sabato 10 agosto 2013

IL SIRENTE: CROCEVIA DI BRIGANTI

l contadino non ha casa, non ha campo non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento: non possiede che un metro in comune al camposanto... Il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata...una buona legge sul censimento a piccoli lotti dei beni della casa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante..." Così scriveva Francesco Saverio Sipari nella "Storia del Regno di Napoli" e da quelle frasi si possono individuare le cause, o se vogliamo, una parte di esse che dettero inizio nel mezzogiorno e soprattutto nella zona Subequana al fenomeno del brigantaggio. Dopo le leggi eversive del 1806 e le ripartizioni degli ex-demani feudali ed ecclesiastici, il ceto contadino attese invano un miglioramento delle proprie condizioni socio-economiche che dovevano derivare dalla quotizzazione e dalla assegnazione delle terre. La maggior parte di quelle superfici andarono, invece ad ingrossare i patrimoni dei notabili dei paesi della Valle Subequana e della Valle del medio-Aterno, i quali dopo la restaurazione borbonica (1815) e sino al periodo dell'unità d'Italia rimasero i soli proprietari delle terre più fertili dei loro paesi, e i contadini, viceversa continuarono a condurre una vita di stenti. La questione dei demani Comunali usurpati o ancora indivisi, l'occupazione delle terre, il pagamento di canoni e tasse, cominciarono a far crescere il malcontento del mondo contadino, che continuò a vivere in condizioni di miseria. Il brigantaggio nella Valle Subequana e nella Valle del medio - Aterno si alimentò dalla miseria e dalla disperazione delle masse contadine prive di terra, oppresse e sfruttate dai galantuomini, e dalla pressione fiscale dello Stato unitario. Se in altre zone del meridione si formarono delle corposissime bande brigantesche alquanto politicizzate, che in alcuni casi ingaggiarono vere e propri conflitti a fuoco con interi reparti dell'esercito, nelle nostre zone ci si limitò ad un brigantaggio diciamo casereccio. Le banda Cannone di Gagliano Aterno, la banda Francescone di Tione degli Abruzzi, e Angelo del Guzzo di Fagnano, la bandaStramenga di Secinaro commisero i loro crimini sulle montagne della catena del Sirente. L'altopiano delle Rocche aveva relazioni commerciali (già nel periodo feudale) con la sottostante valle Subequana, e i mercanti e i commercianti si scambiavano dopo lunghi tragitti su quei monti le loro merci, e proprio questi furono spesso presi di mira dai briganti, appostati su quei monti. La strada di cui sopra si incrociava con un altra che dall'Aquilano portava verso la Marsica, passando sulle montagne di Secinaro e di Gagliano Aterno, formando quindi un crocevia da dove i briganti si muovevano per colpire le loro prede, ma anche per nascondersi nei boschi e nelle grotte di quelle zone impervie del Sirente. Con la repressione il Governo del nuovo stato Unitario piegò e pose fine al brigantaggio, iniziato con la reazione delle classi meno abbienti, e dal 1870 al 1900 le popolazioni dei comuni subequani assistettero ai mutamenti dettati dagli ordinamenti dello Stato liberale. Le classi popolari radicate nell'ambiente subequano si trovarono di nuovo a fare i conti con l'inclemenza delle stagioni, con la fame con la miseria, la violenza dei potenti... L'impianto del nuovo stato unitario comportò anche un pesante aggravio fiscale, necessario alla costruzione delle scuole, delle strade, delle ferrovie, dell'esercito, ed una di quelle tasse, la tassa sul macinato, scatenò le ire dei contadini, generando sommosse in tutto il meridione d'Italia enella nostra zona ne fu coinvolta la popolazione di Fontecchio. La classe contadina che aveva generato il brigantaggio si trovò discriminata ed emarginata alla fine del secolo. Nel 1882 la nuova legge elettorale la escluse ancora dal diritto di voto nel senso che fu stabilito che poteva votare chi aveva 21 anni, ma soprattutto chi aveva frequentato la quarta classe elementare. In quel periodo l'analfabetismo colpiva l 80% della popolazione, e pertanto quelle classi rimasero ancora senza diritti, oppresse ancora dai potenti locali. A questo punto aggiungiamo che l'apertura dei traffici commerciali con l'America fece giungere in Italia ingenti quantitativi di grano a basso prezzo che mise in ginocchio la fragile economia agraria nazionale e locale, generando la grande crisi agraria di fine secolo, con conseguente espulsione di molte persone dalle campagne. Tutte quelle situazioni iniziarono ad avere delle risposte politiche con la nascita dei movimenti politici, socialisti e popolari. Ma a quel punto la povertà, l'oppressione, la disperazione del ceto contadino dei nostri territori stava per dare inizio ad un altro doloroso e triste fenomeno: l'emigrazione. Oggi quelle montagne, quei boschi, quelle contrade, rappresentano il cuore del Parco, che ne tutela non solo la flora, la fauna , il paesaggio, l'ambiente, ma anche la storia e la cultura delle popolazioni ivi residenti. Ieri erano i luoghi per il rifugio dei briganti, oggi sono frequentati per le loro bellezze naturali. Quel periodo storico, violento e affascinante che sia stato, riecheggia in quell'ambiente protetto, come se si fosse sottratto all'usura del tempo.

LA BANDA CANNONE
Primavera 1859. A Gagliano Aterno si registrano i primi atti di aperta ostilità dei contadini nei confronti dei nobili del paese, chiamati con scherno "Pantaloni", in quanto erano gli unici che indossavano i costosi calzoni lunghi. Si distinguono per la particolare animositàGiuseppe di Cenzo detto "Birichino", e Vincenzo Vacca detto "Cannone", braccianti agricoli che erano usi emigrare, dall'Autunno alla Primavera nello Stato Pontificio.
Ottobre 1860. A Gagliano esplode la rivolta contro i Savoia e contro i Pantaloni, che si erano prontamente schierati con il nuovo sovrano. Duecento contadini armati di bastoni, manici di scure e pietre si scontrarono con la Guardia Nazionale. Fu assediato il palazzo diDon Francesco Voce, proprietario terriero, che fu minacciato di decapitazione. Pierluigi del Campo, ricco artigiano, viene linciato dalla folla e sfugge miracolosamente alla morte, ma rimarrà storpio a vita. Lo stemma sabaudo viene distrutto.
Gennaio-Aprile 1861. Dopo lunghe indagini le autorità giudiziarie puniscono i protagonisti della rivolta con arresti e provvedimenti restrittivi. Molti rivoltosi si danno così alla latitanza: alcuni si rifugiano sugli altopiani ai piedi del Monte Sirente, come Domenicantonio Boccabella. Altri, come "Cannone", "Birichino", e Carmine Bucci detto "Bracchicello", tornano nello Stato Pontificio. Da lì sono però costretti a fuggire dopo aver malmenato il proprietario terriero presso cui lavoravano come braccianti. Tornano dunque a Gagliano, per farsi "uccelli di montagna": costituiscono cioè il primo nucleo della banda di briganti che diverrà famosa col nome di "banda Cannone".
Novembre 1865- Agosto 1866. La banda Cannone si aggira per i fitti boschi, le valli e gli altopiani del Sirente, spostandosi a cavallo e dormendo in rifugi di fortuna o presso abitazioni di manutengoli. La banda assalta i pastori derubandoli di pecore, denari e vestiti; tende agguati ai ricchi mercanti soliti transitare sui sentieri ai piedi del Sirente. La banda controllava l'intera valle Subequana appostandosi in avvistamento su di una altura ancora oggi conosciuta col nome di " grotta dei briganti"
Settembre 1866. La banda Cannone sequestra un ricco mercante di Rocca di Mezzo, sorpreso con un ingente carico di vino nella impervia e boscosa Valle di Canale, presso la fonte. Viene rilasciato in cambio di 187 lire d'argento, 60 lire in monete d'oro, più tre camicie e tre paia di calze.
Settembre 1866. I contadini di Gagliano racimolano con una colletta 4.000 ducati e li consegnano ai briganti chiedendo in cambio di eliminare l'odiatissimo proprietario terrieroErnesto De Angelis. La banda Cannone sorprende e cattura quest'ultimo in località Ara di Catolle. Lo sventurato viene dunque trasportato in una località impervia, le "Fosse di Pasqualetti", dove i briganti gli tagliano i testicoli, gli recidono le dita delle mani, gli cavano gli occhi, e infine lo decapitano. La testa viene infilata in un palo ed esibita come macabro trofeo.
Gennaio- Maggio 1867. La banda Cannone prende di mira Francesco Pace, altro ricco proprietario terriero, su esplicito invito anche questa volta dei contadini di Gagliano, e in particolare dagli stessi braccianti alle dipendenze del Pace. Dapprima gli viene recapitata una lettera con due proiettili ed un invito a consegnare loro 50 piastre, un prosciutto, un barile di vino e 10 pagnotte. In seguito viene sequestrato, con la complicità dei suoi vetturini, nei pressi di Castel di Ieri, mentre con 32 somari carichi di grano si recava a Sulmona. I briganti trasportano l'ostaggio sulla montagna di Canale dove viene custodito sino al pagamento di un cospicuo riscatto.
Maggio-Giugno 1867. Il prefetto invia sulle montagne intorno a Gagliano i reparti del 44° reggimento di fanteria, che battono a tappeto il territorio, scoprendo i nascondigli usati dai briganti. Gagliano viene cinta d'assedio e vengono passate al setaccio abitazioni, stalle, cantine e fienili. Cannone viene catturato mentre si nasconde nella soffitta di un parente.BracchicelloBirichino, e Anacleto Salutari dopo essersi nascosti per giorni in una vigna si costituiscono alla Guardia Nazionale. Sono tutti condotti ed imprigionati nelle segrete del Castello di Gagliano.
Ottobre 1868. La corte di Appello dell'Aquila condanna Salutati Anacleto ai lavori forzati a vita; Montemurri GaetanoVacca Vincenzo (alias Cannone), Di Cenzo Giuseppe, (alias "Birichino"), Bucci Carmine, (alias "Bracchicello") alla pena di morte, pena in seguito commutata ai lavori forzati a vita.
1930 o giù di lìAnacleto Salutati, ormai ultraottantenne, giunge a Castelvecchio, suo paese natale. Alla nipote, incontrata sulla via che porta al mulino, dice di essere un mendicante vagabondo, ma tradisce più volte la sua vera identità. La nipote lo invita a quella che fu la sua casa. Beve del vino e mangia i "quejè tiej" ammassati dalla nipote. Chiede notizie di una ragazza (che fu vicina di casa di Anacleto Salutati). Dorme nel pagliaio e all'alba va via prima che la nipote si svegli. Questo è quello che si racconta ancora oggi a Castelvecchio.

