venerdì 28 ottobre 2011

28 OTTOBRE BUON COMPLEANNO MICHELINA


Michelina De Cesare


OGGI 28 OTTOBRE RICADE IL COMPLEANNO 
DI MICHELINA DE CESARE,
EMBLEMA DELLA RESISTENZA DEI
NOSTRI ANTENATI CONTRO L'INVASORE
PIEMONTESE
Michelina: L'eroina del Sud


di Valentino Romano
Da Le Brigantesse, donne guerrigliere contro la conquista del Sud, Controcorrente, Napoli, 2007 ....nacque a Caspoli, frazione del comune di Mignano, il 28 ottobre 1841.Si sarebbe sposata giovanissima con Rocco Tanga, un contadino suo compaesano, morto nel 1862.Ormai vedova, ebbe modo di conoscere
Francesco Guerra che sposò solo in chiesa. Il Guerra (nato a Mignano il 12 ottobre 1836) era un ex sergente dell’esercito borbonico, aveva partecipato alle battaglie del Volturno. Nel 1860: scioltosi l’esercito e – richiamato alle armi sotto l’esercito piemontese – aveva preferito darsi alla macchia, aggregandosi alle formazioni banditesche che agivano nei dintorni del suo paese; in particolare fece parte della banda di Domenicangelo Cecchino, alias Ravanello di Roccamandolfi; morto costui nel settembre del 1861,

Francesco Guerra assunse il comando della banda, unendosi a varie altre tra le quali giova ricordare quelle di Michele Marino di Cervinara, di Alessandro Pace, di Domenico Fuoco e di Giacomo Ciccone. Innumerevoli furono gli attacchi, le grassazioni e gli scontri con la truppa che videro protagonista - fino alla sua uccisione, avvenuta nel 1868 -  Guerra con i suoi alleati.  Michelina, come sostiene il brigante Ercolino Rasti, nel 1863 “si diè al brigantaggio perché scoverta manutengola”. Da allora seguì il suo uomo, partecipando attivamente a tutte le azioni della banda.

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Dice, ad esempio, il brigante Domenico Compagnone, detenuto nel carcere di Gaeta: […] E siam rimasti per un giorno nascosti in un campo di grano poco lontano dalla taverna Delle Torricelle, dal quale luogo: Domenico Fuoco, Francesco Guerra, Michelina De Cesare, moglie di quest’ultimo, la quale sta colla banda vestita da uomo, e il fratello di questa per nome Domenico ci portarono nella taverna e colà mangiarono e bevettero[…]. 

L’episodio, conclusosi con l’uccisione di un caporale della guardia Nazionale, dà la possibilità di provare la partecipazione diretta di Michelina alle azioni della banda e ci offre due interessanti considerazioni: la prima - abbastanza scontata per le donne del brigantaggio - è che la brigantessa se ne andava in giro in abiti maschili; la seconda merita, invece, maggiore attenzione. Michelina viene indicata come la “moglie” del brigante Guerra. Ciò, se da un lato, conferma quanto scritto da alcuni autori circa un ipotetico matrimonio religioso celebrato nella chiesetta di Galluccio e non registrato, per altro verso fa riflettere sulla partigianeria degli storici filopiemontesi che non si sono fatti scrupolo di sottacere del tutto tale circostanza e hanno continuato a  definire la brigantessa con il solito appellativo di “druda”(prostituta in piemontese).

Interessante è anche il riferimento alla presenza del fratello di Michelina, di quel Domenico che tanta parte sembra aver poi avuto nella fine della banda e della sorella e che Compagnone descrive di “statura media, capelli neri, occhi simili, naso lungo, bocca snella.

Il brigante aggiunge anche  che Domenico Di Cesare  “fa parte della banda da 4 anni”: ciò può servire a spiegare circostanze e tempi dell’incontro tra Michelina e Francesco Guerra.

Il brigante Angiolo Cerullo, dal canto suo, precisa che: “[…] la druda di Guerra si chiama Michelina De Cesari di Caspoli, ha un fratello brigante e una sorella brigantessa che stanno con Guerra, ha un’altra sorella maritata in Caspoli, la quale dimora in una masseria in faccia alla ferrovia in contrada Casa Selva e la stessa somministra viveri ai briganti”. Si ha conferma della presenza del fratello di Michelina, ma viene introdotta la novità di una sorella “brigantessa” e di un’altra manutengola. Mentre di quest’ultima si trova traccia anche in altre processure, della prima non vi sono ulteriori notizie. L’indicazione appare non attendibile e dovuta probabilmente alle scarse conoscenze del brigante, che potrebbe aver fatto confusione con l’altra donna della banda, Nicolina Iaconelli, compagna di Domenico Fuoco.Nell’interrogatorio di Domenico Compagnone viene anche precisato in modo inequivocabile il ruolo di Michelina nell’organizzazione militare della banda: […]la banda è composta in tutto da 21 individui, comprese le 2 donne che stanno assieme a Fuoco e Guerra, delle quali quella di Guerra è anch’essa  armata di fucili a due colpi e di pistola. Della banda [solo] i capi sono armati di fucili a due colpi e di pistole, ad eccezione dei due capi suddetti che tengono il revolvers ”. Michelina Di Cesare non fu, dunque, una delle tante donne dei briganti, fu una brigantessa a tutti gli effetti, anzi uno dei capi della formazione, dal momento che girava armata come loro.

