia, nonché le montagne fra Introdacqua, Scanno e Frattura. I capi storici furono Giuseppe Tamburrini, alias Colaizzo, Concezio Ventresca, alias Liborio, Pasquale Fontanarosa e Pasquale Del Monaco, a Pacentro fu molto attiva la banda capeggiata da Pasquale Mancini, alias il Mercante, diventato brigante dopo essere evaso dal carcere nei primi mesi del 1861. Alla sua morte Giovanni Di Sciascio, alias Morletta, di Guardiagrele, assunse il comando della banda, chiamata poi Banda della Majella: la compagnia di briganti più organizzata e tristemente famosa dell'intero Abruzzo.
 Si avvicendarono al comando vari briganti tra cui Domenico Di Sciascio, fratello di Giovanni, Salvatore Scenna, di Orsogna, e Nicola Marino, alias Occhi di uccello originario di Roccamorice, La banda fu protagonista di numerosi saccheggi nei paesi di Pretoro, Pennapiedimonte, Caramanico, Salle, Guardiagrele, Palena e Tocco da Casauria (nel 1866).
Altro componente della banda fu Angelo Camillo Colafella che l'11 gennaio del 1861 invase San Valentino, liberando dal carcere locale una quarantina di detenuti. Domenico Di Sciascio si unì successivamente a Domenico Valerio, alias Cannone, considerato il più famigerato dei briganti. La banda, con i suoi numerosi componenti, rimase attiva fino al 1868.
Infine, tra le bande più temibili e longeve (si sciolse solo nel 1871), può essere annoverata quella capeggiata da Croce di Tola, alias Crocitto, pastore di Roccaraso. Fu protagonista di numerosi misfatti ma in particolare era un abile autore di biglietti di ricatto (che ho riportato qui in calce) con i quali otteneva soldi, vestiti e generi alimentari, indispensabili al proprio sostentamento e a quello dei suoi gregari. Il 5 giugno del 1871 venne catturato vivo dal carabiniere Chiaffredo Bergia, condannato a morte per fucilazione nel 1872, pena poi convertita all'ergastolo. Questo arresto, insieme alla cattura nel 1871 di Primiano Marcucci di Campo di Giove, segna la fine del brigantaggio nella Valle Peligna. Sparacannone è stato attivo tra la zona di Penne e quella di Pescara a fine Ottocento. Fu detto brigante alquanto impropriamente, perché la sua carriera fu più simile a quella di un bandito romantico e disilluso, piuttosto che a quella di un fiero avversario di principi e baroni, organizzato come era, in una banda e dedito alla puntuale contravenzioni alle leggi. Dopo un'amara vicenda riguardante un omicidio su commissione per conto di un Arciprete di Pescara, Sparacannone, detto anche il Brigante di Penne, diede vita a una delle più avvincenti saghe banditesche dell'Area Vestina, con ampi riflessi nella cultura popolare, tanto da diventare soggetto di numerose canzoni da cantastorie.

 Oltre in Abruzzo il Brigantaggio era presente anche in altre regioni d’Italia oltre al mezzogiorno ad esempio: Carmine Crocco che dalla Basilicata spinse le sue scorribande in Puglia fino in Molise; Ciro Annicchiarico detto Papa Ciro in Puglia; Antonio Gasparoni nel Lazio; Il napoletano Michele Arcangelo Pezza detto Fra Diavolo, una figura molto ambigua ma anche molto popolare perché  oltre a commettere efferati delitti, combattè i francesi;
Tra i briganti non meridionali non poteva mancare Stefano Pelloni detto il Passatore attivo in  Romagna datosi alla macchia, entrò a far parte di un gruppo assai variabile come consistenza e zone d'azione, del quale (come uso tra i briganti dell'epoca) egli non divenne il vero capo, ma una importantissima figura di riferimento; e addirittura il brigante del ventesimo secolo con Giuseppe Musolino, conosciuto come u rre dill'Asprumunti (il Re dell'Aspromonte), o meglio ancora come il brigante Musolino Santo Stefano in Aspromonte, Reggio Calabria che uccise sette persone, ma era incolpevole del delitto per il quale fu condannato inizialmente a 21 anni di carcere.