LA BANDA FRANCESCONI
Autunno 1860. A Tione degli Abruzzi scoppiano i moti reazionari. Il guardaboschiFrancesco Presutti, il soldato borbonico Domenico Camilli e Nicola Avellani, si rendono protagonisti di aggressioni contro i benestanti locali. Ricercati dalle forze dell'ordine fuggono nello Stato Pontificio.
Estate 1861. Presutti e Camilli tornano al paese nascondendosi nelle montagne di Tione, che il Presutti essendo stato guardaboschi, conosce come le sue tasche. I due, assieme ad altri tre latitanti incontrati in quelle montagne, decidono di darsi al brigantaggio: nasce la banda Francescone.
Agosto 1861. La banda sorprende il località Sacco del Sirente una carovana che stava trasportando lana per conto di Don Marinucci, ricco mercante di Sulmona. A vetturali viene ordinato di riferire al loro padrone che se avesse voluto la lana indietro, avrebbe dovuto consegnare 100 abiti da uomo, cravatte, cappelli e scarpe entro due giorni. Il riscatto non andrà a buon fine e così la banda decide di distribuire la lana alle famiglie povere di Tione degli Abruzzi.
Settembre 1861Giacomo Rosati è sorpreso dalla banda in località Pozzi della Prata, e fu ucciso con due fucilate al petto dal Chiaravalle, che consuma così la sua vendetta nei confronti del Rosati, reo di aver infamato il padre del brigante, e averne determinato la condanna a 25 anni di carcere. In seguito all'omicidio la banda si scioglie, il Presutti torna nello Stato Pontificio. Sabatino Chiaravalle viene arrestato vicino Avezzano.
Aprile 1863Domenico Camilli viene arrestato a Genova, dove si era arruolato nella Real marina Italiana. Viene condannato a 25 anni di lavori forzati.
Giugno 1864. Francesco Presutti, dopo una lunga latitanza nelle campagne romane, torna sulle montagne del Sirente. In poco tempo riunisce attorno a sè ben 30 uomini, ben armati ed equipaggiati.
Giugno 1864. La banda estorce ai frati francescani di Celano una pagnotta di pane, tre prosciutti, sessanta forme di cacio, 4 pacchi di sigari e un barile di vino, minacciando di sgozzare le mule dei religiosi. Analoghe minacce vengono profferite nei confronti di Don Tommasetti, nobile di Celano, alla Signora Pasqua di Ovindoli, e ai baroni Masciarelli, a cui vengono chiesti 7.000 ducati e due orologi d'oro. Pochi giorni dopo la banda aggredisce alcuni pastori in località Valle Faita, mozza la testa a sei agnelli, ruba 25 Kg di pane e 4 coperte. Pochi giorni dopo assale lo stazzo di Giovanni Iannuzzi in località Vallone di Forca, ruba le scarpe ai poveri pastori che lavoravano per conto del Iannuzzi.
23 giugno 1865. La banda fa irruzione nel casolare di Vincenzo Di Michele, guardia nazionale, nelle pagliare di Fagnano. Il Di Michele viene portato nel bosco. QuiFrancescone estrae il pugnale, cava gli occhi al malcapitato e lo lascia morire dissanguato. La banda raggiunge quindi la località Sacco del Sirente dove si imbatte in altre due guardie nazionali, che bivaccavano intorno ad un fuoco assieme ad alcuni pastori. Le guardie vengono legate e portate nel bosco. Dopo pochi minuti torna al bivacco un brigante succhiando compiaciuto il sangue colante dal suo coltello.
Agosto 1865. In seguito ai tre efferati omicidi, il Prefetto dell'Aquila organizza una gigantesca caccia all'uomo per sgominare la banda. Vengono arrestati a Tione, con l'accusa di favoreggiamento, tutti i fratelli del feroce brigante, tra i quali anche un ex -monaco. La banda si scioglie in attesa di tempi migliori, e i briganti cercano di nascondersi in luoghi più sicuri delle montagne del Sirente, oramai pattugliate quotidianamente da centinaia di guardie nazionali.
Settembre 1865. Francescone viene arrestato con tre suoi uomini sulle montagne nei presi di Vicovaro, mentre cercava di raggiungere il Lazio.
Aprile 1868. La corte d'Assise di l'Aquila condanna Francesco Presutti a 25 anni di lavori forzati.

domenica 23 giugno 2013

Spartacus e i Bruzi

by Salvatore Piccoli

Discendenti degli antichi popoli Enotri sfuggiti alle razzie dei Lucani che li chiamarono Brettii, cioè schiavi fuggitivi ribelli, ma oramai chiamati dai romani  Bruzi, si erano stabilmente insediati nel vasto territorio Teurinense compreso tra i fiumi Sabutum, Lamatum e Crotalus. 

Teura era il loro centro più importante e la montagna la loro patria.

 Dopo cent’anni dalle ordinanze consolari romane sui baccanali, avevano organizzato commerci diffusi anche con i greci della costa e spesso vendevano i loro prodotti anche ai Romani, battevano monete regolarmente e possedevano scuole dove donne educavano i bambini. 
Avevano organizzato una importante comunità fatta di reticoli abitativi comunicanti tra loro che permise di sopravvivere e conservare molte loro usanze anche dopo le guerre pirriche e puniche che i potenti romani avevano vinto instaurando un dominio che pareva non dovesse mai barcollare. La loro tenace resistenza alla sottomissione era motivo di continue incursioni romane , ma destinate all’insuccesso per via della selvaggia e inestricabile foresta che li proteggeva.

I Romani, però,  da sempre avevano assaporato delusioni cocenti per potere stanare definitivamente i Bruzi dai loro covi, chiamandoli homini mali, latrones,  Brigantes come i popoli dell’Ibernia che nemmeno  Cesare era  riuscito a soggiogare: popoli incapaci alla sottomissione!

 L’antica propensione ad esplorare luoghi impervi e difficilmente raggiungibili aveva spinto alcuni gruppi bruzi a inerpicarsi lungo gli argini del fiume Crotalus, così chiamato per l’irruenza delle sue acque, posto nell’angustissima valle a est della grande montagna dove di regola vivevano.La loro disposizione a spargersi in estensioni territoriali vaste era dettata da motivi di  sopravvivenza.

Uno dei capi , di nome Shorot, assieme alla sua tribù costituita dai sette figli, dalla moglie, dal vecchio padre Karob, da alcune donne e da altri appartenenti alla sua stirpe , risalì il tambureggiante fiume spingendosi verso nord fino a  immergersi in boschi  intricati e fitti per un’erta che pareva non finisse mai fino all’altopiano e subito dopo digradante su una dolce pianura tratteggiata solo radamente da alberi; una sorta di oasi celata tra le foreste che apparve come un segno di un qualche dio particolarmente generoso. Shorot, capo tribù, volle piantare in quel luogo il suo accampamento per una esplorazione appropriata delle terre. La sua sorpresa fu grande quando si accorse che a valle, una valle sinuosa, scorreva un delicato fiumiciattolo che si srotolava senza rumore. Sentì che quello era il luogo che il dio gli aveva assegnato perché lì vivesse con la sua tribù.

Ma non fecero in tempo a  sistemarsi che il vecchio genitore morì. 
Cosi chiamarono quel luogo Karoboli.

Si era sparsa notizia che uno schiavo trace fatto dai romani  gladiatore, di nome Spartacus, era fuggito e  stava da tempo ribellandosi energicamente a Roma.Egli, dopo aver saccheggiato alcuni carri romani che trasportavano armi ad altri gladiatori, aveva costituito un forte esercito fatto di schiavi pronti al sacrificio pur di riavere la propria libertà. Spartacus apparteneva in origine ad una tribù nomade, era dotato di grande intelligenza e di un’educazione quasi ellenica.Tante erano state le battaglie e Spartacus aveva intrapreso la via del Bruzio per raggiungere l’isola di Sicilia per ravvivare le rivolte servili. Così le tribù bruzie si stavano organizzando per accoglierlo e seguirlo.

Dopo le sonore sconfitte inferte ai Romani  nel Piceno, nell’autunno del 72 Spartaco e il suo esercito composto da schiavi Galli, Celti e Balcanici, giunse nella Silua.

A Turi  barattò i bottini vinti con ferro e rame per fare armi.

Shorot raggruppò uomini di ogni età e di varie tribù e parti verso le grandi foreste. Lunga marcia al freddo e alle intemperie ma con il cuore caldo di pensieri di rivincite contro i fortissimi romani.

Sulle rive del Targines, tra faggi millenari che incorniciavano le umide radure fluviali , sparsi come funghi migliaia di schiavi attendevano ordini. Spartaco era lì, in mezzo  a loro. Shorot e i suoi uomini s’avvicinarono a  lui offrendo le loro armi e i loro corpi alla causa della libertà.  Pelli d’orso coprivano gli uomini reduci da interminabili cammini e violente battaglie, partiti dalla Gallia. Spartaco portava addosso le vesti di gladiatore, incurante del freddo.

Si marciò quindi verso Sud, verso la Trinacria!

Giunto Spartaco con il suo esercito in prossimità dello stretto di Scilla, contattò i pirati cilici per la traversata: questi però lo ingannarono e non potè attraversare quella lingua di mare: fu costretto a risalire.

Gli astuti romani, intanto, avevano deciso di concentrare nel Bruzio le loro agguerrite legioni poichè temevano quel che poteva accadere se Spartaco avesse potuto consolidare una vera alleanza con quei popoli testardi e insensibili ad ogni oppressione: i Bruzi.  Questi erano stati già alleati di Pirro e Annibale, avrebbero certamente aiutato  anche Spartaco e ne avrebbero fatto un brigante come loro: imprendibile!

Per questo mandarono il pretorehttp://parolesemplici.wordpress.com/2011/06/08/spartacus-e-i-bruzi-posted-by-salvatore-piccoli/ il migliore stratega militare romano del tempo, con ben otto legioni, per fermarlo.

Le avanguardie servili, composte per lo più da elementi bruzi, che ben conoscevano quegli aspri territori, informarono Spartaco della presenza romana nei pressi di Hypponion. Le legioni di Crasso, in effetti si erano sistemate e presidiavano in maniera capillare, nella parte più stretta del bruzio, tutto il territorio da una costa all’altra per impedire il passaggio ai rivoltosi con una diga umana di soldati armati fino ai denti sistemata lungo l’istmo tra Scillunte e Hypponion.

Crasso era memore della costruzione di un muro fatta tre secoli prima da Dionisio Primo per difendere Locri dai Lucani e nello stesso luogo scavò un vallo profondo venticinque piedi, lungo trecento stadi da costa a costa e vi eresse a cornice un muro molto alto e robusto.

 Ma gli armati schiavi, spregiudicati e temerari, non avevano grossi timori e tentarono di forzare le linee romane. Vennero respinti più di una volta. Poi, con il freddo pungente che avanzava e le nevi copiose che cadevano, sfondate le selve, Spartaco ordinò di ricoprire il fosso con terra e sterpi: così a capo do un manipolo  dei suoi ribelli oltrepassò l’ostacolo. Ci si diresse verso Petelia ove si pensava di potersi imbarcare per l’Epiro:  mentre dal cielo cadeva grandine dura. Impossibilitato però a prendere il mare, venne inseguito e chiuso in un angolo da Crasso.
 Costui, però sempre timoroso, non riuscendo a  dare il colpo finale e perdendo continuamente uomini in agguati guerriglieri, chiese aiuto al senato di Roma. Il governo romano richiamò Licinio Lucullo dalla Macedonia che sbarcò immediatamente a Brindisi, mentre il governo di Roma interessò addirittura  Pompeo che si trovava con le truppe in Spagna.

 Spartaco comunque impossibilitato a imbarcarsi cambiò  progetto decidendo di dirigersi nuovamente verso l’Apulia via terra.

Ma Shorot , che gli era divenuto amico e confidente gli disse che oramai l’immensa macchina da guerra romana lo avrebbe stritolato.

Mai cadrò nelle mani dell’odiato romano, meglio morto!

 Pensò Spartaco.

 Shorot lo convinse così a far partire il suo esercito senza di lui. Stanco oramai e voglioso di libertà o di morte, pensò che in quella maniera avrebbe donato  agli astuti romani un’ultima beffa!

Nei pressi del fiume Sele l’esercito dei disperati venne definitivamente sconfitto, ma il corpo di Spartaco non fu mai trovato! Spartaco non era mai partito dal Bruzio anzi era rimasto celato nelle foreste. 

Tornò con Shorot a Carroboli.

 Alla fine della guerra i Romani condussero una spietata caccia ai bruzi, colpevoli di sempiterna ribellione.   Molti vennero decapitati, molte tribù smembrate con una deportazione coatta. Shorot e altri capi tribù vennero caricati su carri dentro gabbie di legno come gli schiavi orientali e portati in una terra lontana.

La terra che li accolse era però molto simile al Bruzio: aspre montagne e fiumi scroscianti, terre selvagge e ricche di boschi.

Gli abitatori di quella terra chiesero a  Shorot da dove venissero così brutali e disperati, e Shorot rispondeva in lingua latina per farsi comprendere: …bruzio

Cosi da allora quella terra fu chiamata Abruzzo.

Shorot e gli altri vennero sistemati ai piedi di una collina in zona non distante dal mare per scuoterne le usanze rurali e fiaccarne l’identità montanara.

Si trattava di un luogo segnato da remoti insediamenti protostorici e quindi già antropizzati in cui apparivano tracce antiche di vita umana ma oramai deserte.  

Shorot e gli altri s’accamparono e cercarono di edificare abitazioni.
 Poi  chiamarono Corropoli, a ricordo della loro perduta patria, quel luogo e vi rimasero per sempre.

Spartaco, non riconosciuto dai romani, sopravvisse nelle terre bruzie per molti anni ancora in libertà. Sposò una figlia di Shorot che era rimasta in patria ed ebbe due figli che coltivarono le idee di libertà e fierezza in quella terra.