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La tattica spesso adottata dalla banda di Francesco Guerra fu quella della guerriglia. Il capobrigante – pare su suggerimento proprio di Michelina - ricorreva ad efficaci espedienti per annullare sul campo la soverchiante superiorità delle forze di polizia: leggendario è divenuto, per esempio, l’attacco al paese di Galluccio, nel corso del quale i briganti si travestirono da carabinieri che conducevano in arresto alcuni briganti: gli uomini della formazione di Guerra, una volta intercettati, si disperdevano singolarmente in varie direzioni, per poi riunirsi in un punto prestabilito: con tali sistemi ebbero a lungo facile gioco delle truppe  che si spostavano più lentamente e in massa.
Si arrivò così all’agosto del 1868, allorché il generale Pallavicini riuscì a convincere la maggior parte dei proprietari di Mignano, Galluccio e Roccamonfina a collaborare servendosi anche di delatori prezzolati: pur di ottenerne l’aiuto. Pallavicini si spinse a minacciare lo stato d’assedio di quei paesi e la deportazione in massa degli abitanti.
Il ricatto sortì gli effetti sperati: un massaro di Mignano informò la Guardia Nazionale del suo paese della presenza della banda Guerra nei pressi della sua masseria, ai piedi del monte Morrone di Mignano; militi della G.N. e truppe del 27° Rgt. Fanteria partirono immediatamente alla volta della masseria.

Ecco come un rapporto del Comando Generale delle Truppe per la repressione del Brigantaggio nelle province di Terra di Lavoro, Aquila, Molise e Benevento descrive l’accaduto:    “[…] Erano le 10 di sera, pioveva a dirotto ed un violentissimo temporale accompagnato da forte vento, da tuoni e da lampi, favoriva maggiormente l'operazione, permettendo ai soldati di potersi avvicinare inosservati al luogo sospetto; da qualche tempo si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si perdeva la speranza di rinvenire i briganti, quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona.

Fu buona la sua ispirazione, perché fatti pochi passi, e splendendo in quel momento un vivo lampo, scorse appoggiati ad una di quelle querce due briganti, che protetti un po' dalla cavità dell'albero ed anche da un ombrello alla paesana che uno di loro reggeva, cercavano ripararsi dalla pioggia.
Appena scortili, la guida li additò al Capitano Cazzaniga, che presso di lui veniva con qualche soldato appena; il bravo Capitano non frappone indugio, non cerca di far fuoco, ma sbarazzato anche del fucile che teneva, con un salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo, lo stramazza al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a corpo, finche venne dato ad un soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere.
Pare che uno dei proiettili (giacché il fucile era stato caricato a pallettoni), passando attraverso il petto del brigante andasse a colpire nel dito pollice della mano sinistra del Capitano, che avvinghiatolo con entrambe le braccia, gli impediva qualunque tentativo di fuga.
Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed il compagno che con lui s'intratteneva, appena visto l'attacco, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s'imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato.



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 Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina De Cesare druda del Guerra. Poco distante vari soldati con qualche Carabiniere s'incontravano con altri due briganti pure appoggiati ad un albero; attaccati risolutamente ne cadeva subito ucciso uno, che poi riconosciuto per Orsi Francesco di Letino; l'altro poté sfuggire, ma inseguito da vicino da un Carabiniere, s'ebbe una prima ferita, finche capitato negli agguati di altra pattuglia, cadde anch'egli colpito da due colpi di revolver sparatigli a brevissima distanza dal Sottotenente Ranieri.

Anche questo brigante venne poi riconosciuto per Giacomo Ciccone, già capo-banda ed ora unitosi al Guerra; fece uso delle sue armi quando si vide scoperto, e dotato di una forza erculea, oppose la più accanita resistenza tentando di aprirsi un varco frammezzo ai soldati.

Altri tre briganti che stavano un po' più lungi dai due gruppi menzionati, poterono al primo rumore salvarsi gettandosi nei burroni in quella località cosi frequenti.
Due di costoro si sono già presentati, per cui si può con tutta certezza affermare che di tutta la banda Guerra, non n'e rimasto che uno solo[...]”. Sostanzialmente uguale è la descrizione dell’accaduto che ne fa Gelli, il quale però si sofferma sul ruolo di Michelina Di Cesare nell’ultimo combattimento: “[…] la banda accerchiata da reparti del 27° Fanteria e da Carabinieri sul Monte Morrone, al comando di quell’anima dannata della Michelina tenne testa all’attacco e solo si disperse quando, colpito da una palla, penetratagli nel cervello dallo zigomo destro, il capobanda Guerra cadde riverso e, poco dopo, accanto al corpo suo e a quello del brigante Tulipano, a cui una fucilata aveva asportato metà della testa, cadde anche la Michelina.
La donna aveva combattuto come una leonessa.  Il giorno appresso i cadaveri dei briganti caduti e di Michelina vennero esposti nella piazza di Mignano, guardati da soldati armati.

