martedì 21 dicembre 2010

La Conca

          Migliori   grazie



LA CONCA  
non mancava mai nelle famiglie abruzzesi. Insieme a "lu maniere" (vedi ...dizionario: mestolo di rame che, nella foto, vediamo appeso al bordo della conca) rappresentava uno degli oggetti più usati nei nuclei familiari.

Era usata solitamente come contenitore d'acqua, ma poteva essere utilizzata anche per contenere liquidi d'altro genere.



Per motivi di comodità, di solito, trovava posto accanto alla porta d'ingresso in modo che chiunque entrasse potesse usufruire dell'acqua in essa contenuta. In periodi in cui l'igiene lasciava molto a desiderare, sembra che nessuno si sconvolgesse molto del fatto che chiunque entrasse si dissetasse dal medesimo "maniere" rituffandolo poi magari nella stessa acqua della conca.



È inoltre vivissima in molti, l'immagine delle donne che tornavano dalle fontane ("Lacarielle" o "Fumbruate") recando sul capo le conche piene d'acqua con i bambini per mano senza far cadere neanche una goccia del preziosissimo liquido.Mostra tutto

Di: Geremia Mancini

sabato 18 dicembre 2010

“101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita”

Siti grazie

Luisa Gasbarri è un’autrice nota in special modo per essersi dedicata, nei racconti come nel romanzo, al genere noir, ma ha già rivolto in passato la sua attenzione alla nostra regione, ideando e curando la raccolta di racconti Quattordici giorni a domani (Demian) per esempio, che fotografava la realtà metropolitana attraverso gli occhi di giovani scrittori diversamente legati alla città di Pescara.


Dinnanzi al suo nuovo libro viene subito da chiedersi che Abruzzo sia quello che viene descritto, cosa lo caratterizzi, quale la prospettiva narrativa scelta. La parola, dunque, all’autrice.



101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita è un libro importante per me, per diversi motivi. Quando mi è stato chiesto di raccontare, descrivere, la terra in cui sono nata, cresciuta, in cui vivo da anni, che nel tempo ho esplorato lavorando e girando per le sue diverse province, a darmi gioia è stato soprattutto il fatto che non sarei stata costretta a farlo in modo asettico, oggettivo, come in una classica guida turistica. Potevo infatti permettermi una rivisitazione creativa, brillante, poetica e anche ironica volendo, perché il libro è un manuale alternativo: non un elenco di posti da vedere, ma un incatenarsi di desideri, di atmosfere, di incontri memorabili per vivere i quali ho indicato i luoghi per me più adatti, le manifestazioni culturali più interessanti, le esperienze gastronomiche gratificanti, le bellezze naturalistiche o artistiche coinvolgenti. Ho voluto privilegiare le emozioni, e anche se la precisione nei riscontri storici o geografici, nelle curiosità scientifiche o erudite non manca, rimane a ogni modo sullo sfondo. La responsabilità era presentare la mia regione agli occhi dell’Italia intera, far percepire agli altri abitanti della penisola la vivacità, la peculiarità della nostra terra, nelle sue tante sfaccettature, creando però nel contempo un testo che fosse sorprendente e fresco per gli abruzzesi, capace di spingerli a riscoprire in un’ottica inconsueta, persino provocatoria, la straordinaria ricchezza culturale e umana che li circonda, la rara bellezza di un paesaggio naturale che ci rende famosi nel mondo.



Per scrivere un libro come questo, oltre alle tue esperienze e ai tuoi ricordi, hai svolto delle ricerche. Qual è stata la scoperta più inaspettata?



Spesso quel che emoziona affiora dal modo in cui percepiamo più che dalle cose. Guardare non sempre è vedere. Perciò è stato prezioso per me scoprire che la poesia di Rocca Calascio è racchiusa nel vento che la disfa e accarezza, che le vibrazioni segrete di Bosco Martese accendono ancora i miei timori ancestrali, che il rosso dello zafferano è la proiezione del desiderio di una dea, che nella ricetta di un dolce assaggiato a Roseto o scoperto a Pescara può celarsi una metafora della vita. E’ per esempio bellissimo accorgersi, dopo anni di studi sul femminile e sulla cultura gender, che la sintesi perfetta dell’essere donna è lo sguardo indimenticabile di Mila di Codro, o che i segreti del mare si condensano muti nella rarefatta inquietudine dei caliscendi. Ho capito che ogni città ha una sua anima, e interpreta il mondo attraverso la sua vocazione dominante: questo spiega perché Lanciano e Ortona, Sulmona e Giulianova, Chieti e Pescara, Teramo e L’Aquila siano così differenti. Certo, i paesi della costa e quelli dell’interno sembrerebbero differenti per definizione, ma il bello è che tutti i luoghi legati al mare, come quelli protetti dalle montagne, assumono qui una loro distintiva identità. Il mare è versatile dalle nostre parti: spiagge d’argento, lunghe dune, scogliere oggetto di discussione infinita, spogli trabocchi, golfi dorati… e così la montagna, perché la materna Maiella non è vezzosa o seduttiva come la Bella Addormentata. La sorpresa più appagante è addentrarsi in questa diversità stupefacente, laddove non la si immaginava, nell’indole dei territori, nei loro respiri autentici e antichi.