 Storia, legenda, alla fine sarà il lettore a rendersi conto, dalle varie versioni di quello che è accaduto ed a valutare i fatti.

fonte: http://www.vivamafarka.com/forum/index.php?topic=98820.0;wap2

IL BRIGANTAGGIO in Abruzzo


IL BRIGANTAGGIO

Il brigantaggio

Il fenomeno del brigantaggio nasce in Abruzzo fin dal 1500, con le imprese di Marco Sciarra. La Majella, con le sue grotte, fitte faggete, valloni e precipizi, � stata al centro degli episodi pi� noti. L'epoca di massima espansione del fenomeno si ebbe subito dopo la conquista, da parte dei Piemontesi guidati da Garibaldi, delle regioni del Regno di Napoli, ossia fra il 1860 e il 1870, quando, dopo l'iniziale entusiasmo, iniziarono ad emergere i primi malcontenti. I Borboni avevano infatti dominato per secoli imponendo uno stato protezionistico e assolutistico e molto legato al clero. I Piemontesi introdussero invece leva obbligatoria, leggi anticlericali, libero commercio ma anche nuove tasse.
In Abruzzo la radice politica sembra esclusa in quanto si tratt� soprattutto di un fenomeno malavitoso, derivato comunque dal malcontento dei contadini che vivevano da secoli nell'indigenza e nell'ignoranza. Gi� nel 1863 si erano costituite una decina di bande, armate di schioppi, revolver e stili, organizzate come veri e propri reparti militari (ogni componente aveva un segno distintivo in funzione del ruolo e del grado gerarchico).
Le prime notizie di brigantaggio a Sulmona risalgono al 1860: protagonisti principali furono i fratelli Felice e Giuseppe Marinucci e Antonio La Vella, alias Scipione, ex soldato dell'esercito borbonico.
La banda Marinucci-La Vella, detta anche dei Sulmontini, oper� isolatamente nella Valle Peligna, fino al Bosco di Sant'Antonio e Pescocostanzo, ma non super� mai i 30 elementi. Si rese famosa per alcuni omicidi e innumerevoli furti.
La Vella fu catturato quasi subito, nell'ottobre del 1861. Felice rimase ucciso in un conflitto a fuoco nel 1862 e venne esposto sulla scalera dell'Annunziata con un cartello sulle gambe, a monito per i briganti locali. Giuseppe si costitu� dopo una breve fuga e fu condannato a vent'anni di carcere. Tutti i componenti della banda furono processati e condannati nell'ottobre del 1863.
Molto attiva fu anche la Banda degli Introdacquesi, che ebbe come rifugio ideale i fitti boschi del monte Plaia, nonch� le montagne fra Introdacqua, Scanno e Frattura. I capi storici furono Giuseppe Tamburrini, alias Colaizzo, Concezio Ventresca, alias Liborio, Pasquale Fontanarosa e Pasquale Del Monaco. Si resero protagonisti di estorsioni di denaro, pecore e asini, minacce, omicidi e sequestri di persona per un totale di pi� ben 61 reati (come risult� poi nel processo del gennaio del 1868).
A Pacentro fu molto attiva la banda capeggiata da Pasquale Mancini, alias il Mercante, diventato brigante dopo essere evaso dal carcere nei primi mesi del 1861. Alla sua morteGiovanni Di Sciascio, alias Morletta, di Guardiagrele, assunse il comando della banda, chiamata poi Banda della Majella: la compagnia di briganti pi� organizzata e tristemente famosa dell'intero Abruzzo. Si avvicendarono al comando vari briganti tra cui Domenico Di Sciascio, fratello di Giovanni, Salvatore Scenna, di Orsogna, e Nicola Marino, alias Occhi di uccello originario di Roccamorice.
La banda fu protagonista di numerosi saccheggi nei paesi di Pretoro, Pennapiedimonte, Caramanico, Salle, Guardiagrele, Palena e Tocco da Casauria (nel 1866). Altro componente della banda fu Angelo Camillo Colafella che l'11 gennaio del 1861 invase San Valentino, liberando dal carcere locale una quarantina di detenuti. Domenico Di Sciascio si un� successivamente a Domenico Valerio, alias Cannone, considerato il pi� famigerato dei briganti. La banda, con i suoi numerosi componenti, rimase attiva fino al 1868.
Infine, tra le bande pi� temibili e longeve (si sciolse solo nel 1871), pu� essere annoverata quella capeggiata da Croce di Tola, alias Crocitto, pastore di Roccaraso. Fu protagonista di numerosi misfatti ma in particolare era un abile autore di biglietti di ricatto (che ho riportato qui in calce) con i quali otteneva soldi, vestiti e generi alimentari, indispensabili al proprio sostentamento e a quello dei suoi gregari. Il 5 giugno del 1871 venne catturato vivo dal carabiniere Chiaffredo Bergia, condannato a morte per fucilazione nel 1872, pena poi convertita all'ergastolo. Questo arresto, insieme alla cattura nel 1871 di Primiano Marcucci di Campo di Giove, segna la fine del brigantaggio nella Valle Peligna.