Si vuole che il generale Pallavicini, felice per il risultato ottenuto, alla loro vista avesse esclamato: “ecco i merli, li abbiamo presi”.Il corpo di Michelina fu denudato, in segno di estremo oltraggio, e fotografato.

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Nello scempio fissato dall’immagine impietosa  si intravede, non la rabbia per la personale sconfitta, ma il marchio indelebile della sofferenza, del dolore e dei patimenti di un popolo; vi è registrato tutto ciò, sol che si voglia “leggere” la foto con animo pacato e mente sgombra da preconcetti.

Forse anche per questo le immagini di Michelina, da viva prima e da morta poi, sono diventate l’emblema del brigantaggio meridionale: in esse si colgono fierezza e dolore, i sentimenti distintivi di un popolo oppresso,

Chi ha inteso immortalare - con Michelina  uccisa e oltraggiata - la sconfitta di una ribelle e del suo popolo l’ha consegnata, invece, alla leggenda.


Tributo di Eugenio Bennato all'eroina:" Il sorriso di Michela".


giovedì 27 ottobre 2011

Le regine del bosco ovvero l’epica lotta delle brigantesse

Le regine del bosco ovvero l’epica lotta delle brigantesse






di Giordano Bruni Guerri


26 ottobre 2011
da : il Giornale. It  

Chi erano le brigantesse? Erano più criminali che patriote? Ognuno può dare il proprio giudizio. Certo è che, contro di loro e contro i briganti, l'Italia commise crimini terribili. Città intere furono saccheggiate, le fucilazioni divennero strumento educativo per la popolazione, le carceri si riempirono di sospetti traditori della patria: che fossero uomini o donne, ragazzi o bambini non importava. Ogni diritto umano fu calpestato e si dimenticarono pietà e compassione. Alle donne non fu risparmiato nulla e dovremo raccontare degli stupri di cui si resero colpevoli i soldati piemontesi. Colpe per cui nessun uomo delle truppe sabaude pagò.
Anche i briganti si rivelarono ferocissimi, ai soldati poteva capitare di venire evirati, da morti o da vivi: una pratica che nessun esercito perdona. Si diceva che fossero proprio le brigantesse a compiere l'opera, ma è difficile credere che i loro uomini lo permettessero.
Furono tremendi gli interventi legislativi e l'approccio militare scelti per controllare il malcontento, sedare le rivolte e rendere «italiano» il sud arretrato e affamato dai Borbone, come i piemontesi vollero presentare il regno delle Due Sicilie. E il peggio, per i meridionali, arrivò nei primi decenni dopo l'Unità.
Per comprendere quel periodo è necessario raccontare le vite di uomini, e soprattutto di donne, rimaste troppo a lungo vittime della propaganda risorgimentale. E le brigantesse meritano il loro posto nel nostro passato e di essere ricordate per quello che furono, non più dunque mito, leggenda o modello da sfruttare nel bene e nel male.
La storia dimostra che il popolo si ribella solo quando la sofferenza supera il limite del sopportabile e se intravede possibilità di riuscita. Per le donne è diverso. Una donna meridionale dell'Ottocento diventa una combattente pronta a tutto se le si impedisce di vivere, amare, accudire; se le si nega la possibilità di essere donna come erano state la madre e la nonna prima di lei, come le avevano insegnato; se le si toccano i figli, il proprio uomo.
Ubbidirono all'istinto – a leggi ataviche e naturali – più che alla consapevolezza di farsi paladine dell'autodeterminazione femminile, certo inconsapevoli che, un giorno, sarebbero state riconosciute come le prime femministe italiane. Impugnando le armi e condividendo la vita alla macchia delle bande, le brigantesse rivendicarono il diritto di vivere la propria vita, assumendo su di s´ il potere e la libertà di decidere, la responsabilità delle proprie scelte e spesso un ruolo inedito di comando.
Rifugiandosi in un bosco accanto al marito o all'uomo amato, portando in grembo un figlio e in spalla il fucile, le brigantesse vissero in piccole società in cui i ruoli venivano assegnati ai componenti della banda, non ai maschi o alle femmine. A loro importava poco se gli abiti che indossavano – sovente sfilati ai soldati nemici uccisi – erano di una stoffa così ruvida da provocare ulcere dolorosissime dopo ogni spostamento a cavallo, cavalcato a pelo perchè non c'è tempo di sellarlo quando ti danno la caccia. E il cavallo è un prezioso, ambitissimo strumento bellico per l'epoca: solo una minoranza di briganti ne può avere uno. Non fa nulla se mantenere la propria femminilità è quasi impossibile, se si deve dormire in una grotta o all'addiaccio, perché il posto della brigantessa è lì, lo ha scelto lei.
Fecero la scelta dei boschi, che allora non erano i luoghi romantici dei nostri tempi, bensì posti che incutevano paura anche a chi li abitava. «Meglio morire in piedi che continuare a vivere in ginocchio» ripetevano i contadini diventati briganti. Ma la ribellione non è per tutti. Soprattutto per le donne, resistere fu l'eccezione, non la regola; e tutte pagarono un prezzo molto alto. Prima erano contadine e filatrici, cucivano, ricamavano oppure andavano a servizio nelle case dei signori del paese. Si occupavano della famiglia, crescevano i figli e accompagnavano il marito nelle fatiche quotidiane. Poco più che bambine, la maggior parte già conosceva il mondo attraverso il sudore, la fame, i soprusi, le mani callose, la schiena che fa male. Poi un evento – una tragedia o una gioia grande come l'amore – stravolge tutto all'improvviso e di quella normalità, sia pure terribile, non resta più nulla.