Morì molti anni dopo supino all’ombra di un albero rigoglioso sulle rive del fiume Crotalus guardando il cielo e i corvi che volavano liberi!

fonte: http://parolesemplici.wordpress.com/2011/06/08/spartacus-e-i-bruzi-posted-by-salvatore-piccoli/

venerdì 14 giugno 2013

Brigantesse e Briganti tra storia e musica popolare

Omme se nasce, brigante se more,
ma fino all’ultimo aimme sparà
e si murimme menate nu fiore
è 'na bestemmia pe stà libertà,
è 'na bestemmia pe stà libertà
Sempre alla ricerca di avvenimenti e personaggi che riuscissero a catturare l’interesse degli spettatori delle piazze, la tradizione dei cantastorie meridionali, che come sappiamo risale al medioevo, ad un certo punto incontrò i Briganti, che entrarono a pieno titolo nel repertorio musicale del tempo. I briganti entrati in guerra per difendere la loro terra. Passati dal canto alla guerra, dalle chitarre alla scoppetta, da un tempo di pace, alla lotta contro l’invasore. Ma se la diffusione dei testi dei cantastorie a quei tempi era il principale strumento di comunicazione di massa, i cantastorie vennero quindi investiti inconsapevolmente di fini politici e sociali, soprattutto nell’Italia post Unitaria, quando la figura del brigante carico di quell’aurea leggendaria di umanità e spirito di sacrificio per la patria non poteva essere accettata in nessun modo. Così la figura del brigante meridionale cambiò dal periodo preunitario a quello post unitario, e mentre il popolo continuava ad idealizzare la figura del brigante come eroe leggendario e benefattore, gli intellettuali tentavano in tutti i modi di denigrarla in nome della creazione di un identità italiana unitaria.
Amm pusat chitarr e tambur
pecchè 'sta music s'adda cagnà.
Simm brigant e facimm' paur,
e cu 'a scupett vulimm cantà.
E le brigantesse?
Tra i tanti nomi che sono giunti fino ai giorni nostri quello di Maria Oliveiro, “ La brigantessa delle brigantesse”, pare essere quello che maggiormente ha stimolato la produzione musicale dei cantastorie dell’epoca. Nata nel 1841, non conosciamo con precisione la data della sua morte, ma sappiamo però in che modo è morta, condannata mediante fucilazione alla schiena, venne alla fine condannata al carcere a vita da scontare nella prigione delle Finestrelle in Piemonte. La sua storia è legata con forza al tema dell’onore e della famiglia. Decise di entrare in lotta dopo l’ omicidio di sua sorella Teresa. Si travestì da uomo, e sì unì al marito nella lotta, come molte altre sue coetanee, e quando lui perse la vita in battaglia, decise di prendere il comando. Ciccilla, così veniva chiamata. La narrazione che esce fuori dal racconto delle vite dei briganti, dalle storie, dalle parole dei cantastorie e della musica popolare, e della letteratura, è quella reale? I cantastorie possono rappresentare alla luce del nostro modo di intendere la comunicazione come giovani antenati dei mass-media, che con i loro canti, la maggior parte scritti in ottave, fungevano da specchio della realtà del tempo, maneggiandola con la musica, e creando auree leggendarie attorno ai personaggi che rendevano protagonisti. L’attendibilità storica dei cantastorie deve però sempre scontrarsi con la questione che riguarda la tradizione orale. Lo strumento orale rimane infatti sempre libero e aperto alle trasposizioni di significato,e anche alle idealizzazioni leggendarie. E’ difficile fare quindi una distinzione netta tra realtà e mito nella cultura che aleggia attorno alle storie dei briganti e delle brigantesse Italiane.
La musica popolare tradizionale legata alla vita delle brigantesse, chiamate con un termine dispregiativo anche “ drude”, sembra idealizzare fino all’osso la vita di quelle che furono donne coraggiose, abili, forti e desiderose di libertà, ma che non bisogna mai dissociare anche da una carica di violenza e spirito sanguinario non indifferente. Tanti gli aspetti di queste donne che si potrebbero analizzare, dall’aspetto fisico, estremamente mascolinizzato, al rapporto con la femminilità, forte ma a tratti contrastato, alla questione dell’onore, all’importanza della loro lotta in relazione all’emancipazione femminile del tempo. Una battaglia nella battaglia quella delle brigantesse, la loro partecipazione alla lotta era un modo per fuggire dalla gerarchia familiare e imporre la propria presenza nella società, così come nella battaglia.

“ Chiamateci Brigantesse e avete ragione
non dite assassine perchè anche noi abbaiamo sentimenti,
ma abbiamo scelto questa vita
montagna e dolore
per difendere questa terra dall'invasore”.
“ Tu, che stai li prigioniera, perché sei donna del sud, così bella così fiera, nella consapevolezza, che più forte del brigante, non puoi esserci che la sua brigantessa”.
Ribelli e spietate, violenti e crude, non possono essere lasciate in disparte nel dibattito relativo a quegli anni per un solo motivo, combattevano una loro guerra personale, ancor prima di combattere una guerra di popolo. Le brigantesse, infatti, con il loro modo di essere donne, e con la loro partecipazione alla battaglia, compirono il primo passi verso quel processo di emancipazione femminile, che tutt’ora non è concluso
“ sul tuo cuore una bandiera che non hai tradito mai, sul tuo viso un sorriso che per sempre porterai.” .
L’immagine che ci è giunta è quella di una donna vestita in abiti maschili, dalla femminilità nascosta, molto spesso repressa, forti e audaci come gli stessi uomini che sostenevano in battaglia. Ma erano veramente così , Luigia Cannalonga, Maria Rosa Marinelli, Maria Capitanio, Gioconda Marini, Mariannina Corfù, Chiara Nardi, Filomena Pennacchio, Arcangela Cotugno, Elisabetta Blasucci, Teresa Ciminelli, Filomena Pennarulo, Luigina Vitale, Giovanna Tito, Maria Lucia Nella, Maria Consiglio, Filomena di Pote, Maria Orsola D'Acquisto, Carolina Casale, Maria Pelosi, Rosa Giuliani, Michelina De Cesare, e tutte le altre giovani donne delle quali non ci è giunto il nome ne la storia? Partiamo da Michelina de Cesare, la donna a cui Eugenio Bennato, sempre nel solco della tradizione della musica popolare, ha dedicato una canzone, “ Il sorriso di Michela”. Sottoposta ad atroci torture Michelina de Cesare, preferì morire piuttosto che tradire la fedeltà della sua banda. Aveva solo vent’anni quando venne catturata insieme a suo marito Francesco Guerra e ad altri compagni, il giorno successivo venne spogliata ed esposta nella pubblica piazza . “Donna del sud, donna bianca, donna nera”, dice ancora Bennato. Donna dalla doppia faccia, amante fedele, ma anche spietata giustiziera.

Femm'na bell' ca dat' lu cor'
se 'stu brigant' u vulit' salvà
nun c' cercat' scurdat'v' o nome
chi ce fa a guerra nun tien' a pietà
chi ce fa a guerra nun tien' a pietà

Donne per salvarci, dimenticateci, abbiate paura di chi ci fa la guerra, poichè non ha pietà.
Quel modo di essere donna, così viscerale e profondo ma non tanto da non poter affrontare una guerra, non troppo per non scegliere di ritrovarsi nude di fronte alla lotta e alle battaglie, che con la loro crudeltà riuscirono a cacciare da queste donne la parte più nera e assassina. E allora cancellare la femminilità diventava una necessità, un opportunità per combattere insieme agli uomini, per rendersi utili. Ma nonostante tutto, quando venivano incarcerate ritornavano ad essere donne devote e femminee, tornando a dedicarsi al ricamo di fazzolettini dedicati ai loro uomini. Sono tante le storie di queste donne del sud, Filomena Pennacchio, la regina delle selve, Maria Maddalena de Lellis, la Padovella, la scrittrice di lettere sanguinarie, ecc ecc. Mentre molte di loro sono rimaste nell’anonimato, altre invece hanno lasciato i loro nomi e le loro storie incise negli annali dell’unificazione di questo paese. Le possiamo immaginare, idealizzare, anche grazie a quell’aurea romantica che le loro esistenze si sono lasciate dietro, anche grazie a coloro che hanno musicato la loro idea di femminilità, anche grazie a coloro che raccontandole ci ha dato la possibilità di leggere di loro e di provare a concretizzare la loro idea. La musica spesso crea un aurea romantica della storia, e in questo caso delle storie. Idealizza in musica vite passate, passate alla storia e da alcuni forse anche dimenticate.

… Contro 'e surdate 'e rre Vittorio
mò c'è rimasto sulo sta paranza,
ma nu brigante nun cagna 'a storia
quanno cumbatte sulo, senza speranza.
E quann'o pigliano 'ncopp'a muntagna
more senza paura, senza rimpianto,
e quanno 'e ppigliano dint'e paise
diceno: quann'e bello murire acciso.

Carla Giannini [ 01/10/2011 ]

Donne, Brigantesse, Drude....

Le Brigantesse
Nella storia del Sud c’è una tragedia dimenticata: le donne che si opposero, le donne dei «briganti». La storiografia risorgimentalista le ha bollate come «drude», donnacce, occupandosene quando si trattava di soddisfare la grossolana curiosità dei lettori di romanzi popolari.
Ma chi si accosta oggi alle brigantesse con obiettività d’intenti non può che scorgervi la sofferenza dell’altra metà del cielo dell’intera popolazione meridionale.
Ci furono donne che insorsero in armi, affiancando i loro uomini, altre li seguirono nella latitanza, altre ancora li fiancheggiarono in tutti i modi, fornendo loro l’essenziale per la vita alla macchia.

Le brigantesse furono feroci, anzi più degli uomini. Abilil, leste di coltello e di fucile. Coraggio ne avevano da vendere. Furono passionarie, eroine, crudeli, sottomesse e più spesso indipendenti e libere, anche nel passare da un letto all'altro.
Furono fiere di combattere per se stesse, per la propria terra e per l'indipendenza del Sud.
Ma se il brigantaggio fu anche un movimento politico-sociale di reazione ad una condizione di violenza e di oppressione oltre che l'affermazione di autonomia di uno Stato meridionale, il brigantaggio femminile fu visto anche come una prima forte ribellione allo stato di soggezione delle donne "napolitane" oltre che come un moto di protagonismo e di protezionismo per il riscatto dei propri figli e dei propri uomini e per la rscossa politica, sociale ed economica del Mezzogiorno.
Donne e brigantesse: non dedite, dunque, solo ai fornelli ed al letto, ma attive e protagoniste di un moto rivoluzionario.
Attive e protagoniste in battaglia, sui monti, nei paesi, nelle piazze e nei tribunali ove mutarono, con la furbizia innata, spoglie e atteggiamenti. Seppero innegabilmente affrontare il martirio, le sevizie, le crudeltà del nemico. Andarono incontro alla morte con grande dignità e resero immortali le loro concrete testimenianze.
Riuscirono a conquistare sul campo l'ammirazione delle popolazioni del Sud Italia e lasciarono un messaggio che nel tempo le ha rese protagoniste di una epocale sconfitta e di una amara unità.
Tante di esse sono rimaste nell'anonimato, tante altre simpatiche canaglie, belle donne grandi eroine. Forse in tutto questo emule della disperata battaglia che Maria Sofia di Borbone si trovò a combattere accanto a Francesco II sugli spalti di Gaeta..........

fonte: http://www.imagohistoriae.it/index.php?option=com_content&view=article&id=239:le-brigantesse&catid=41:briganti 

LE BRIGANTESSE: LA PARTE COMBATTIVA DELLA DONNA


brigantesse dell'Appennino

fonte: Associazione Trekking Campania "OFFICINAE ITINERIS"  un sentito ringraziamento a Andrea Perciato