fonte: http://www.abruzzoweb.it/contenuti/il-brigantaggio/122-271/

lunedì 6 giugno 2011

Il brigantaggio in Abruzzo


"Uno studio del cosiddetto brigantaggio sviluppatosi nel Mezzogiorno al momento dell'unificazione risulta arduo non soltanto a causa della cortina di silenzio che la carità di patria volle stendere su di esso, ma anche perché uno studio del genere è costantemente esposto al pericolo di frammentarsi nell'analisi di un fenomeno complesso e confuso nelle sue manifestazioni, per alcuni versi ancora tanto oscuro, e che a prima vista sembra confermare la corrente convinzione che vi prevalga assolutamente l'elemento spontaneo, e quindi tutto sia frazionato, particolare, caotico".

Così scriveva nel 1964, nella sua Storia del brigantaggio dopo l'unità, Franco Molfese, riferendosi genericamente al meridione d'Italia. Ma le sue parole vanno bene anche per la nostra regione. I briganti nella storia d'Abruzzo: è il tema di questo quarto capitolo. Non si può certo dire che essi, i briganti, costituissero un ceto sociale a sé: e sembra strano, quindi, che li si presenti come una categoria ben definita, diversa da quelle, che abbiamo già trattato, dei contadini, dei pastori, dei pescatori o degli artigiani.

Briganti, infatti, potevano essere tutti: il povero bracciante, come il nobile e ribelle avventuriero; il pastore del tratturo, come l'artigiano intraprendente o squattrinato; il giovane scapestrato, come il frate devoto.

 
"Uomo si nasce, brigante si muore,
ma fino all'ultimo dobbiamo sparà;
e se moriamo, portateci un fiore,
e ‘na bestemmia pe' ‘sta libertà".
Tuttavia, essendo la storia dell'Abruzzo - specialmente dal Cinquecento all'Ottocento - costellata di episodi di banditismo o di ribellione sociale, favoriti sia dalle misere condizioni economiche di gran parte della popolazione, sia dalla struttura montuosa del terreno o dalla posizione di frontiera al confine con lo Stato Pontificio, è possibile immaginare anche questa "categoria sociale" come gruppo a sé, ben caratterizzato rispetto agli altri gruppi o al resto della popolazione.

 
LA "CULTURA" DEL BRIGANTE
 

E' vero che briganti non si nasce, ma si diventa ("Uomo si nasce, brigante si more", recita la canzone popolare citata in precedenza): e lo possono diventare tutti, ricchi e poveri, nobili e cafoni. Ma è anche vero che, allorquando si sia fatta quella scelta, di diventare cioè briganti, si debbano necessariamente assumere modi e consuetudini legati al proprio nuovo ruolo. Nasce, quindi, una "cultura" del brigante, per cui, alla fine, costui si distingue nettamente dal non-brigante.  I briganti non sono una classe sociale: ma costituiscono certamente un gruppo ben definito, con sue regole, suoi comportamenti specifici, suoi luoghi di aggregazione.

E' per questo che si è ritenuto opportuno, in questa sede, parlarne come di una specie di categoria a sé. E il primo segnale di riconoscimento, di distinzione, per un brigante, era il suo abbigliamento. Ecco come li descriveva Beniamino Costantini, autore, verso la fine dell'Ottocento, di un interessante volume sul brigantaggio negli Abruzzi: "I briganti dei nostri Abruzzi [...] studiavano ogni mezzo per incutere nel popolo maggior paura. Era loro abitudine di non tagliarsi mai né capelli né barba. Sopra il vestiario portavano una cinta di cuoio detta padroncina, entro cui si conservavano munizioni e denaro, e dove erano appesi pugnali, pistole, rivoltelle. Compivano il vestimento le così dette ciocie e un cappello a punta, ornato di piume di pavone o di cappone, di cornettini di coralli e di altri segni. Nell'inverno, si aggiungeva un ampio e pesante mantello di lana turchina o di color marrone. E spesso erano armati di ottimi fucili che, non di rado, venivan loro procurati dagli agenti borbonici del vicino Stato Romano".