Per amore diventarono brigantesse anche Maria CapitanioMichelina De Cesare,Maria Oliverio e Filomena Pennacchio. Per amore, sì, ma occorre riflettere sul perchè il fenomeno delle brigantesse esplose proprio durante la guerra civile scoppiata tra «piemontesi» e meridionali negli anni Sessanta dell'Ottocento. Il brigantaggio esisteva dal Cinquecento, nel Sud e nello Stato della Chiesa, però fu soltanto allora che tante donne ne divennero protagoniste: perchè il fenomeno si era enormemente ampliato, ma anche perchè le donne meridionali volevano prendervi parte attiva, ossia combattere.


fonte:
http://comitatiduesicilie.org/index.php?option=com_content&task=view&id=4307&Itemid=1

lunedì 24 ottobre 2011

La Brigantesse in Abruzzo










Le temibili Signore della macchia. Tra i briganti ci fu posto anche per le donne: alcune erano madri, mogli o amanti di briganti, ma molte altre erano brigantesse

La fama dei briganti ancora oggi caratterizza, nell’immaginario collettivo, i territori montuosi ed impervi dell’Abruzzo, per secoli ideale nascondiglio delle bande dei fuorilegge. Ma non a tutti è noto che il brigantaggio post unitario conta la presenza di un cospicuo numero di donne. Molte furono semplicemente madri, mogli o amanti dei briganti, ma tante furono vere e propri brigantesse.
 I documenti del tempo narrano le vicende, o più spesso l’epilogo delle vicende di figure come Angela Maria, madre del brigante Sottocarrao di Thurimparte che nel 1864 fu arrestata con l’ inputazione di “manutengoismo» per avere somministrato viveri ed altro al brigantaggio. Si perché loro spesso vivendo nei paesi e facevano da tramite per i loro coniugi costretti a nascondersi tra le montagne. Appartenevano ad un ceto sociale delle plebi rurali, donne molto innamorate dei propri uomini, pronte a rinunciare  ad una vita tranquilla, pur di seguire o di agevolare il loro compagno. Erano consapevoli di non avere scampo, eppure di fronte ad azioni pericolose non si tiravano mai in dietro. Erano le confidenti più sicure, le messaggeri più fidate.

 Indossavano spesso abiti maschili, per entrare in un nuovo ruolo, un ruolo tutto maschile che però non le privava della loro femminilità. Nascondevano i lunghi capelli sotto il cappello a falda larga ed indossavano anche orecchini d’oro. La maggior parte delle volte capitava che, solo dopo averle catturate, ci si accorgeva del loro sesso e allora si adottava il criterio di commutare l’ergastolo in 15 anni di lavori forzati: fu il caso di Maria Capitanio, Gioconda Marini e Chiara Nardi. Spesso ebbero anche ruoli di primo piano, combattendo o comandando piccoli nuclei briganteschi: fu il caso della bella Michelina De Cesare che fu alla guida di un drappello del brigante Francesco Guerra di cui era l’amante pronte a combattere contro l’esercito piemontese che imperversava nell’Abruzzo e nel Lazio. Le loro tracce sulle montagne dell’Abruzzo si sono ormai perse, sebbene la loro memoria continui a vivere nei documenti e nelle foto conservate presso gli archivi della regione o ancora di più nei racconti e nelle vecchie storie di briganti e brigantesse.  