Nonostante le donne, nel corso dei secoli, abbiano cercato di intraprendere forti iniziative a sostegno dell'emancipazione sociale,  gli sforzi sono stati in tutti i modi occultati, nascosti e negati allo scopo di disconoscere la loro importanza  nel progresso che una società più sana dovrebbe riservare al ruolo della donna. Lo  studio di Vincenzo Cibelli,  ci presenta le brigantesse come figure forti, consapevoli, determinate  e combattive , mentre il potere esercitato da una cultura maschile preferisce  considerarle come  esseri irragionevoli e irresponsabili al fine di sottrarre il giusto ruolo che esse hanno avuto  nello sviluppo dell'emancipazione della società.
Stralci da uno studio di Vincenzo Cibelli - Università degli Studi di Salerno
" Le brigantesse erano le  donne che si trovavano per varie ragioni nelle bande brigantesche, erano vestite e armate  come gli altri briganti, cavalcavano come loro e insieme a loro partecipavano alle azioni di razzia o di guerriglia.
Se dissolviamo, col soccorso delle carte processuali conservate negli archivi, il mito delle amazzoni bellicose e crudeli, esperte nelle arti di guerra come  in quelle dell'amore, la realtà che appare è fatta sempre di contadine poverissime, a volte orfane o trovatelle…Quando venivano integrate nel gruppo, le donne abbandonavano il vestito di contadine e prendevano quello delle brigantesse: indossavano un abito maschile..venivano armate..si facevano tagliare quasi sempre i capelli..il cambio dei vestiti rispondeva a una esigenza di ordine pratico ..ma si caricava al tempo stesso di valenze simboliche non meno importanti: il vestimento maschile assimilava le poche donne al gruppo dei maschi…segnalava vistosamente il cambiamento di status, da contadina a soldatessa.
Il vestimento, dunque, somigliava a un travestimento, che conservava gli elementi fondamentali dei riti di passaggio .. travestite da uomini le donne potevano spiare i movimenti dei soldati senza essere individuate, e quindi assolvevano alle funzioni di spia, sentinella, vedetta...... “Vedi per la Madonna….…. come si passa davanti ai soldati senza farsi conoscere? “ Il mito dell'invisibilità del brigante, diffuso in tutte le tradizioni epiche di ispirazione brigantesca, trova in situazioni di questo tipo,  le sue radici reali.
Come una donna diventava brigantessa? Per gli storici influenzati dalla criminologia razzista di Lombroso non c'è dubbio : brigantesse si nasce.....si può anche pensare alle oscure potenzialità femminili, che esplodono in un momento in cui il sistema normativo entra in crisi e la vita diventa una avventura, qualcosa insomma che può essere riscritta. Il brigantaggio offri infatti alle donne opportunità che non avevano mai avuto, un ruolo nuovo, pericoloso ma affascinante, un complesso di attività nuove, che davano ad esse la percezione di essere indispensabili e possedere il potere .Quale era il ruolo della donna tra i briganti?
La condizione della donna tra i briganti poteva cambiare da banda a banda...........A volte le donne erano membri autonomi del gruppo, in condizione di assoluta parità con gli uomini; altre volte erano considerate “ beni ed effetti dei loro rispettivi padroni” .. le donne erano apprezzate per il contributo che esse davano al funzionamento della banda, per le loro abilità militari, specie se associate a capacità di direzione e a durezza, e anche per la bellezza e il fascino che esercitavano sugli uomini della banda e sui capi..
I compiti... erano prevalentemente militari: prendevano parte … alle operazioni di guerra ..camuffate .. studiavano i movimenti delle truppe.. la metamorfosi in brigantesse richiedeva alle contadine una dilatazione drastica del loro ruolo tradizionale. Una repentina acquisizione di nuove abilità e competenze... una ristrutturazione non solo del sapere, ma del loro  modo di stare al mondo. Fu la loro, un'avventura di pochissimi anni, a volte di pochi mesi, ma bastò per dimostrare le potenzialità che le donne erano capaci di maturare con una rapidità sorprendente, proprio in un momento in cui il progresso marciava contro di loro.
Le leggi punivano severamente il brigantaggio... non era facile dimostrare la partecipazione delle donne alle operazioni militari... anche quando era attestata..bisognava accertare se esse avessero agito liberamente...e anche in questo caso le decisioni erano a discrezione dei giudici.
Il risultato fu che le condanne inflitte ….alle brigantesse furono  al massimo tra i 10 e i 20 anni di lavori forzati: molto più miti di quelle inflitte ai briganti..  Perché i giudici, perfettamente consapevoli dei reati delle brigantesse, non vollero attribuire ad esse la responsabilità dei loro atti, ledendo il principio dell'universalità del diritto e dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge?
Quasi certamente i magistrati con le loro decisioni aspiravano, forse oscuramente, ad esorcizzare l'idea che l'esperienza del brigantaggio avesse dato alla donna una qualche forma di  emancipazione , capace di renderla consapevole di quello che faceva, di prendere decisioni autonome, pervenire a libere condivisioni. Vollero immaginare che le brigantesse, quando combattevano con accanimento, quando spiavano i movimenti del nemico, quando rifornivano i loro compagni, lo facessero nella più totale irresponsabilità. Forse la metamorfosi delle contadine povere in guerriere disorientò i giudici, al punto di violare il principio dell'universalità della legge. Se gli scienziati e gli scrittori lombrosiani cercavano di dimostrare che le brigantesse erano delinquenti per natura, i giudici le vollero vittime irresponsabili e stolte. Sono due facce della stessa medaglia, quella che sanciva l'inferiorità della donna. "





giovedì 13 giugno 2013

"Diciamo la Verità" da sabato 15 giugno 2013 con Bartolo Di Luca e Gabriella Anna Rapposelli

"Diciamo la Verità" da sabato 15 giugno 2013

con documenti storici e filmati un viaggio per scoprire come andarono veramente i fatti durante "l'Unità (?) d'Italia "
in studio
Bartolo Di Luca, Orazio Di Stefano e Gabriella A. Rapposelli 
tutti i sabato sera a partire da sabato 15 giugno alle ore 18,15 su Oltre.tv - sul canale 119 del digitale terrestre, uno dei canali del bouquet di Trsp

"Diciamo la Verità" perchè:

"Siamo stati un grande popolo. Siamo stati alle origini della civiltà occidentale in tutti i campi. L'umiliazione di essere cornuti e mazziati come Pulcinella deve finire. Per noi. Pe i nostri figli e nipoti. Per i nostri padri e avi".-Nicola Zitara

Garibaldi:"Quando i posteri esamineranno gli atti del governo e del Parlamento italiano durante il Risorgimento, vi troveranno cose da cloaca".

-Cosa fu veramente il Brigantaggio e chi furono i briganti? Delinquenti o resistenti, malfattori o patrioti?

-Chi furono, allora le brigantesse? Vittime o carnefici? Drude (parola allora di moda) assatanate o amanti disposte al massimo sacrificio? Sanguinarie che attingevano al peggior repertorio maschile o donne capaci di soffrire e combattere? ( Marco Patricelli)

-"Per liquidare i popoli si comincia col privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un'altra cultura, inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo comincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. E, intorno, il mondo lo dimentica ancora più in fretta." Milan Hubl

-Alla base dell'unità d'Italia ci fu una violazione del diritto internazionale perché l'esercito piemontese invase uno stato amico, quello delle Due Sicilie, senza neanche una dichiarazione di guerra, appoggiato soprattutto dall'Inghilterra che aveva grossi interessi nel Meridione. (Gigi Di Fiore)

-PERCHE' A SCUOLA NON SI STUDIA LA VERA STORIA DEL SUD ITALIA?
150 ANNI DI SFRUTTAMENTO, 150 ANNI DI FALSA UNITA', 150 ANNI DI TASSE, DI MAFIA, DI MASSONERIA, 150 ANNI DI OFFESE, 150 ANNI DI RAZZISMO, 150 ANNI DI QUESTIONE MERIDIONALE... MA PERCHE 'ABBIAMO DOVUTO SUBIRE TUTTO CIO'? CERCATE LE RISPOSTA E' SEMPLICE....


"Diciamo la Verità" tutti i sabato sera a partire da sabato 15 giugno alle ore 18,15 su Oltre.tv - sul canale 119 del digitale terrestre, uno dei canali del bouquet di Trsp 

Il massacro di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, appunti su un genocidio.

Nel 1815, quando i Borboni ritornarono a Napoli, la popolazione era di 5.060.000, nel 1836 di 6.081.993; nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050.
Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progressocivile e sociale. Durante 127 anni di governo i Borboni diedero prosperità a tutto il popolo e da 3 milioni di anime, del 1734, si arrivò ai 9 milioni del 1856.

Cos’ era successo? Come fu possibile?

Nel Meridione non si costruivano strade fin dal tempo dei Romani e i vicerè spagnoli impoverirono la popolazione esigendo tasse e balzelli, i baroni inselvatichirono la vita civile, le campagne erano abbandonate, i boschi avevano invaso le terre fertili di buona parte del Regno, i pirati razziavano le coste, il commercio non esisteva quasi più e, non essendoci polizia, nessuno rispettava le leggi e solo gli  innominati di manzoniana memoria erano i veri padroni della società.
I Borboni  riuscirono dove gli altri fallirono, imbrigliarono e resero quasi innocui i baroni, costruirono strade, ricostituirono l’esercito e le amministrazioni locali cui diedero l’antica autonomia, diedero impulso all’industria, all’agricoltura, alla pesca, al turismo.
Da ultimo, tra gli Stati, divenne il primo d’Italia e tra i primi del mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820,  fecero la loro prima apparizione a Napoli (1839) con il tratto che congiungeva la capitale a Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare. A spese del tesoro nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l’altra per Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico.
Col benessere aumentava la popolazione in tutto il regno e per questa stessa ragione anche le entrate pubbliche che, di fatto, quintuplicarono.
Le strade erano sicure, non più masnadieri per terra ne pirati per mare; eliminate le leggi feudali fecero ordine sui territori e concessero, primi al mondo, la terra a chi la lavorava; furono così estirpate le boscaglie per far posto a frutteti e vigneti; furono prosciugate le paludi in tutto il regno e regalate ai contadini; furono arginati fiumi e torrenti.
Si mise ordine all’ amministrazione pubblica.
La scuola pubblica fu istituzionalizzata come primaria e quella religiosa a far da supporto. Laicismo e religiosità si confondevano, dando al regno nuovo impulso culturale. Fiorirono pittori, architetti, scultori, musicisti e grande sviluppo ebbe  l’artigianato.
Il teatro San Carlo, fu costruito in soli 270 giorni e la stessa corrente culturale fece nascere l’Officina dei Papiri, il Museo Archeologico, l’Orto Botanico, l’Osservatorio Astronomico, la Biblioteca Nazionale e, primo al mondo, l’Osservatorio Sismologico Vesuviano.
Lo sviluppo industriale fu travolgente e in venti anni raggiunse primati impensabili sia nei settori del tessile che in quello metalmeccanico con 1.600.000 addetti contro il 1.100.000 del resto d’Italia.
Nacquero industrie tecnologicamente avanzate, dando vita a ferrovie e battelli a vapore e costruendo i primi ponti in ferro in Italia, opere d’alta ingegneria in parte ancora visibili sul fiume Calore e sul Garigliano.
La navigazione si sviluppò in modo impressionante, tanto che il governo borbonico fu costretto a promulgare, primo in Italia, un Codice Marittimo creando dal niente una rete di fari per tutta la costa.
Le navi mercantili del Regno delle Due Sicilie solcavano i mari di tutto il mondo e la sua flotta era seconda solo a quella Imperiale Inglese e così pure la flotta da guerra, terza in Europa dietro quella inglese e quella francese. Le compagnie di navigazione pullulavano e così pure i cantieri navali, tutti forniti di manodopera di prim’ordine; i suoi maestri d’ascia e così i velai e i carpentieri erano richiesti in tutto il mondo.
Le industrie tessili, navali, metalmeccaniche pullulavano in tutto il regno: quella di Pietrarsa, con mille operai e settemila d’indotto, ne era la punta di diamante. Gli operai lavoravano otto ore al giorno e guadagnavano abbastanza per sostentare le loro famiglie e primi in Italia usufruirono di una pensione statale in quanto fu istituito un sistema pensionistico (con ritenuta del 2% sugli stipendi).

Nel Regno la disoccupazione era praticamente inesistente e così l’emigrazione.