D'altra parte, essere briganti significava anche obbedire ad un codice di comportamento che aveva le sue proprie regole, una specifica simbologia, precise finalità, i suoi "valori" (che, dopo il 1860, corrispondevano espressamente a quelli del legittimismo borbonico):

"Noi giuriamo dinanzi a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre), e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel Regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal Comitato Centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de' Sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IV. Noi promettiamo anche, coll'aiuto di Dio, di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale, Vittorio Emanuele, e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo!".

Questo appena letto è il testo del giuramento (tratto dal volume di Marco Monnier, Notizie storiche documentate sul brigantaggio, edito a Firenze nel 1862), che i briganti del periodo post-unitario pronunciavano prima di partire per le loro spedizioni anti-piemontesi. E' anch'esso, in fondo, un segnale delle contraddizioni presenti nella figura e nel ruolo del brigante, la cui vita era uno strano miscuglio di violenza e di pietà, di odio spietato e di religiosità profonda. E' ancora Beniamino Costantini a ricordare come i briganti abruzzesi portassero spesso, con sé, amuleti e immagini di Madonne e altri Santi protettori: e su tali immagini, poi, venivano scritte le più strane preghiere.

 
IL BRIGANTAGGIO PRE-UNITARIO
 

Ma il brigantaggio, in Abruzzo e nel meridione, non fu soltanto quello filo-borbonico e antipiemontese. Da sempre, invece, la letteratura narrativa e cronachistica sull'Abruzzo ha calcato l'accento su una permanente fisionomia brigantesca di questa regione, come se essa fosse costitutiva, quasi naturale, nella geografia antropica abruzzese. Già verso la fine del Quattrocento, un anonimo visitatore (che qualcuno ha creduto di identificare in Leonardo da Vinci), in occasione di un suo viaggio verso l'interno dell'Abruzzo, così raccontava: "Negli Abruzzi vi sono molti briganti, i quali per rubare le mercanzie uccidono coloro che fanno i mercanti". E, accomunando l'Abruzzo al resto del meridione, lo stesso viaggiatore così spiegava il fenomeno:

"Gli Abruzzi si trovano nel Regno di Napoli dove vi sono molti briganti, perché nel Regno di Napoli vi sono molte persone che non hanno nulla da mangiare".
Sintomatici sono i versi di una canzone popolare, cantata dal complesso Musicanova e intitolata Quanno sona la campana (qui ne diamo una libera trascrizione in italiano):

"E poi viene il re Normanno
che ci fa danno,
e poi viene l'Angioino che ci rovina,
e poi viene l'Aragonese, oh che sorpresa,
e poi viene il re Spagnolo che mariolo,
e poi viene il re Borbone che non è buono,
e poi viene il Piemontese che ci vuol bene:
che possa essere cecato chi non ci crede,
che possa morì' ammazzato
chi non ci crede".

Quindi, già dal XV secolo, la ragione fondamentale dell'esistenza del brigantaggio abruzzese (e meridionale in genere) veniva individuata nelle condizioni economiche, politiche e sociali di queste popolazioni. E' un'interpretazione, che farà molta fortuna in seguito, anche quando si parlerà quasi esclusivamente del brigantaggio borbonico, più vicino a noi nel tempo e politicamente meglio caratterizzato rispetto a quello quattro-seicentesco. Uno studioso abruzzese della fine dell'Ottocento, Enrico Casti, così spiegava la genesi del brigantaggio aquilano in epoca spagnola: "Le genti del contado, strappate alla materna giurisdizione della città e oppresse dal duro giogo de' nuovi feudatari, cominciarono a formare terribili comitive di banditi, che rendevano pericolosi i passi delle montagne: e i governanti, per dar la caccia a quei banditi, costrinsero i Signori del Magistrato ad imporre una nuova tassetta e riassoldare i veterani spagnoli, non meno feroci e non più sicuri de' predoni di strada".

Un banditismo endemico, dunque, le cui tracce permangono anche nei secoli successivi, tanto che un altro viaggiatore straniero, questa volta della seconda metà del Settecento, il barone Carlo Ulisse de Salis Marschlins, così annotava nel suo diario di viaggio:

"Durante il mio viaggio in Abruzzo mai, fortunatamente, ebbi la sventura di essere assalito dai briganti; però i numerosi segni posti a memoria di coloro che erano stati martirizzati o afforcati sul posto, mi provarono l'esistenza del pericolo, e le barbarie che erano state commesse dagli assassini".
E quasi un secolo dopo, il Gregorovius, parlando della provincia dell'Aquila scriveva così: "Questa solitaria contrada, dopo la Calabria, è la più frequentata dai briganti. Fino al 1860 ne era abbondantemente infestata, e ancora se ne incontrano nei dintorni di Sulmona".