sabato 22 ottobre 2011

Razzismo strisciante alimentato dai media


Di recente assistiamo ad un fenomeno davvero curioso e per molti versi incomprensibile. 
Che leghisti o gente del nord scriva lettere ai giornali e ai blog, intervenga in diretta a trasmissioni televisive (se hanno faccia tosta) e radiofoniche (in modo da nascondersi dietro l’anonimato), sbraiti allo stadio e alle più svariate manifestazioni contro il Sud, contro il Mezzogiorno d’Italia e soprattutto contro Napoli è ritenuto un fenomeno quasi fisiologico rispetto al quale alcuni provano assuefazione e altri reagiscono energicamente come la Rete Due Sicilie (http://www.reteduesicilie.it/) dell’instancabile Alessandro Romano, il Movimento V.a.n.t.o. dell’ottimo blogger Angelo Forgione (http://angeloxg1.wordpress.com/vanto/), nonché il nostro giornale
  1. QUESTIONE MERIDIONALE O SETTENTRIONALE? (Stanislao Barretta)
  2. RISPOSTA A TELEPADANIA:  Arrivano i Na-polentoni (ascolta)
Ma che gente del Sud (regnicoli e nostri conterranei) parli male di se stessa quasi con rassegnazione e inveisca contro Napoli, ovvero contro la città che ha scritto la storia della più grande macroregione d’Italia, nel bene e nel male e negli ultimi millenni, è sintomo di una gravissima malattia psichica che ha infettato parte della comunità meridionale più concentrata su vitali questioni di sopravvivenza ma soprattutto più condizionata da un vero e proprio tsunami mediatico scatenato violentemente contro le nostre genti e le nostre menti sin dall’indomani del 1861 e tuttora in atto.
Ovviamente centocinquanta anni fa l’attacco fu condotto attraverso i giornali nazionali e la pubblicistica di stampo risorgimentale e filosavoiarda; oggigiorno l’attacco è meticoloso e si realizza attraverso datati e menzogneri programmi scolastici con cui gli studenti vengono condizionati, per mezzo di talk show televisivi con cui gli impigriti teledipendenti vengono manipolati fin dentro le loro case e grazie a giornali finanziati dallo Stato e fortemente ispirati da partiti e gruppi di potere.
Dunque un flusso di informazioni a senso unico che accompagna il cittadino italiano, e anche quello meridionale, per tutta la vita e ne indeboliscono lo spirito critico.
Usi e tradizioni, comportamenti e atteggiamenti, modalità di pensiero e filosofie di vita tipiche di coloro che discendevano dagli antichi popoli del Sud: Sanniti, Osco-Sabelli, Greci, Messapi, Lucani, Bruzii e Apuli, sono stati in gran parte dissolti costringendo i nostri più recenti e ottocenteschi antenati a aderire a principi di conformismo e di massificazione che ne hanno fiaccato il forte carattere nonchè la ferma volontà di indipendenza.
Perfino la formidabile conquista romana, circa duemila anni fa, non riuscì a piegare del tutto i nostri orgogliosi e battaglieri progenitori.
Perché tutti i nordisti che si esprimono in modo indegno nei confronti del Sud o dei meridionali non vengono incriminati con l’infamante accusa di istigazione all’odio razziale quando la legge prevede tale reato, ad esempio, nei confronti delle minoranze etniche?
E per quale ragione i conduttori di programmi radiotelevisivi non censurano le opinioni di coloro che istigano all’odio razziale contro gli italiani del Sud? 
Forse questi agitatori godono di una speciale immunità di fronte alla legge?
Appare una contraddizione in termini eppure gli stessi che hanno voluto l’Unità d’Italia avvalendosi della forza, dell’aggressione militare e dell’annessione del Regno delle Due Sicilie, Stato sovrano e tradizionalmente pacifico, oggi vogliono la secessione e l’abbandono al proprio destino di un territorio che ha rappresentato, per lungo tempo, un serbatoio immenso di risorse umane, industriali, agricole, intellettuali e finanziarie.
Il nord conquistatore impose tasse inique fra cui la più odiosa era quella che veniva applicata sull’emigrazione interna da sud a nord. Evidentemente la logica del limone spremuto e gettato, ancorché nel 2011, regge ancora.
Dunque alla vena razzista di un nord, rabbioso per essersi ritrovato in crisi economica e industriale ma che nulla avrebbe potuto realizzare fino ad ora senza la forzata emigrazione e il lavoro di milioni di meridionali, si sovrappone una vena razzista di casa nostra che viene continuamente alimentata da una lunga serie di luoghi comuni che, a furia di essere ripetuti (repetita iuvant), diventano dogmi accettati acriticamente dalla massa.
“Immondizia, criminalità (micro o macro è indifferente tanto tutto fa brodo), parassitismo, assistenzialismo, ignoranza, arretratezza, evasione fiscale, inciviltà e maleducazione” sono gli stereotipi che subito rintracciamo nella nostra mente e che vengono in modo arbitrario associati da un gruppo sociale a un altro gruppo; in questo caso dal nord dove risiedono gruppi dominanti capaci di condizionare pesantemente l’opinione pubblica con sofisticati, potentissimi e collaudati sistemi mediatici, al sud dove una classe politica venduta agli interessi geostrategici, economici e massonici delle centrali di potere nordiste, post – risorgimentali e forse anche straniere, ha fatto strage dei prinicipi di diritto, ha definitivamente interrotto i rapporti tra governanti e governati pensando solo alle ricche prebende e alle proprie fulminanti carriere, ha tradito sistematicamente il giuramento prestato sulla Costituzione, ma soprattutto ha insozzato con vera inettitudine, uno dei territori più belli e ricchi del mondo ovvero Napoli e l’intera Campania Felix.