Oltre al milione e seicentomila addetti nell’industria vi erano duecentomila commercianti e tre milioni e mezzo di contadini.
Il denaro circolava e le banche sovvenzionavano  le imprese con mutui a basso interesse.  Gli sportelli bancari erano diffusi in ogni paese e villaggio e prime al mondo, le banche del Regno, furono autorizzate dal Governo ad emettere i polizzini sulle fedi di credito ossia i primi assegni bancari della storia economica moderna.
Il turismo non era da meno delle altre industrie: la Sicilia, la Campania, il basso Lazio erano ricchissimi di reperti archeologici greci e romani che, affiancati da musei e biblioteche, diedero un impulso notevolissimo alla costruzione di alberghi e pensioni in quanto i viaggiatori aumentavano anno dopo anno.
Sorsero così le prime agenzie turistiche italiane e Carlo III di Borbone intuendo l’importanza di Pompei ed Ercolano, profondendo mezzi e denaro fondò l’Accademia di Ercolano, dando così, di fatto, inizio agli scavi.
Oggi Pompei è una delle città più visitate del mondo, con un milione di presenze all’ anno.
Oltre a bonificare le paludi, per dare lavoro ad operai e contadini, istituirono collegi militari come la Nunziatella, Accademie Culturali, scuole di Arti e Mestieri, Monti di Pegno e Frumentari
Le Università sfornavano fior di professionisti e scienziati e il Regno poteva vantare il più basso tasso di mortalità infantile in Italia. Erano sparsi sul territorio ospedali, ospizi e ben 9.000 medici.
Lo Stato godeva di buona salute, il deficit era quasi inesistente ed il suo patrimonio aureo era invidiato da tutte le nazioni.
Avendo buona amministrazione e finanze oculate la Borsa di Parigi, allora la più grande del mondo, quotava la Rendita dello Stato napoletano al 120 per cento, ossia la più alta di tutti i Paesi.
Nella conferenza internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie ilpremio di terzo paese del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale.
L’industria trainante, controllata con oculatezza dallo Stato e assistita dal sistema bancario non centralizzato, procurò dapprima i beni di consumo che servivano alla comunità per poi cominciare ad esportarli.
L’industria di trasformazione dei prodotti agricoli fu fondamentale per lo sviluppo dell’ agricoltura come quella tessile per la pastorizia. Centinaia di frantoi macinavano le olive, centinaia di mulini trasformavano in farina il grano del Regno, migliaia di forni sparsi per le città ed i villaggi lavoravano il pane, decine di pastifici producevano pasta e conserve.

Tutto questo è oggi, ai più, ignoto oltre che al Nord dell’Italia,  anche nel Mezzogiorno stesso.

Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta: tre mesi di resistenza; tre mesi di massacri perpetrati dal generale Cialdini. 160 mila bombe rasero al suolo la città tirrenica e fiaccarono per sempre la sua vitalità.
Camillo Benso di Cavour diede al generale Cialdini l’ ordine di distruggere Gaeta in quanto stava ritardando i tempi per il suo disegno. Il Primo Ministro piemontese sapeva che il Piemonte era alla bancarotta, come sapeva che la sifilide lo stava divorando.
Prima di morire voleva vedere attuato il suo capolavoro: la cosiddetta Unità d’Italia.
Il 13 febbraio 1861 è una data che ogni Meridionale dovrebbe memorizzare perché da allora iniziò una resistenza senza quartiere contro gli invasori savoiardi che al Sud nessuno voleva.

Nacque in quel giorno la questione meridionale.

Il Sud prospero venne saccheggiato delle sue ricchezze e delle sue leggi; venne immolato alla causa nazionale; venne immolato alla massoneria che da Londra dirigeva e stabiliva il nuovo assetto mondiale. Il Regno delle Due Sicilie, unico stato libero ed indipendente da influenze straniere, fu dato in pasto agli affamati piemontesi.
Nel 1861 il Piemonte, per conto di Mr. Albert PikeGran Maestro Venerabile della massoneria di Londra, iniziava il più grande genocidio e  prima pulizia etnica della storia del nostro paese.
A metà agosto i giornali di regime stampavano con enfasi le vittorie militari dell’esercito sabaudo e fecero passare per una grande battaglia la scaramuccia di Castelfidardo, mentre calavano una cortina di silenzio sugli eccidi perpetrati dai generali piemontesi contro cittadini inermi.
Cannoni contro città indifese; fuoco appiccato alle case, ai campi; baionette conficcate nelle carni dei giovani, dei preti, dei contadini; donne incinte violentate, sgozzate; bambini trucidati; vecchi falciati al suolo.
Ruberie, chiese invase, saccheggiati, i loro tesori rubati, quadri, statue trafugate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse per decreto.
La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. In dieci anni dal 1861 al 1871 circa novecentomila cittadini furono uccisi su una popolazione complessiva di 9.117.050. Mai nessuna statistica fu data dai governi piemontesi. Nessuno doveva sapere.
Alcuni giornali stranieri pubblicarono delle cifre terrificanti: dal settembre del 1860 all’agosto del 1861 vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22 frati, 60 ragazzi e 50 donne uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6 paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 1.428 comuni sollevati.
Dati che erano sottostimati almeno di cento volte; le notizie il ministero della guerra le dava col contagocce, in quanto all’estero doveva apparire tutto tranquillo e mai giornalista fu ammesso a constatare ciò che stava accadendo nelle province meridionali. Il movimento rivoluzionario antipiemontese, chiamato brigantaggio, in realtà fu un grandissimo movimento di resistenza, per la difesa della loro patria, il loro Re e la Chiesa Cattolica, da un’ orda massonica che voleva colonizzare il Meridione.

Quella setta governa  ancora.

Le cifre che pubblicavano i giornali stranieri  erano sottostimate; il governo piemontese aveva dato ordine di mettere a ferro e fuoco il Regno delle Due Sicilie e dette carta bianca ai vari comandanti militari.  L’esercito piemontese fu ammaestrato ed addestrato agli eccidi di popolazioni inermi, a rappresaglie indiscriminate, al saccheggio, alla fucilazione sommaria dei contadini colti con le armi in mano o solamente sospettati, arresti di partigiani o solo sospettati di esserlo, fucilazioni, anche di parenti di essi, stato d’assedio di interi paesi.
Alcuni comandanti piemontesi emanarono, fra il 1861 e il 1862, bandi che i nazisti mai avrebbero sognato di applicare a popolazioni di origine germanica.
Naturalmente i piemontesi non erano italiani e si sentivano in diritto, contro tutte le convenzioni, e il diritto internazionale, di fare quel che volevano, di poter fucilare chiunque trasgrediva i molteplici divieti.
Generali, colonnelli, maggiori e ufficiali che parteciparono a quelle repressioni dovevano sentirsi, in cuor loro, dei codardi.
Diciamo semplicemente che erano dei criminali di guerra tanto è vero che ancora oggi, dopo 150 anni, nelle scuole non s’insegni la vera storia del Risorgimento piemontese che per il Sud, in realtà, fu vera colonizzazione e sterminio di massa.
L’aiutante di campo di Vittorio Emanuele II, generale Solarolidefiniva i contadini la più grande canaglia dell’ultimo ceto. I contadini dovevano essere tutti fucilati, senza far saper niente alle autorità. Imprigionarli non era conveniente perchè, una volta in galera, lo Stato doveva provvedere al loro sostentamento.
Il più determinato e feroce fu il criminale di guerra generale Cialdini, detto Berluski, il quale dopo aver massacrato Gaeta telegrafò al governatore del Molise: “Faccia pubblicare un bando che fucilo tutti i paesani che piglio armati e do quartiere solo alla truppa”,
Il generale Fanti emanò un bando che sanciva la competenza dei tribunali militari straordinari per i colpevoli di brigantaggio.
Il generale Pinelli si superò, estese la pena di morte a chi avesse: ” .. a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del re o la bandiera nazionale”.
Il generale Della Rocca, altro campione ed eroe piemontese, impartì l’ordine che:  ”non si perdesse tempo a far prigionieri, dato che i governatori avevano fatto imprigionare troppi contadini”.
In una settimana nel Teramano furono fucilati 526 contadini e a Scurcola altrettanti, e così a Isernia e Rionero Sannitico e in mille altri paesi del Sud.
Il colonnello Pietro Fumel si vantava di aver fatto fucilare ” briganti e non brigantie sottoponeva a torture e sevizie inaudite i prigionieri.

IL NORD NON LASCERÀ AI MERIDIONALI NEMMENO GLI OCCHI PER PIANGERE

I Borboni avevano conservato il loro regno integro; i piemontesi, che avevano invaso un Regno senza dichiarazione di guerra, trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c’era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni, misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferendo tutte le sue ricchezze nel Piemonte.
Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse al comandante Vincenzo Criscuolo:  «Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.

Mai parole furono così vere!

Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d’arte, quadri,  statue.
Nelle casse piemontesi finirono circa seicento milioni ricavati dalla vendita dei beni ecclesiastici e altrettanti dalla vendita dei beni demaniali che i Borboni, da sempre, riservavano ai contadini ed ai pastori.
Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava con l’indotto lavoro a settemila persone; le scuole pubbliche e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali i quali, coraggiosamente, preferirono andare a morire partigiani sui monti dell’ Appennino, piuttosto che veder calpestato il suolo della patria napoletana dalle “orde di assassjnj e ladroni del nord.
Erano così rapaci i fautori dell’Italia Unita che a Napoli furono trafugate anche le batterie della cucina dei palazzi reali. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento, tali opere erano state create da Benvenuto Cellini.
Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, le più oneste e migliori  menti della classe imprenditoriale, quel poco che restava di media borghesia oltre a una miriade di contadini e di operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano.
Tutto cominciò quando il famoso, si fa per dire prode, “assassino e criminale di guerra”,Ferdinando Pinelli, varcò il Tronto con la sua armata e fu battuto dai contadini dell’ Ascolano. Fu preso a sassate ed una pietra colpì l’ardito generale che, adirato, dettò il seguente bando:
Ufficiali e soldati! La vostra marcia tra le rive del Tronto e quelle della Castellana è degna di encomio. S.E. il Ministro della Guerra se ne rallegra con voi.
Selve, torrenti, balze nevose, rocce scoscese non valsero a trattenere il vostro slancio; il nemico, mirando le vostre penne sulle più alte vette dei monti ove si riteneva sicuro, le scambiò per quelle dell’ aquila Savoiarda, che porta sulle ali il genio d’Italia: le vide, impallidì e si diede alla fuga.
Ufficiali e soldati!Voi molto operaste, ma nulla è fatto quando qualche cosa rimane da fare.
Un branco di quella progenie di ladroni ancora si annida tra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è delitto.
Vili e genuflessi, quando vi vedono in numero, proditoriamente vi assalgono alle spalle, quando vi credono deboli, e massacrano i feriti. Indifferenti a ogni principio politico, avidi solo di preda e di rapina, or sono i prezzolati scherani del vicario, non di Cristo, ma di Satana, pronti a  vendere ad altri il loro pugnale.
Quando l’oro carpito alla stupida crudeltà non basterà più a sbramare le loro voglie, noi li annienteremo; schiacceremo il sacerdo tal vampiro, che con le sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’ immonda sua bava, e da quelle ceneri sorgerà rigogliosa e forte la libertà anche per la provincia ascolana”.
I Savoia, i Bixio, i Boiolo, i Brignone, i Cavour, i Cialdini, i Cugia, i Del Giudice, i De Luca, i Fantoni, i Farini, i Fumel, i Garibaldi, i La Marmora, i Martini, i Pinelli un giorno saranno processati da un tribunale Morale.  Saranno tutti condannati dalla storia
Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: scuole gratis, teatri, opere d’ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo.

Non c’era disoccupazione.