 
LE "RAGIONI" DEL BRIGANTAGGIO
 

Ben presto, dunque, il brigantaggio abruzzese - pur nella varietà delle sue manifestazioni - viene considerato da gran parte della storiografia come la naturale reazione delle povere popolazioni della campagna e della montagna a condizioni di vita disumane e miserevoli. Tale interpretazione è stata alla base di un lungo e interessante programma radiofonico, La luna aggira il mondo e voi dormite, realizzato dalla RAI nel corso del 1979:

"Al fondo della ribellione c'è il problema della terra. Il contadino si organizzò la rivolta. All'inizio fu come un gioco d'infanzia: a nascondino, dietro le masserie, nelle mangiatoie e nei pagliai, coi compagni del villaggio. Dalle scarpate arrivavano gli altri: calzolai, fabbri, e persino qualche studente e qualche prete. Si costruirono armi come giocattoli, alla buona, facendo la punta ai forconi e le lame alle falci. Le donne si perfezionarono nell'arte della vivandiera, dell'amore degli uomini e dell'amore per la causa. Qualcuna, sparse le trecce morbide, confezionò munizioni e propositi di battaglia. Quando il gioco cominciò a diventare pericoloso, tutti si nascosero nei boschi: l'ombra del regno vegetale ne falsò le dimensioni e alimentò le paure, come se le radici nascondessero la città militare immaginata da Verne. La legge trovò loro un nome feroce: li chiamò briganti, per darsi coraggio e per intimidire quanti, anche senza volerlo, avessero udito il richiamo di Robin Hood".

Ed ecco quel che esprime un'altra canzone popolare, cantata dal lucano Pietro Basentini, riassuntiva - in maniera elementare - delle ragioni più profonde e più istintive delle scelte di vita dei briganti anti-piemontesi nel meridione:

"Gli avevano promesso la terra
e invece gli fecero guerra;
gli hanno ucciso moglie e figli
come se fossero conigli.
E per completare la festa,
gli tagliarono pure la testa.
E' per questa ragione
che rivolevano il re Borbone".


 
LA FIGURA DEL BRIGANTE
 

I capi-briganti, e non solo quelli dell'Ottocento, venivano spesso immaginati e descritti come uomini crudeli, ma dignitosi e quasi eroici, amanti più della giustizia che della rapina; e, talvolta, anche signorilmente originali e galanti in taluni loro comportamenti. Marco Sciarra, bandito cinquecentesco, soprannominato "il re della campagna", sapeva essere feroce con i nemici, ma raffinato con le donne e generoso con coloro che mostravano coraggio. Così ha scritto di lui lo storico teramano Niccola Palma nella sua Storia della città di Teramo: "Credesi ch'egli avesse sempre rispettato e, per quanto poté, fatto rispettare da' suoi l'onor delle donne: ch'essendo venuto in chiaro di alcune licenze de' compagni su tale materia, li convocasse, e così gli sgridasse: Figliuoli, siamo di già perduti, in breve saremo disfatti. E che incontrandosi nelle vicinanze di Ripattone con una sposa, la quale andava la prima volta a casa del marito, smontò da cavallo, volle ballare assai modestamente con essa e colle altre donne di accompagno: regalandola poscia del suo, e di una questua che col cappello in mano le procurò dagli altri banditi".Questo alone di leggenda, che abbiamo visto circondare la figura di Marco Sciarra, avvolge anche altre figure più recenti di briganti: da Giulio Pezzola a Fra Diavolo fino al famigerato Luigi Alonzi, soprannominato Chiavone:

"Partìa da Roma a Napoli
questo feroce nato,
che nel libro dell'anime
Chiavòn venìa chiamato.
E di sue imprese ignobili
diede feroce un saggio,
quando diéssi a percorrere
l'infame brigantaggio.
Sicché da ognun detèstasi
il perfido Chiavone,
che fu brigante celebre
nei fasti del Borbone".
Dunque, un "feroce nato", un uomo dalle "imprese ignobili", detestato da tutti, eppur "brigante celebre nei fasti del Borbone": così ce lo presentavano le filastrocche recitate tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento dai cantastorie popolari, allora frequenti in tutte le contrade abruzzesi.