Un vero e proprio genocidio culturale tenendo presente che si vuole, in ogni modo, occultare o banalizzare la plurimillenaria storia della nostra città.
Una vera e propria pulizia etnica ricordando gli oltre undici milioni di Meridionali che furono costretti a emigrare all’indomani dell’Unità d’Italia. Già è molto che la nostra Partenope sia sopravvissuta a tanto odio.
Non contenti delle ferite quasi mortali inferte dai “patrioti risorgimentali” a suo tempo, gli amministratori succedutisi nel tempo continuano a ricoprire la nostra splendida città di rifiuti, per settimane, per mesi e a conti fatti per anni (almeno 17) mortificandone l’essenza solare e portatrice di civiltà; non provvedono alla manutenzione di monumenti che da secoli sono meta di visite da parte di turisti provenienti dal mondo intero (basta vedere lo spessore della sporcizia e del guano dei colombi che li ricopre); continuano a espropriare ai cittadini interi pezzi di città con improbabili Zone a Traffico Limitato (http://www.youtube.com/watch?v=_ENeb5uiwAI) attraverso cui imporre multe con l’unica finalità di fare cassa e cercare forsennatamente di risanare i bilanci ormai compromessi.
Peraltro non sono stati realizzati sufficienti parcheggi per auto e moto gettando nel panico decine di migliaia di residenti che vivono in un territorio pieno di salite e discese ripide, dove l’uso del mezzo privato in molti casi diventa necessario a causa della presenza massiccia, all’interno del nucleo familiare, di anziani, bambini piccoli e disabili.
Non viviamo certamente in una delle pianeggianti città del nord dove la bicicletta può essere efficacemente utilizzata.
A proposito perché non si condannano le amministrazioni cittadine che non provvedono a realizzare posti auto gratuiti con strisce bianche così come prevede il Codice della Strada?
Inoltre tornando alle cose cattive fatte o alle cose buone non fatte, come lorsignori preferiscono, questi tristi figuri che compaiono in pubblico solo per festeggiare il raggiungimento di successi elettorali, continuano a prendere in giro coloro che li votano con la stessa retorica di sempre, si isolano nei palazzi del potere per paura della gente che è esasperata e cerca di sopravvivere come può, si ostinano a militarizzare la città gettando fumo negli occhi ma senza arrecare il benché minimo danno alle imprese criminali che, paradossalmente e sfortunatamente, sono le uniche sul territorio a offrire lavoro a chi è costretto a vivere nella più completa emarginazione.
Le genti del nord sanno bene (fanno finta di non saperlo o semplicemente non lo sanno poiché sono ignoranti) che la colpa di ciò che accade alle nostre latitudini non dipende dalle popolazioni locali bensì dalle classi dominanti che periodicamente si avvicendano ai posti di comando e che mantengono saldamente la barra del timone, rispettando una incredibile e ferrea continuità, senza mai confrontarsi con i cittadini che sono il vero datore di lavoro dei pubblici amministratori, e anche dei burocrati e dei colletti bianchi in quanto questi dipendono in tutto e per tutto da coloro che hanno vinto le elezioni.
Ciò accade mentre alcuni elettori in buona fede credono ancora in una qualche obsoleta o improbabile fede politica e in qualche partito che ormai, da troppo tempo, non li rappresenta più.
Ci chiediamo perché gli amministratori che riducono una città in questo stato pietoso non paghino per i loro errori e per le loro malefatte, riuscendo a farla franca rispetto alla legge e rispetto all’opinione pubblica sempre più sbigottita e desiderosa di riscatto sociale.
Eppure nei discorsi di insediamento dei vari Sindaci, la magica parola “democrazia” continua a essere pronunciata sia pur in maniera minore rispetto al passato.
Il nostro attuale Sindaco, che pure parrebbe animato da buone intenzioni, l’ha usata tre volte abbinandole una volta l’aggettivo “partecipativa” mentre i Sindaci precedenti l’hanno usata molte più volte; in realtà sono decenni che la partecipazione dei cittadini è annichilità e ogni forma di comunicazione fra governanti e governati è relegata all’interno dell’arido linguaggio di una spaventosa burocrazia che interpreta tutto in maniera tale da avere sempre e comunque ragione; nonostante il ministro Brunetta che, teorizzando una utopistica burocrazia dal volto umano, non ha fatto altro, nella pratica, che incattivire ancor di più i “colletti bianchi” e gli impiegati con funzioni amministrative.
Il rapporto fra Stato e cittadini è inesistente e nel migliore dei casi disastroso. 
I palazzi del potere, finanche la casa comunale, sono praticamente blindati e impenetrabili.
Praticamente non c’è scampo: il cittadino, in caso di problemi individuali, ha sempre torto e deve subire senza potersi confrontare con interlocutori capaci di ascoltare le istanze che vengono dai veri abitanti della città.
Per le forme di comunicazione erga omnes invece, il cittadino è costretto a barcamenarsi in una selva di segnaletica orizzontale e verticale quasi sempre improntata al divieto, alla sanzione e in una vera e propria raccolta di ordinanze sindacali complesse, di difficile interpretazione e la cui ratio, per forza di cose, viene compresa solo da persone che per muoversi di certo non usano il mezzo pubblico e neanche quello privato bensì il mezzo istituzionale ovvero le numerose e famigerate auto blu dotate di scorta, sirena e lampeggiante.
Possono finalmente muoversi senza il traffico provocato dai comuni mortali che, incredibilmente, sono obbligati a pagare supertasse di possesso, assicurazioni tra le più care d’Italia e balzelli inverosimili, come bollini blu e multe di ogni genere, pur non potendo impiegare i propri mezzi di locomozione su un territorio espropriato all’uso comune.