Era il primo stato Sociale, il primo stato Illuminato del mondo.
Doveva essere abbattuto. La massoneria non perdona chi vive in modo dignitoso e libero. La massoneria ha bisogno di servi, di schiavi e i liberali erano i loro lacchè.
Alessandro Bianco, conte di Saint-Jorioz, piemontese, sterminatore anche lui di gente, ebbe momenti di lucida analisi scrivendo le sue memorie sul brigantaggio e le cause che determinarono la rivolta contadina post-unitaria: “…Il Piemonte si è avvalso di esuli ambiziosi, inetti, servili, incuranti delle sorti del proprio paese e preoccupati soltanto di rendersi graditi, con i loro atti di acquiescente servilismo a chi, da Torino, decide ora sulle sorti delle province napoletane. E accanto a questi uomini, adulatori e faziosi, il Piemonte ha posto negli uffici di maggiore responsabilità gli elementi peggiori del paese: figli dei più efferati borbonici, per fama spioni pagati dalla polizia, sono ora giudici di mandamento o Giudici circondariali, sotto prefetti o delegati di polizia; negli uffici sono ora soggetti diffamati e ovunque personale eterogeneo e marcio che ha il solo merito di essersi affrettato ad accettare il programma Italia e Vittorio Emanuele ed una sola qualità:quella di saper servire chi detiene il potere”.
L’ipocrisia ed il servilismo di questi uomini aveva un suo fondamento: l’arricchimento personale. Questi, della Patria, se ne infischiavano come se ne fregavano se centinaia di migliaia di loro paesani venivano passati per le armi, anzi erano proprio loro a darli in pasto ai militari perchè non fossero d’ostacolo alle loro ruberie. La stampa di regime faceva il resto.
Tutto ciò che era o puzzava di Piemonte veniva glorificato e tutto ciò che era borbonico veniva additato al pubblico disprezzo.
Giuseppe Massari, per esempio, scriveva al Cavour che le truppe piemontesi negli Abruzzi e nel Molise vennero accolte come” truppe liberatrici e la gioia della folla era indescrivibile e grande l’entusiasmo popolare”.
Questo Sig. Massari, che poi fece parte della commissione d’inchiesta sul brigantaggio del Sud, voleva apparire agli occhi del Primo Ministro come colui il quale aveva fatto il miracolo di far diventare quelle popolazioni tutte filo piemontesi. Sapeva benissimo che la realtà era ben diversa: sia gli abruzzesi che i molisani accolsero i piemontesi a fucilate.
Una volta al potere quest’accozzaglia liberal-massonica inasprì fino all’inverosimile gli animi dei contadini che reclamavano giustizia e ricevevano torti; reclamavano i terreni demaniali e venivano scacciati con la forza da quelle terre; chiedevano pane e gli si dava morte.
A far traboccare la goccia dal vaso fu il bando che rivedeva la presentazione dei soldati di leva e degli sbandati entro il 31 gennaio 1861. Ovunque fosse stato affisso si verificarono disordini ed incendi di municipi; iniziò così la caccia ai giovani a agli sbandati con rastrellamenti scientifici. Tutti i renitenti venivano fucilati sul posto.

Cominciò così la resistenza armata contro gli invasori del Regno delle Due Sicilie.

Gli ufficiali piemontesi  non badavano alla forma; la fucilazione divenne una cosa ordinaria e cominciò così l’epopea della classe contadina, gli eccidi di intere popolazioni, gli incendi dei raccolti e delle città ritenute covi dei briganti.
I militari piemontesi, i cosiddetti azzurri sabaudi, in nove mesi trucidarono 8968 contadini, senza pietà; eseguivano ordini criminali ed i superiori davano loro facoltà di razzia e di saccheggio.
Cominciarono ad incendiare paesi interi per incutere timore, paura e terrore.In poco tempo tutto il Sud insorse contro i nuovi invasori e pagò un prezzo altissimo in morti.
Scurcola fu devastata dai piemontesi e così Carbonara. Avigliano, Gioia del Colle e tante altre città furono bruciate ed i loro abitanti trucidati: Pontelandolfo, Casalduni, Venosa, patria d’Orazio, Barile, Monteverde, S. Marco, Rignano, Spinelli, Montefalcione, Auletta ed altre cento città.Mai conosceremo il numero dei contadini immolati, fucilati, trucidati.
Antonio Gramsci, nato ad Ales in Sardegna ma originario di Gaeta, che aveva dato i natali al padre Giuseppe nell’agosto 1860 ed il cui nonno, Don Gennaro Gramsci, era capitano della gendarmeria borbonica, parlando della questione meridionale ebbe a dire che: “.. .Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.
Il Piemonte stava massacrando un popolo, stava distruggendo l’economia del Meridione, stava imponendo con la forza il nuovo ordine voluto dalla massoneria inglese.
La legge borbonica sulla leva era mite ed accomodante; la Sicilia ne era esente.La legge di Ferdinando II del 1834 esentava i figli unici, i figli di vedovi, gli ammogliati, i sostegni di famiglia, i diaconi, i seminaristi; una famiglia con tanti figli ne dava solo uno per fare il soldato e a domanda si poteva essere esenti per grazia sovrana.
La legge piemontese distruggeva le famiglie e la loro economia. Tutti i figli maschi erano obbligati a prestare servizio militare e spesso mandati al nord a prendere istruzioni per poi andare a sparare contro i loro fratelli nel Sud.
Gli animi erano colmi d’ira, bastava un nonnulla per far scoppiare la rabbia che ognuno serbava in corpo. I contadini volevano restaurare l’antico Regno delle Due Sicilie,  i liberalmassoni volevano i Savoia che garantivano loro potere e denaro.

L’ORDA MASSONICA

In un mondo di topi nasce un popolo di roditori
Il Piemonte: servo dei voleri della massoneria, indirizza da sempre la politica italiana.
Nel 1861 il Piemonte faceva capo alla gran Massoneria di Mister Albert Pike ed oggi allaTrilateral Commission.
Il 12 marzo 1849 sul Globe, quotidiano inglese, portavoce dell’alto iniziato Palmerston,ministro della regina Vittoria, apparve un articolo che era praticamente un vero libro profetico e possiamo dire, senza enfasi, che era stato preparato segretamente nel Sacro Tempio della massoneria londinese:
“.. .E’ da ritenere che gli accadimenti dell’anno scorso non siano stati che la prima scena di un dramma fecondo di risultati più vasti e più pacifici. L’edificio innalzato dal Congresso di Vienna era così arbitrario e artificioso che ciascun uomo di stato liberale vedeva chiaramente che non avrebbe sopportato il primo urto dell’Europa. L’intero sistema stabilito dal Congresso di Vienna stava dissolvendosi e Lord Palmerston ha agito saggiamente allorché ha rifiutato il proprio concorso a opporre una diga all’onda dilagante. Il piano che egli ha concepito è quello di una nuova configurazione dell’Europa attraverso la costituzione di un forte regno tedesco che possa costituire un muro di separazione fra Francia e Russia, la creazione di un regno polacco-magiaro destinato a completare l’opera contro il gigante del nord, infine un reame d’Italia superiore guidato dalla casa Savoia.”
Il disegno era chiaro, doveva essere attuata la profezia di Comenius espressa in Lux in Tenebris, secondo la quale sarebbe dovuta sorgere dalle, tenebre come fonte di luce una Super-chiesa che integrasse ogni religione attraverso i Concistori nazionali, le Chiese Nazionali, onde giungere in nome di un umanesimo unitivo ed a carattere filantropico e tollerante, a proclamare l’uguaglianza e la pari dignità di tutte le religioni
Questo progetto si scontrava con un ostacolo formidabile: la chiesa cattolica con la sua gerarchia, la cattolicissima casa Asburgo d’Austria, la Santa Russia degli zar ed il Regno delle Due Sicilie, primo stato al mondo, quest’ultimo, che aveva saputo integrare il dogma cattolico con il verbo del Vangelo; tradotto in pratica da leggi che non disdegnavano le novità della rivoluzione francese o quelle comuniste del Campanella e di Marx.
Questo nuovo ordine doveva portare sconvolgimenti politici e morali d’inaudita violenza.
In Italia il compito di capovolgere detto ordine, come abbiamo visto nell’ articolo del Globe, fu assegnato al Piemonte e a casa Savoia, votata alla Gran Consorteria. Gli altri sovrani infatti erano tutti devotissimi alla Chiesa di Roma. Lo Stato più retrivo d’Italia avrebbe dovuto dare luce allo stivale! Al suo servizio la massoneria londinese mise uomini, denaro e mezzi; soprattutto denaro ed oro. Casa Savoia doveva eseguire spietatamente gli ordini di Londra dopo.
Londra mandò Lord Gladstone a Napoli e Lord Mintho ed altri emissari nelle varie province italiane a preparare la rivoluzione liberale agli ordini di Giuseppe Mazzini, capo della Carboneria Italiana, il cui scopo finale, secondo il suo fondatore genovese Antonio Maghella, era  ”.. .quello di Voltaire e della rivoluzione francese: il completo annientamento del cattolicesimo ed infine del cristianesimo”.

Ma torniamo ai nostri contadini e operai napoletani

Il Regno delle Due Sicilie fu conquistato militarmente e senza dichiarazione di guerra.

Era indipendente fin dal 1734 ed era guidato da un re italiano che parlava napoletano. Il suo popolo era ingegnoso, pacifico, prospero; la sua industria dava lavoro a due milioni di persone, l’agricoltura era fiorentissima, la flotta contava 9848 navi, seconda solo a quella Iimperiale  Inglese, le riserve auree erano attive e non vi era deficit pubblico; la disoccupazione era zero.
Il piccolo Piemonte, armato dalla massoneria inglese, strumento e servo di Lord Palmerston, scatenò nel Sud una repressione feroce contro i contadini e contro il clero.

Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno.

Il terrore imperava, il genocidio di massa fu regola e legge. Si doveva distruggere un popolo la cui colpa era quella di essere cattolico e fedele al suo re, al papa e alla sua terra, che da sempre considerava la sua patria.
Il Piemonte era stato delegato dalla massoneria inglese a creare una borghesia laica, liberale, vorace, senza scrupoli.
Accentrò il potere, annullò l’autonomia impositiva dei comuni; annullò tutte quelle istituzioni, sia pubbliche che religiose, che per secoli avevano consentito un equilibrio unico al mondo, che consentivano ai deboli di difendersi dai soprusi dei ricchi.

Il Piemonte annullò lo stato sociale che i Barbone avevano eletto a patrimonio morale.

Il Piemonte, grazie alla politica dei vari governi incamerò centinaia di milioni dalla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali.
Nel 1860 il debito pubblico del Piemonte ammontava alla somma di oltre un miliardo di lire di allora (1.159.970.595.43)  e doveva pagare £ 57.561.532.18 di interessi annui alle banche inglesi, una montagna di debiti, una voragine spaventosa che 4 milioni di abitanti non sarebbero mai riusciti a pagare.

Tale debito fu caricato con lagrime e sangue  sulle spalle delle popolazioni  annesse con l’Unità d’Italia.

Secondo i dati del primo censimentonto dell’Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire incamerati nelle casse piemontesi, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie

NORD LADRO

Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.
Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria
erano 1.595.359 nel Regno delle Due Sicilie
contro i 376.955 del Regno di Sardegna,
465.003 della Lombardia,
66.325 del Ducato di Parma,
71.759 di Modena, Reggio Emilia e Massa,
130.062 della Romagna,
16.344 delle Marche,
10.955 dell’Umbria,
33.456 della Toscana.
Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.
La Campania nel 1860 era tra le regione più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 150 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.
Per oltre un secolo scrittori salariati dal regime massonico hanno denigrato i Borboni ed il loro Regno, tanto che la parola borbonico, nell’accezione imperante, è diventata sinonimo di arretrato, di inefficiente.
Naturalmente i pennivendoli del Nord e del Sud, baldracche allo stato dell’arte, feccia immonda senza nerbo ed imputridita, letame e monnezza, ai quali stava e sta a cuore solo il più bieco servilismo nei confronti del regime piemontese prima e borghese massonico capitalista oggi, hanno infangato un popolo, un Regno e la sua amministrazione, la sua efficienza amministrativa e tributaria, hanno infangato i contadini del Sud che erano accorsi a difendere la loro patria chiamandoli briganti, hanno infangato la storia.

Oggi  è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!

Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.
I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito.
Ecco, questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.

Le finanze del Regno delle Due Sicilie nel 1860 costituirono un bottino enorme per i piemontesi ed i mercenari garibaldini al soldo inglese.