 
UN "GIUDIZIO" SUL BRIGANTAGGIO ABRUZZESE
 

Abbiamo ricordato tre briganti celebri: Giulio Pezzola, del Seicento; Fra Diavolo, vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento; Chiavone, operante dopo l'unità d'Italia. Il primo, il Pezzola, visse e combatté in Abruzzo in favore del potere spagnolo, ai tempi della rivolta napoletana di Masaniello: ed è ricordato ancor oggi - secondo una certa tradizione popolare - come "il fantasma del convento", l'amico dei frati e... delle belle donne. Fra Diavolo, l'inafferrabile capo-massa di Fondi, il cui vero nome era Michele Pezza duca di Cassano, agì nel periodo delle due occupazioni francesi del meridione in Terra di Lavoro e nella Val Roveto in Abruzzo. Infine, il terribile Chiavone fu famoso per i suoi assalti improvvisi e i suoi folli amori lungo tutta la zona di confine tra l'Abruzzo e lo Stato Pontificio.

Quale giudizio possiamo dare, oggi, di questo brigantaggio abruzzese dal Cinquecento all'Ottocento? Di contro all'interpretazione tradizionale, quella cioè del brigantaggio come "attacco in massa alla ricchezza privata" e "prosecuzione ed estensione anarchica della lotta contro la rendita" (che è la tesi sostenuta da Rosario Villari), l'aquilano Raffaele Colapietra propone una diversa ipotesi:
"L'interpretazione del Villari, della quale sono evidenti le connessioni più o meno arbitrarie con espressioni rivoluzionarie contadine abissalmente diverse nel tempo e nello spazio da quella abruzzese cinquecentesca, è stata sottoposta a critica radicale tanto per quanto concerne i criteri metodologici generali, quanto nello specifico ambito regionale, che qui più propriamente ci concerne".

Secondo Colapietra, dunque, il brigantaggio di prima del Cinquecento sarebbe stato "essenzialmente aristocratico e altoborghese, d'ispirazione esclusivamente politica"; quello dal Cinquecento in poi, un miscuglio tra rivendicazioni di carattere economico e sociale dei ceti umili e "particolarismo anarchico feudale", con la complicità "del clero regolare dei conventi rurali"; quello del 1799 e 1806 (contro l'invasione francese del Mezzogiorno) "di ispirazione tradizionalista armentaria e aristocratica"; e, infine, quello dal 1860 in poi, un compromesso tra politica legittimistica borbonica ed esigenze sociali contadine:

"L'Abruzzo è naturalmente la regione in cui le due componenti principali del brigantaggio, la politica legittimistica borbonica e la sociale contadina autonoma, si intersecano più strettamente, almeno all'indomani dell'unità. La vicinanza di Roma e di Gaeta, il gran numero di sbandati specie dopo la battaglia del Macerone, le tradizioni del fuoruscitismo e del contrabbando attraverso la frontiera pontificia, tutto cospirava a ribadire legami considerevoli con Francesco II, il quale, non si dimentichi, si era personalmente indirizzato agli Abruzzi alla fine del 1860 in termini arieggianti quelli [...] del bisnonno Ferdinando". Come si vede, dunque, con Colapietra si ribalta la visione tradizionale del brigantaggio abruzzese, che non è più soltanto "una forma di protesta estrema che nasceva dalla miseria" (come aveva scritto Franco Molfese), ma diventa un fenomeno di gran lunga più articolato e complesso, che va al di là di una pura e semplice divisione in classi o di una troppo schematica contrapposizione tra ricchi e poveri.

Siamo sostanzialmente d'accordo con Raffaele Colapietra. Vorremmo aggiungere, però, un ulteriore spunto di riflessione: sarebbe molto interessante, ad esempio, studiare l'intreccio dei rapporti tra clero (non solo quello rurale) e contadini o le ragioni più profonde del contrasto tra la Chiesa locale e le nuove autorità politiche italiane, tra vecchia nobiltà terriera e nuova borghesia agraria e imprenditoriale, per poter comprendere le cause più vere e profonde dell'ultimo brigantaggio abruzzese. "La Curia vescovile di Teramo è composta da soggetti che sono notoriamente designati siccome avversari dell'attuale ordine di cose e come tali grandemente invisi agli uomini liberali senza distinzioni".