D’altra parte, e secondo la definizione classica, quando facciamo riferimento a personalità politiche ci riferiamo essenzialmente a coloro che”partecipano attivamente alla vita pubblica e che operano le scelte necessarie alla crescita civile ed economica del proprio Stato o della propria comunità”; ebbene da quanto tempo ciò non accade nella nostra città e nella nostra regione?
In effetti le cosiddette “personalità politiche” che abbiamo avuto la disgrazia di ritrovarci davanti per innumerevoli anni, non hanno fatto altro che contribuire al consolidamento di quei numerosi luoghi comuni cui prima abbiamo accennato facendo sì che, non solo il nord Italia ma anche il resto del mondo, senza esclusione di meridiani e paralleli, abbiano recepito come vere un insieme di credenze, di rappresentazioni ipersemplificate della realtà e opinioni rigidamente connesse tra di loro.
La vera “macchina del fango” è quella che cerca di ricoprire di immondizia la nostra città e di desertificare l’intera Campania, basta vedere gli scarichi tossici (provenienti dal nord) scoperti proprio in questi giorni a Castelvolturno e non quella finta, strumentale e patetica che i nostri politici, furbescamente, agitano quando si sentono attaccati e vedono i loro assurdi privilegi messi in pericolo.
E non capiamo cosa c’entra il “vento dell’antipolitica” quando esprimiamo critiche nei confronti dei partiti e degli amministratori che ad essi fanno riferimento; tenendo presente che la politica nacque proprio nei territori della Magna Grecia, ovvero nell’Italia Meridionale dove già a partire dall’VIII° sec. a.C. si sviluppò il concetto di città-stato in continuità con le “poleis” greche.
Ma senza andare così a ritroso nel tempo, e per cercare di colmare il vuoto provocato dalla crassa ignoranza dei nordisti, gioverà ricordare che anche Benjamin Franklin e la Costituzione degli Stati Uniti, nella seconda metà del ‘700, furono ispirati dal grande giurista partenopeo Gaetano Filangeri che con la sua Scienza della Legislazione propose di mettere ordine nel caotico diritto feudale che caratterizzava la legislazione di tutti i Paesi d’Europa.
Dunque al Sud non spira il “vento dell’antipolitica” poiché il colto uomo meridionale sa perfettamente che la politica affonda le sue radici nelle concezioni filosofiche elaborate da Socrate, Platone e Aristotele bensì soffia forte il “vento dell’antipartitocrazia” e, alla luce di quanto accaduto in questi ultimi decenni di malgoverno, non crediamo che ci sia qualcuno che si azzardi a prendere le difese di un sistema partitocratrico che ha quasi condannato l’Italia al default finanziario.
Tale governo dei partiti è stato molto opportunamente definito “Peste italiana” in uno studio promosso dai Radicali.
Quanto affermato vale non solo per la nostra Napoli bensì per tutte le altre città, anche per le più piccole (pensiamo al recentissimo caso di Parma dove il sindaco è stato costretto alle dimissioni a furor di popolo) e dunque per l’intero Paese.
Ma del resto d’Italia e dei suoi guai locali non si parla, se non sporadicamente; tutto deve apparire in ordine rispetto alla Napoli senza regole.
Vorremmo stendere un velo pietoso sulle invettive razziste dello pseudointellettuale Giorgio Valentino Bocca (a quanto pare tra i firmatari del Manifesto della Razza nel 1938), di cui la nostra testata si è occupata più volte e speriamo che rimanga confinato nelle sconosciute lande cuneesi dove risiede.
Tuttavia non possiamo non ricordare che, a suo tempo, nel programma della Rai “Che tempo fa”, Bocca parlò di Napoli come “città decomposta da migliaia di anni” e dei Napoletani come “plebe che vive di magia” (http://www.youtube.com/watch?v=KDG_-GIrpCQ) senza essere censurato e svolgendo il devastante ruolo di testa di ponte di quella compagine formata da opinion leader, scrittori e giornalisti (sic!) che dirigono la “macchina del fango” cui prima abbiamo fatto riferimento.
Un vero e proprio esercito mercenario, profumatamente pagato con denaro pubblico, cui è stato accordato prestigio e mezzi per influenzare in modo determinante l’opinione pubblica.
Certo a Napoli la vita non è facile perché c’è una bassissima qualità dei servizi pubblici, una burocrazia paludosa dove per avere un semplice rimborso dal Comune di cifre erroneamente versate per la refezione scolastica occorrono anche otto mesi e per ottenere lo sgravio di una sanzione amministrativa ingiustamente erogata possono occorrere circa sette anni; prenotare una prestazione sanitaria può richiedere file lunghissime e tempi biblici per l’erogazione della stessa.
Muoversi in Metropolitana significa viaggiare in carrozze moderne e tecnologicamente avanzate ma strettissime rispetto al numero esorbitante dei viaggiatori (circa 110mila nei giorni feriali). C’è troppa gente e all’interno delle carrozze manca l’aria soprattutto quando queste si fermano per motivi non chiari, non comunicando nulla agli utenti intrappolati e l’aria condizionata smette di funzionare come è capitato un paio di settimane fa; forse sarebbe opportuno rivisitare le norme di sicurezza.
Ci chiediamo perché il privato che viaggia con la propria auto viene supercontrollato e fortemente penalizzato se trovato non in regola, pur non creando pericoli per chicchessia, mentre sui mezzi pubblici nessuno fa controlli per verificarne l’uso in sicurezza; alcune delle stazioni della Metro sono molto profonde (anche fino a 47 mt.) e in caso d’incidente grave, vista la forte utenza e i treni insufficienti, il prezzo in vite umane potrebbe essere altissimo.