Vittorio Gleijeses nella sua Storia di Napoli scrive: “… il tesoro del Regno delle Due Sicilie rinsanguò le finanze del nuovo stato, mentre l’unificazione gravò sensibilmente la situazione dell’Italia meridionale, in quanto il Piemonte e la Toscana erano indebitate sino ai capelli ed il regno sardo era in pieno fallimento. L’ex Regno delle Due Sicilie, quindi, sanò il passivo di centinaia di milioni di lire del debito pubblico della nuova Italia e, per tutta ricompensa, il meridione, oppresso dal severissimo sistema fiscale savoiardo, fu declassato quasi a livello di colonia. Con l’unificazione, a Napoli, aumentarono le imposte e le tasse, mentre i piemontesi videro ridotti i loro imponibili e col denaro rubato al Sud poterono incrementare le loro industrie ed il loro commercio”.
Ferdinando Ritter ha scritto che: “… il Regno delle Due Sicilie contribuì alla formazione dell’ erario nazionale, dopo l’unificazione d’Italia, nella misura di ben 443 milioni di lire in oro, mentre il Piemonte, la Liguria e la Sardegna ne corrisposero 27, la Lombardia 8,1, il Veneto 12,7, il Ducato di Modena 0,4, Parma e Piacenza 1,2, la Romagna, le Marche e l’Umbria 55,3; la Toscana 84,2; Roma 35,3…“.
La ricchezza del Regno delle Due Sicilie era dovuta alla buona amministrazione pubblica che dava autonomia impositiva ai comuni.  Il Sud godeva di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire in oro, più del doppio di quello degli altri Stati d’Italia.
Nel Regno delle Due Sicilie l’emigrazione era una parola inesistente nel vocabolario; tutti avevano un lavoro, l’occupazione era completa, la scuola era pubblica e gratuita per tutti, ne mancavano quelle private e quelle religiose; i vecchi venivano accolti in ospizi pubblici o religiosi; i braccianti agricoli, quando non trovavano lavoro nelle tenute dei possidenti, scorticavano le montagne demaniali e vi impiantavano vigne, frutteti, uliveti; i pastori avevano libero accesso ai pascoli; i pescatori utilizzavano pescherecci moderni costruiti nei cantieri navali del Regno; i naviganti solcavano tutti i mari del mondo trasportando le merci prodotte nelle fabbriche del Meridione d’Italia.
I prodotti agricoli, essendo il vanto di un’ agricoltura sana venivano trasformati negli opifici locali e destinati all’ estero dopo aver soddisfatto le esigenze degli indigeni.
Si rimane  esterrefatti nel leggere le statistiche relative all’industria tessile, all’industria metalmeccanica a quella ferroviaria e mercantile del Regno delle Due Sicilie, in quanto le nostre orecchie sono state abituate da sempre a sentire parlare di un Sud povero, pieno di mafiosi e di nulla facenti, insomma un popolo di terroni.
Nel Meridione vi era una fittissima rete di opifici tessili che davano lavoro a decine di migliaia di operai, di fabbriche metallurgiche e mercantili che, con una grossa rete di maestri artigiani e una moderna industria di trasformazione agricola, formavano un tessuto laborioso di prim’ ordine.
Nel corso dei secoli il Sud era sempre stato un paese esportatore di materie prime ed importatore di manufatti.
Dal 1820 al 1860 la situazione cambiò radicalmente: una vera rivoluzione. Nel 1834 il Regno delle Due Sicilie esportò lana per 65.991 ducati; nel 1842 ne vennero importati 1.000 quintali per soddisfare le esigenze delle nostre industrie del settore; quantità che aumentò nel corso degli anni. Nel 1852 si importarono 15.000 quintali di lana.
Il cotone cominciò ad essere importato attorno agli anni trenta in  quanto le industrie del Sud avevano esigenze nuove. Nel 1838 vennero importati 1710 quintali di cotone; nel 1852 i quintali arrivarono a 11.078. Il cotone filato passò dalle 1.439 tonnellate del 1830 alle 3.429 del 1855.
I prodotti manifatturieri in un primo momento servirono a soddisfare le esigenze del mercato interno in continua espansione, per poi essere esportati in tutto il mondo. Da grande esportatore di lana, il Sud divenne in un ventennio grande consumatore del prodotto. Nel 1855 s’importarono cotone e lana per circa 100.000 ducati, prodotti che venivano lavorati nelle industrie del Sud.
Intere zone del Regno delle Due Sicilie vennero rivoluzionate in poco tempo per la gran massa di operai impiegati in quelle industrie. 200 mila persone, di cui centomila donne, lavoravano nel settore.
Nella Valle del Liri, in Ciociaria, gli imprenditori locali, aiutati da una politica bancaria equa, investirono in un anno quasi un milione di ducati nel settore tessile impiegando circa 15 mila operai su una popolazione di 30 mila abitanti producendo annualmente oltre 360.000 canne di tessuti.
Nel 1846 a Napoli ed in Terra di Lavoro lavoravano nel settore tessile 60 mila operai, pari al 28% della popolazione residente nel territorio.
Nel distretto di Salerno gli operai addetti nelle fabbriche tessili erano 10.244. Famosissime erano le tele di lino di Cava de’ Tirreni.
In una città come Arpino, sempre in Ciociaria, che contava 12 mila abitanti, vi erano 32 fabbriche che impiegavano 7.000 operai locali.
Questo pullulare di industrie aveva un unico titolare: il Banco di Napoli che, favorito dalle leggi del Regno e avendo grandi capitali da investire risparmiati dalle popolazioni meridionali, dava ricchezza rimettendo il denaro nel circuito locale. Il tutto veniva facilitato dalla continua protezione governativa.

L’INDUSTRIA METALMECCANICA NEL REGNO DELLE DUE SICILIE

Per difendere l’economia del suo regno, Ferdinando II il 15 dicembre del 1823 ed il 20 novembre del 1824, emise provvedimenti doganali che proteggevano lo sviluppo industriale autoctono.
Già nel 1818, pochi anni dopo la Restaurazione, abbandonando i criteri liberistici che producevano utili per pochi e disoccupazione per molti, il Sovrano napoletano aveva imposto dazi elevati sui prodotti stranieri importati e dazi minimi sulle merci d’importazione necessarie allo sviluppo delle sue terre.
Quanto alle esportazioni, erano stati fissati dazi elevati per le materie prime che potevano essere lavorate dall’industria napoletana.
Fin dal 1821, inoltre, erano stati aboliti i regolamenti sulle corporazioni. Erano stati spesso anticipati capitali ai manifatturieri da parte della Cassa di Sconto.
Questa politica fece dell’industria tessile e metalmeccanica due settori trainanti che portarono molti stranieri ad investire nel Meridione.
Tra essi ricordiamo l’industriale Guppyche, che con il suo connazionale Pattison, aveva intrapreso a Napoli la costruzione di macchine agricole e macchine a vapore
La fonderia di Macry ed Henry, con sede al Ponte della Maddalena, con mille addetti operava nel settore del ferro fuso.
Ferdinando II divenne, di fatto, il più dinamico imprenditore del Regno.
Nacque così il Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa, nei pressi di Napoli, con mille operai specializzati, fiore all’occhiello dell’industria partenopea.
Lo stabilimento fu inaugurato nel 1840 da Ferdinando II di Barbone. Pietrarsa fu il primo nucleo veramente industriale italiano; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive.
Le officine della Breda nacquero 44 anni più tardi e la Fiat 57 anni dopo.
Sempre su iniziativa del Re venne istituita la real fonderia in Castelnuovo (500 operai), la Real Manufattura delle armi in Torre Annunziata (500 operai), l’Arsenale di Napoli ed il Cantiere Navale di Castellammare (2.000 operai).
1.500 operai lavoravano alle Ferriere Mongiana in Calabria, con stabilimenti a Pazzano e a Bigonci.
Quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa, mentre 200 operai specializzati lavoravano nello stabilimento metalmeccanico di Cardinale, sempre in Calabria, e producevano 2.000 quintali di ferro.
Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). Altri ancora a Lecce, Foggia, Spinazzola: questi ultimi tutti specializzati nel produrre macchine agricole.
In ogni paese nacquero piccole industrie, che erano il nerbo dell’ economia reale del Regno.
Di notevole importanza erano le industrie della pasta alimentare, della  lavorazione del cuoio e per la produzione di colori,  delle maioliche, di vetri, cristalli, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali di precisione.

LE FERROVIE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE

Il 3 ottobre 1839 venne inaugurata la Napoli-Portici, la prima ferrovia italiana: la locomotiva a vapore coprì la distanza tra le due città in nove minuti, tra due ali di folla festante e curiosa di vedere tanta potenza in quello sbuffare di vapore.
I pennivendoli post-unitari si affannarono per sostenere l’inutilità di detta ferrovia, ritenuta un passatempo da giocattolo nelle mani del Re Borbone.
In realtà quegli intellettuali da strapazzo tentarono di oscurare la grandezza illuminata di Ferdinando II che, fortissimamente, aveva voluto dare impulso all’intero assetto industriale del Regno.
Altro che giocattoli! Dietro quella locomotiva c’erano le industrie di Pietrarsa, della Mongiana e mille altre; industrie con personale qualificato e specializzato e che preparavano i ragazzi con corsi di formazione.
Durante il discorso d’inaugurazione, Ferdinando II espose il suo progetto ferroviario.
Il Sud doveva essere attraversato da due grandi dorsali ferroviarie: la prima doveva collegare Napoli a Brindisi e dalla città pugliese la ferrovia avrebbe dovuto raggiungere Pescara, Ancona Bologna e, passando per Venezia, avrebbe dovuto ricongiungersi con le ferrovie danubiane e renane.
La seconda, partendo dalla Calabria e dalla Basilicata avrebbe dovuto raggiungere Roma per poi proseguire per Firenze, Genova e Torino.
Nel 1840 la via ferrata raggiunge Torre del Greco, nel 1842 Castellammare di Stabia, nel 1844 Nocera e quindi Salerno. A nord di Napoli si lavorava speditamente: nel 1843 la ferrovia giunse a Caserta e nel 1844 a Capua e Sparanise.
Sulla Gazzetta Piemontese del 30 marzo 1847, Ilarione Petitti di Roreto esprimeva la sua ammirazione per il programma ferroviario avviato nel Regno delle Due Sicilie.
Il Piemonte, arretrato e guerrafondaio, riteneva detti programmi fantascientifici; Cavour aveva altro a cui pensare e la storiografia ufficiale di regime fece passare per «grandi opere»la costruzione del canale chiamato poi di Cavour.
Il 16 aprile 1855 Ferdinando II emanò un decreto sottofirmato dal Direttore di Stato dei lavori pubblici, Salvatore Murena. L’art. 1 così recitava:
“.. .Accordiamo concessione al Sig. Emanuele Melisburgo di costruire una ferrovia da Napoli a Brindisi…”.
Nello stesso giorno il Re firmò un altro decreto in cui all’art. 1 dichiarava:
“accordiamo concessione al Barone D. Panfilo De Riseis, di costruire una ferrovia da Napoli agli Abruzzi, fino al Tronto, con una diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo ed una per Sansevero…”.
Ferdinando II aveva previsto persino una ferrovia per il trasporto di animali dagli Abruzzi nelle Puglie per alleviare le fatiche dei mandriani e le relative perdite di giumente compensate così da un trasporto a tariffa conveniente.
Edoardo Spagnuolo, nel n°5 dei quaderni di Nazione Napoletana, così commenta la fine del sogno vissuto dalle popolazioni meridionali dopo l’annessione piemontese:
” I grandi progetti ferroviari del Governo Borbonico avevano dunque un fine preciso. Le strade ferrate dovevano divenire un supporto fondamentale per l’economia meridionale ed essere di servizio allo sviluppo industriale che il Mezzogiorno d’Italia andava mirabilmente realizzando in quei tempi.
Il governo unitario, dopo aver distrutto le fabbriche del Sud a proprio vantaggio, realizzò un sistema ferroviario obsoleto che, assieme alle vie marittime, servì non per trasportare merci per le manifatture e gli opifici del meridione ma per caricare masse di diseredati verso le grigie e nebbiose contrade del Nord o delle Americhe”.