Sono, queste, le parole che il prefetto di Teramo, in data 7 gennaio 1864, indirizzava al Ministero dell'Interno, aggiungendo di essere contrario al ritorno del vescovo monsignor Michele Milella nella sua sede, perché "si potrebbe temere che Monsignor Vescovo possa servire di capo al Partito Borbonico, per promuovere la reazione e il brigantaggio". A queste notizie, che ricaviamo da uno studio di Nicola Petrone sul periodo post-unitario, si aggiungono quelle riguardanti le altre province abruzzesi, dove le autorità politiche si mostravano, se non ostili, certamente diffidenti nei confronti sia del basso clero, sia della stessa gerarchia ecclesiastica, di cui sospettavano i legami con i nostalgici e persino con i briganti.

 
L'ORGANIZZAZIONE DEL BRIGANTE
 

Ma torniamo al tema vero e proprio di questo capitolo: come nasceva, cioè, e come si organizzava il "brigante". "E a noi contadini ci chiamano briganti, noi lottiamo per il pane e per tirare avanti, ma non ci fermeranno né carcere né fame, la terra, l'acqua, il sole sapremo liberare".

Franco Molfese, nella sua Storia del brigantaggio dopo l'unità, così scrive a proposito del reclutamento dei briganti: "I componenti delle bande venivano, in generale, reclutati dai comitati borbonici e, in particolare, dal generale Statella, tra i braccianti abruzzesi che annualmente si recavano a lavorare nelle grandi tenute dell'Agro Romano. Questi miseri lavoratori venivano allettati col miraggio della paga e del bottino, oppure venivano spaventati con la minaccia di un rifiutato ingaggio per i lavori agricoli dell'anno successivo". Era, questa, una delle modalità di arruolamento dei briganti. Le bande, tutte dirette da un capo ("il più abile, il più energico, il più coraggioso, il più spietato"), erano guidate con ferrea disciplina. Le loro basi, poste sui monti e in mezzo ai boschi dell'Appennino abruzzese, erano costituite da "baraccamenti fatti con legno o con frasche", o semplicemente da grotte naturali. E il loro armamento era molto vario: fucili sottratti ai nemici, doppiette da caccia tipiche dei contadini: "I sistemi di segnalazione erano multiformi e adeguati all'ambiente rurale: le bande comunicavano tra loro con colonne di fumo durante il giorno, e con falò e lampade nella notte".

Insomma, tutto contribuiva a creare quell'alone di fascino e di leggenda attorno alla figura del brigante, fosse egli l'aristocratico bandito cinquecentesco, difensore dei deboli, nemico dei prepotenti e degli spagnoli; fosse anche il tenace reazionario borbonico, come lo sfortunato generale Borjes, fucilato a Tagliacozzo nel 1861, dopo un'avventurosa fuga dal sud lungo tutte le montagne dell'Appennino:

"De profundis, è morto Borjes,
il diavolo ora lo spella
anima e corpo, amen.
Dies irae, dies irae.
Disse,
quando in mezzo al petto ebbe un colpo:
viva l'Italia.
Dies irae, dies irae.
Voleva servire un re,
ma è morto da brigante,
onoratamente.
Dies irae, dies irae.
Coraggioso e uomo forte,
combatteva da morto,
salute a noi.
Dies irae, dies irae".

Altri episodi meriterebbero di essere segnalati: altri personaggi, altre avventure, altri momenti di questa storia a metà tra il vero documentato e il vero immaginario. Leggiamo la conclusione del racconto, riportato da Aldo De Jaco nella sua Cronaca inedita dell'unità d'Italia, concernente il tragico episodio di Scurcola, nella Marsica, dove il 19 gennaio 1861 si svolse uno dei combattimenti più sanguinosi fra le truppe piemontesi e le bande dei ribelli: "Il paese fu circondato: tutti gli insorti presi in un sol colpo, salvo quelli che non erano entrati per anco nel villaggio; questi furono dispersi ed uccisi. Nel combattimento fu presa una delle loro bandiere. Era un vecchio crocifisso in legno, al quale avevan legato con dello spago un pezzo di stoffa rossa, strappata da qualche parato di chiesa: l'asta era un bastone di tenda tolto ai soldati piemontesi. Fra i fucilati della Scurcola figuravano due preti, un monsignore e il curato di Montesabinese. A Poggio Filippo, villaggio vicino, è morto un disgraziato in seguito delle sue ferite. Spogliandolo, hanno scoperto che portava calze violette".