Stando alle lamentele degli utenti il prezzo dei mezzi pubblici è sempre più caro mentre il servizio è sempre più scadente e alcune corse, come sta avvenendo per la Circumflegrea, vengono inspiegabilmente eliminate proprio nelle ore di punta obbligando migliaia di pendolari a litigare pesantemente solo per essere trasportati come capre al macello.
Tutto, dicono le persone informate, a causa dei tagli ai finanziamenti; che dire allora del numero crescente dei dirigenti che percepiscono ottimi stipendi e del numero sempre più inferiore di operai, macchinisti e addetti alla manutenzione con retribuzioni davvero scarse?
Tuttavia pur senza tacere, per onestà intellettuale, i problemi che affliggono la nostra metropoli, pare esserci una specie di legge del caos controllato per cui mentre intere aree della città sono abbandonate a sé stesse altre come quelle relative alla nuova Zona a Traffico Limitato, sono presidiate da oltre 600 vigili e le zone limitrofe sono prese di mira da ausiliari del traffico che, setacciando palmo a palmo l’intera zona, infliggono numerosissime multe su cui evidentemente prendono una percentuale (cosa questa non del tutto chiarita).
Possiamo dire che il parcheggio abusivo che in passato ha caratterizzato la città oggi è stato completamente sostituito dal parcheggio a pagamento sempre ben delimitato da strisce blu ben visibili, ripittate di frequente e a disposizione dell’automobilista che paga salato. In effetti si tratta dell’unica cosa che funziona alla perfezione oltre alla riscossione delle multe e che fa adirare i cittadini che, di contro, devono misurarsi costantemente con le infinite disfunzioni degli uffici pubblici.
Abbiamo posto l’accento solo su alcuni punti riguardanti la vivibilità a Napoli ma siamo convinti che problemi analoghi esistano in molte altre città senza però che la “macchina del fango” si metta in moto perché è sempre e solo Napoli che deve fare notizia come vittima sacrificale di un sistema mediatico dove una certa polarizzazione del pensiero obbliga il cittadino medio a identificare, per esempio, Napoli con la spazzatura anche quando questa è stata rimossa e le strade sono pulite. In quest’ottica ci si guarda bene dall’evidenziare le cose positive fra cui ad esempio le decine e decine di eventi culturali che quotidianamente animano, nonostante le immense difficoltà e a dispetto degli intralci frapposti da ottusi burocrati, un panorama antropologico estremamente vitale e interessante.
D’altra parte questa immagine ferocemente distopica della realtà consente di raggiungere molteplici obiettivi: scaricare le tensioni in eccesso presenti su tutto il restante territorio nazionale cosicché, in un rituale sfogo collettivo, ci si possa scagliare contro la città sporca e camorrista per antonomasia; mantenere in vita un mito volutamente negativo per giustificare il saccheggio del Mezzogiorno d’Italia più volte ricordato negli studi compiuti dallo scomparso scrittore meridionalista Nicola Zitara (http://it.wikipedia.org/wiki/Nicola_Zitara) e da un’infinità di studiosi e storici revisionisti; cercare di comprimere il senso di libertà e indipendenza di un particolare tipo di comunità, ovvero quella partenopea, che di rado si è ribellata alle ingiustizie ma che quando lo ha fatto non si è fatta fermare facilmente; e per ultimo, fare sperimentazione politica in un laboratorio sociale dalle infinite risorse e dalle illimitate potenzialità.
Purtroppo il plagio mentale esercitato sui cittadini partenopei, facendo leva sui sensi di colpa e sulla incapacità di evolversi secondo regole di una massificazione universalmente accettata, sta producendo effetti negativi a tal punto che una mentalità razzista diretta contro sé stessi pare prendere piede finanche nella popolazione; significherebbe mettere gli uni contro gli altri portandoci a un’ulteriore imbarbarimento all’interno delle nostre strade e delle nostre case.
È un campanello d’allarme che contribuiremo a far squillare forte e chiaro affinché il pericoloso fenomeno si arresti e venga provocato il risveglio delle coscienze. Dovremo opporci con tutte le forze a quella “damnatio memoriae” cui il nord vorrebbe condannarci senza appello e senza aver commesso, come popolo, alcuna colpa.
La stessa meritevole opera letteraria di Roberto Saviano, che ha concepito la penna come arma contro la camorra e quindi come una denuncia potente e definitiva contro la criminalità organizzata, è stata manipolata dai media ispiratori della “macchina del fango” trasformandola in una cluster bomb (bomba a grappolo) capace di detonare sulle teste dei napoletani, dei campani e dei meridionali.
A tal punto che l’opera di sminamento e di disinnesco di luoghi comuni, cliché, stereotipi, frasi fatte e banalità diventa complessa e davvero difficile.
Dimenticavamo.
Sappiano i nuovi razzisti del Sud, mentalmente plagiati, che se non fosse stato per le tante Storie Patrie scritte nel corso dei secoli da studiosi, storici, scienziati e filososofi napoletani e quindi per la storia antica e gloriosa di Megaride, Partenope o Neapolis, come si preferisce, forse di molte realtà meridionali e degli innumerevoli piccoli centri che costellano il nostro territorio, sia appenninico che costiero, mai nulla si sarebbe saputo con la conseguente condanna all’oblio.

di Antonio Tortora

napoli.com
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