LA MARINA MERCANTILE, LA VERA CAUSA PER LA  DISTRUZIONE DEL REGNO DELLA DUE SICILIE

Le industrie del Sud richiedevano continuamente materie prime e quindi c’era bisogno di navi che le trasportassero.
Essendo l’Italia meridionale attraversata da una dorsale appenninica formata di aspre montagne, e quindi da vie di comunicazione di difficile attraversamento, fu naturale, sin dai tempi dell’Impero Romano, che uomini e merci viaggiassero per mare.
Tutta la costa era punteggiata di centri i cui cantieri navali erano rinomati in tutto il mondo e che davano lavoro a migliaia d’operai che lavoravano nelle industrie collegate.
Nel 1818 il Regno delle Due Sicilie disponeva di 2.387 navi, nel 1833 il numero salì a 3.283, di cui ben 262 superiori alle 200 tonnellate e 42 che oltrepassavano le 300 tonnellate.
Nel 1834 i bastimenti arrivarono a 5.493 per salire a 6.803 nel 1838. Nel 1852 il numero di navi e bastimenti arrivò a 8.884.
Nel 1860 la flotta mercantile borbonica era la seconda d’Europa dopo quella inglese e contava 9.848 bastimenti per 259.910 tonnellate di stazza, dei quali 17 piroscafi a vapore per 3.748 tonnellate, 23 barks per 10.413 tonnellate 380 brigantini per 106.546 tonnellate, 211 brick schooners per 33.067 tonnellate, 6 navi per 2.432 tonnellate e moltissime imbarcazioni da pesca.
I cantieri navali erano sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica e adriatica. Praticamente in ogni città costiera vi erano insediamenti accompagnati da scuole di formazione professionale e scuole marittime e nautiche.
Tutti pensano che Gaeta, allora, fosse solo una roccaforte militare che dava ospitalità a circa 10.000 soldati.
In realtà attorno alla fortezza ruotava un’ agricoltura ricchissima ed avanzata costellata da circa 300 trappeti che davano lavoro a centinaia di persone, come pure vi erano fabbriche di sapone e di reti.
Gaeta, come altre città del Regno, era ricchissima e la sua flotta mercantile vantava molte società di navigazione con al servizio duemila marinai sempre in viaggio.
Essa era composta da 100 brigantini e martegane, da 60 a 220 tonnellate di stazza, 60 paranzelle da 30-40 tonnellate e circa 200 barche a vela da 2 a 20 tonnellate di stazza che ogni giorno si recavano a Napoli o a Roma attraverso il Tevere trasportando merci e passeggeri.
I cantieri navali di Gaeta, da sempre attivi, costruivano brigantini, galeoni, saette e velieri che venivano anche esportati.
Tutto questo stava togliendo prestigio e competitività a una grane Marina, alla Marina Reale Inglese.
Le navi napoletane toglievano fette sempre più ampie al mercato della  cantieristica inglese, non solo erano ottime, ma  più economiche.
Il varo della prima nave a vapore del mediterraneo, l’attuazione di rotte che giungevano in America del Nord, del Sud e nel Pacifico, stavano intaccando i mercati  commerciali Imperiali.
Soprattutto, da lì a pochi anni si sarebbe aperto il canale di Suez, e tal cosa avrebbe rischiato di fare diventare  il porto  Napoli, uno dei porti più importanti dell’Europa ma innanzitutto la porta dell’Europa verso il cuore dell’impero inglese; le Indie.

Questo non  poteva essere più essere tollerato.

I Borboni erano a conoscenza di questo e, per calmare le acque, avevano praticamente dato la Sicilia in usufrutto agli  inglesi, le minieri di zolfo erano indispensabili agli inglesi per la produzione di polvere da sparo, ma non era bastato.
All’indomani dell’invasione piemontese, l’industria e la cantieristica del Regno delle Due Sicilie venne quasi praticamente tutta smontata e smantellata,  si doveva estirpare alla radice quel temibile concorrente economico.
Non solo, lo Stato Sabaudo, con una politica protezionistica a favore del Nord, con anticipi di capitale e generosi sussidi a favore delle compagnie liguri e della nascente industria padana, affossò patriotticamente la rimanente economia meridionale costringendo alla fame intere popolazioni.
Con l’avvento dei Savoia, il Sud importò solo fame e miseria per sconfiggere le quali erano possibili due soluzioni: la rivoluzione o l’emigrazione.
Il popolo tutto, verso la fine del 1860, insorse contro i piemontesi. Ma dieci anni di guerra civile, e una politica da terra bruciata da parte dei Savoia, finirono per distruggere  l’intero assetto economico del Regno e la nazione precipitò nel baratro.
Dopo la sconfitta i Meridionali furono costretti ad abbandonare in massa la  loro terra.

L’ISTRUZIONE PUBBLICA NEL REGNO DELLE DUE SICILIE

Nel 1734 il Sud andò a Carlo III di Borbone che, avendo in dote 28 milioni di ducati, pensò bene ricomporre lo Stato attraverso la cultura.
Nacque così il ’700 napoletano.
La scuola fu l’ istituzione realizzata per imporsi e per rinnovare il sapere della gente.Ogni città, ogni villaggio doveva essere provvisto di scuole pubbliche.
Ogni provincia doveva avere una scuola per uomini ed una per donne, ove potessero apprendere le scienze primarie e le belle arti e, per i nobili, esercizi di colta società.
Nella capitale fiorì l’Università con le diverse specializzazioni, università che era considerata come l’atto finale e sublime della pubblica istruzione.
Nel 1806 molte leggi furono emanate nel Regno delle Due Sicilie : si ebbe l’apertura di scuole speciali come l’Accademia delle Belle Arti, la scuola delle Arti e mestieri, l’Accademia Reale militare, la  Politecnica, l’Accademia Navale, quella dei Sordomuti, una delle arti da disegno, un convitto di chirurgia e medicina, uno di musica.
I seminari furono conservati e potevano svolgere regolarmente e mirabilmente la loro funzione sociale.
Nacque allora anche la Società Reale, cioè un’accademia di storia ed antichità che si giovò di doni e privilegi e, così pure, quella detta d’incoraggiamento e pontaniana.
L’istruzione pubblica permise a tutti di imparare l’arte del leggere e dello scrivere, consentendo ai figli dei contadini l’accesso agli uffici pubblici, la carriera nell’esercito e soprattutto la presa di coscienza delle libertà individuali e dell’indipendenza di cui godeva il Regno delle Due Sicilie.
I Borboni profusero non poche energie per sviluppare l’istruzione pubblica che prima del 1806 era commessa a 33 scuole normali, ai  seminari delle Diocesi Vescovili, ai corpi religiosi e, come abbiamo già visto, all’Università degli Studi di Napoli.
Ad Avellino vi era un collegio che conferiva i Gradi accademici per la giurisprudenza, la teologia e la medicina.
A Salerno si davano i gradi in medicina; gradi che fecero del dottorato salernitano una scuola rinomata in tutto il mondo.
Dopo il 1810 in tutti i comuni si istituirono scuole primarie gratuite a spese dei municipi; molte ne furono istituite nei capoluoghi di provincia.
Ferdinando II volle incrementare la cultura ed il sapere nel suo Regno introducendo altre 16 cattedre nell’Università della capitale, l’Orto Botanico, il Collegio Veterinario; istituì quattro Licei a Salerno, Catanzaro, Bari e l’Aquila.
Le spese per l’istruzione pubblica ammontavano a circa un milione di ducati all’anno.
I regolamenti per le scuole primarie furono approvati il 21 dicembre 1819.
Le ministeriali del 12 giugno 1821 e 7 agosto 1821 stabilirono il modo come dovessero scegliersi i maestri nelle scuole primarie. Con decreto del 13 agosto 1850 il Re nominò i Vescovi ispettori di tutte le scuole del Regno, pubbliche e private.
A Napoli esistevano 14 istituti d’istruzione media superiore con 1.343 alunni; due istituti di nobili fanciulle con 303 educande; 32 Conservatori di musica frequentati da 2.134 studenti.
Dopo il 1861 il Piemonte, scientificamente, chiuse tutte le scuole che erano sovvenzionate con denaro pubblico.
L’operazione doveva servire a due cose: rendere il Sud schiavo e colonizzato e trasferire i soldi, tutti quelli possibili, al Nord.
Il Piemonte, indebitato di un miliardo di lire con le banche londinesi, aveva bisogno di liquidità costante, anche per portare a temine l’opera di pulizia etnica nel Mezzogiorno d’Italia.
Prima ad essere attaccata fu l’istruzione pubblica, poi vennero svuotati tutti i forzieri delle banche e quelli dei comuni. Mai, nel Sud, la barbaria fu più feroce ed infame.
Il Villardi, che era stato mandato nella capitale a smantellare 1′apparato scolastico napoletano, così ricorda:
“ Pareva che si volesse levar tutto a Napoli.  Oggi per esempio, noi abbiamo sciolto l’Accademia delle Belle Arti, mentre si pagano tutti i professori; per l’istruzione secondaria, in una città di cinquecentomila anime, non abbiamo che un liceo di sessanta alunni e questo con un ministro intelligente e pieno di volontà… “.
Ecco, il Regno delle Due Sicilie era finito nelle mani degli eredi di Vittorio Emanuele I, della dinastia più reazionaria d’Europa; quella cioè che, abolendo il Codice Napoleonico, ristabilì l’antica legislazione complicata e senza unità, i privilegi fiscali e l’antica legislazione penale con la fustigazione e, cosa più terribile, proibì i culti ai cattolici perseguitando anche mortalmente ebrei e valdesi e, cosa ancora più abominevole, ridiede tutta l’istruzione nelle mani delle scuole religiose a pagamento, abolendo quelle pubbliche istituite da Napoleone.
Allo stesso modo represse con ferocia i tentativi dei genovesi di riacquistare l’antica dignità e libertà*.
*Tra il 1 e il 10 aprile del 1849, il generale sabaudo Alfonso La Marmora ordinò ai suoi 30.000 bersaglieri il bombardamento di Genova che era insorta contro la tirannìa piemontese.
I bersaglieri misero a sacco la città depredando beni e cose, violentando donne e bambini.
Uccisero circa 600 Genovesi. Vittorio Emanuele II alla fine di quell’azione si congratulò con La Marmora definendo i cittadini di Genova “vile ed inetta razza di canaglie”.
Tutto ciò che era pubblico doveva essere abolito e così le scuole.
Chi non poteva pagarsi l’istruzione, secondo le leggi dei Savoia, doveva rimanere analfabeta e la classe contadina, chiamata dai montanari piemontesi classe infima da erudire con le fucilazioni e le torture.
In pochi mesi il governo piemontese distrusse secoli di cultura, di tradizioni, di storia, secoli di libertà e dignità.
Alla guida dei licei del Regno fu mandata gente illetterata, con il solo scopo di smantellare l’istruzione pubblica e rendere il popolo ignorante e servo.
In poco tempo i piemontesi, sotto la gragnuola di ispettori, vice ispettori, delegati, bidelli, funzionari ed impiegati, quasi tutti venuti dal Piemonte, i quali non conoscevano nemmeno la lingua italiana, “‘nfrancesati” come erano, massacrarono e dissolsero la scuola primaria e secondaria.
Gli scagnozzi e gli scherani di Vittorio Emanuele II, re dei galantuomini e della borghesia cisalpina, i servi del governo della destra storica, ebbero l’ordine di chiudere l’Accademia Napoletana delle Scienze e di Archeologia, famosissima in tutto il mondo, mentre L’Istituto delle Belle Arti fu abolito per decreto.
Mai i Borboni avevano dissacrato la cultura, né la religione, né la dignità dei contadini e degli operai. La scuola superiore era affidata ad uomini di grande reputazione morale e professionalmente preparati.
Ai sovrani napoletani poco importava, se politicamente fossero di idee repubblicane, liberali o legittimiste; sapevano che la matematica o la fisica non potevano essere politicizzate in una scuola seria
Uomini del calibro di Galluppi, Lanza, Flauti, De Luca, Bernardo Quaranta reggevano le cattedre universitarie.
Macedonio Melloni, cacciato da Parma per le sue idee liberali, fu accolto dai Borboni affinché portasse la sua esperienza nella scuola del Regno. Il Melloni era raccomandato presso il Governo Borbonico da Francesco Arago, ardentissimo e passionale repubblicano, ma ai Borboni interessava soprattutto“far funzionare le libere istituzioni nel modo migliore possibile”.
Quasi come adesso…….
Aneddoti
- Nel 1852 Re Ferdinando I  fece un giro d’ispezione per il regno, in una sosta il valletto Galizia gli portò per pranzo due polli ma senza pane.«Non fa nulla» disse il monarca e mandò un ufficiale a prendere due pani. Il pane giunse, ma il re, notando che il principino ereditario mangiava solo il pollo, esclamò: «Né , Ciccí, tu magni senza pane?» Franceschiello si lagnò che era duro e muffito, «Magnatello, e l’avarissi siempe, ‘o magnano i surdati che sono meglio ‘e nuje» gli replicò il padre.
- Ferdinando I, rivolto a un ministro che criticava il Tanucci (a lungo al potere): «Zittati tu, isso è lu maestro, noi siamo li ciucci».
Fonte: Liberamente tratto da  srs di   Antonio Ciano
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11 risposte a Il massacro di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, appunti su un genocidio.

  1. renato guarino scrive:
    la storia non è la bugia inventata da salariati storiografi per coprire il vero significato di guerre – uccisioni e annessioni ma quella descritta da queste pagine di struggente verità dove l’avidità,il genocidio e lo sterminio di massa hanno permesso a quattro pezzenti francofoni di assoggettare e depredare uno Stato che era una delle tre meraviglie del mondo antico.
    Viva il Re,viva Ferdinando II,viva il popolo del SUD,viva il Mediterraneo con i suoi colori azzurri e turchesi,viva infine chi cercherà di riportare il nostro popolo ai fasti che furono……..
    Viva il SUD
    a morte i sabaudi briganti e condanna a morte per il sifilide Cavour