 
LA FINE
 

Il brigantaggio post-unitario rese quasi ingovernabili, per due o tre anni, numerose zone dell'Abruzzo. Soltanto dopo la legge Pica (un abruzzese anche lui!) del 1863 la situazione comincerà a normalizzarsi, pur continuando a permanere motivi di tensione, sia di carattere politico, sia di carattere sociale:
"Articolo uno. Fino al 31 dicembre, nelle province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali Militari. Articolo due. Colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione, o coi lavori forzati a vita concorrendovi circostanze attenuanti".
Ormai lo Stato italiano ha preso il sopravvento: con le fucilazioni di massa, con gli arresti indiscriminati, il brigantaggio pian piano verrà eliminato. E con le leggi del 1866-67 per la confisca dei beni ecclesiastici e la soppressione degli ordini religiosi, con i provvedimenti concernenti la trasformazione del Tavoliere di Puglia, con la conquista di Roma nel 1870, cambiano radicalmente le condizioni di vita, strutturali e culturali, di tutto l'Abruzzo e di tutto il meridione.

L'Abruzzo dei briganti è finito. 
Autore testo: 

Angelo Melchiorre

MELCHIORRE Angelo, nato a L'Aquila il 23.4.1935, residente in Avezzano (AQ)   -   e-mail:angelo.melchiorre@libero.it   
TITOLI ACCADEMICI:

-       diplomato presso il Liceo Classico "D.Cotugno" dell'Aquila (anno 1953)
-       laureato in lettere classiche (tesi in latino) presso l'Università di Genova
-       vincitore (1964 e 1966) di concorsi a cattedre per l'insegnamento; vincitore di
         concorso a preside (1990) nei Licei di Stato
ESPERIENZE LAVORATIVE:
-       docente di materie letterarie (italiano e storia) negli istituti di istruzione secondaria di II grado (Istituti Magistrali e Licei) dal 1958 al 1990 nelle province di Frosinone (Cassino), Imperia (Ventimiglia, Sanremo, Imperia...), L'Aquila (Avezzano)
-       comandato presso l'IRRSAE-Abruzzo per ricerca e sperimentazione
-       attività didattica nelle università di Roma (cattedra di filosofia morale, anni 1975-76) e di Chieti (cattedra di letteratura delle tradizioni popolari, anni 1989-90)
-       conduzione seminario universitario di studio su "Herder, Schiller, Nietzsche e il mito della Griechentum nel mondo tedesco dal Settecento all'Ottocento"
-       docente nei corsi organizzati dall'Istituto Superiore di Scienze Sociali dell'Aquila
-       preside nei Licei statali dal 1991 al 1999 (sedi di CLES; FERMO; AVEZZANO; L'AQUILA)
-       direttore di corsi di aggiornamento per docenti e dirigenti scolastici
-       commissario e presidente di commissione in concorsi a cattedre
-       attualmente in pensione (dopo 42 anni di servizio attivo)
 
COMPETENZE SPECIFICHE:
-       letteratura italiana, didattica della storia, antropologia culturale
-       realizzazione di ipertesti in power point concernenti gli aspetti salienti della storia mondiale (dall'antichità ai giorni nostri) e di altre discipline scolastiche: si tratta di "unità didattiche", utili ai fini dell'insegnamento-apprendimento nelle scuole medie inferiori e superiori
CONOSCENZA LINGUE STRANIERE:
-       tedesco, inlgese e spagnolo  (discreta conoscenza),
ESPERIENZE EXTRA-PROFESSIONALI:
-       autore di pubblicazioni in volume (ad es. Storia d'Abruzzo tra fatti e memoria, Penne 1988, pp.400; sul folklore marsicano; sulla storia della Marsica; ecc.) o di articoli su riviste specializzate (es.: su "Il Cannocchiale", bollettino della cattedra di filosofia morale dell'università "La Sapienza" di Roma), concernenti storia nazionale e regionale, antropologia culturale, folklore, religiosità popolare, ecc.
-       attività radiofonica e televisiva (per la RAI di Pescara, programmi culturali; per radio e televisioni locali, inserti culturali e musicali vari)
-       pluriennale esperienza giornalistica (collaboratore di "Il Globo", "Il Tempo", ecc.)
-       riordinatore e direttore dell'archivio storico della diocesi di Avezzano; ispettore archivistico onorario (con decreto del Ministro dei Beni Culturali)
-       relatore in corsi di aggiornamento per insegnanti sul tema "Didattica e computer"
-      docente nei corsi organizzati dall'Università della Terza Età