Hanno scritto infatti del libro che è una “pennellata originale sulla nostra regione” (L’Opinionista), e qualcuno ha addirittura parlato di un Abruzzo delineato come “il migliore dei mondi possibili” quasi (Il Centro).



Non esistono mondi migliori, esistono mondi. Che sono appunto originali, tutti diversi. L’amore non si può nascondere, tanto meno quello per i propri luoghi d’origine, ma l’amore non rende acritici o ciechi, penso piuttosto che conceda tra i suoi doni l’acutezza della vista, e del discernimento. La bellezza, scriveva Simone Weil, sarebbe inutile estetismo se non suggerisse, nella profondità che la caratterizza, anche il suo contrario. Poiché l’autentica bellezza è dialettica, non mancano dunque nel libro mie allusioni a certe nostre debolezze endemiche, come l’indifferenza con cui finiamo per accondiscendere a talune istallazioni o opere artistiche di discutibile gusto, la fatale rassegnazione storica con cui subiamo laceranti esperienze da mezzi di trasporto borderline…



L’Abruzzo di ieri e l’Abruzzo di oggi. C’è una continuità storica ancor oggi riscontrabile o un gap che fatichiamo ancora a identificare?



Ho scritto questo libro in un momento molto difficile per la nostra regione.



Di un disastro terribile come quello del terremoto, con tutte le conseguenze e le perdite che ha comportato, si può superficialmente attribuire la colpa a Madre Terra, ma in questi ultimi anni abbiamo anche assistito a scandali più imputabili all’uomo, politici, sanitari, amministrativi… Mi tocca profondamente per esempio il fatto che spesso molti dei nostri giovani più promettenti, preparati, talentuosi, come succede in altre parti d’Italia, vadano via dall’Abruzzo, oggi come ieri. Il dramma de L’Aquila sarebbe infatti adesso se la città si svuotasse delle sue giovani generazioni, dei cittadini di domani. La Storia ci indica forse la giusta prospettiva, e se si considera quanti paesi furono abbattuti dai terremoti in Abruzzo nel corso del tempo, quante abitazioni ricostruite, quanti quartieri rasi al suolo dalle bombe delle guerre e poi riedificati con incredibile energia, allora dalla continuità, dall’esperienza dei tempi antichi, si può trarre rinnovata forza, tenacia, perché il passato della nostra terra ci insegna che ci si può sempre rialzare. Nel Terzo Millennio, ora che la differenza tra le periferie e i centri del mondo si affievolisce, e spostarsi diventa quasi superfluo, visto che Internet ci collega a tutto e tutti, la sfida è tuttavia ancora quella che i nostri nuovi d’Annunzio, Silone, Ovidio, giusto per non allargarsi alle scienze o all’economia, traggano importanti motivi d’ispirazione dai propri luoghi di origine, e avvertano il desiderio di restarvi. Se il villaggio globale s’impone, l’appartenenza, le radici, assumono grande valore. La nostra impronta antropologica era nota fin dai tempi degli antichi romani, quindi la continuità ci preserva, ma deve orientarci oggi la consapevolezza che anche restando in Abruzzo possiamo fare cultura, ricerca, progettare, costruire, innovare, e in chiave cosmopolita, alta.



Qual è il modo ideale per leggere questo libro? Da quale voce è consigliabile iniziare?



Non considerate rigorosa la suddivisione per province, perché il libro non la rispetta, nel senso che i tour trasversali, come quelli enogastronomici o tematici, prendiamo il tour dei canyon, dei parchi o il tour medioevale, si riferiscono al territorio dell’intera regione. Magari una lettura random può meglio ispirare per una gita, per un’esplorazione. Se invece avete già le idee chiare, identificherete chiaramente le voci dedicate alla forma di esperienza da voi prediletta: il turismo dell’anima, il turismo del mistero, il turismo romantico, il turismo del palato, il turismo avventuroso o elegiaco, nostalgico… Le cose da fare spaziano in ogni direzione: si va dal “Premunirsi contro i vampiri” all’“Innamorarsi”! Di certo l’uso più improprio del volume, per quanto vagamente pedagogico, mi è stato riferito solo qualche giorno fa e ammetto di non averci mai pensato: qualcuno ha avuto l’idea di intrattenere irrequieti bambini leggendo gli incipit delle voci e facendo loro indovinare i luoghi descritti. Davanti a tale creatività da parte dei lettori… chapeau!

fonte: http://www.abruzzocultura.it/0016950_101-cose-da-fare-in-abruzzo-almeno-una-volta-nella-vita/

mercoledì 8 dicembre 2010

Abruzzo: nello Stato italiano preunitario




Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

Le Due Sicilie erano lo stato italiano preunitario più esteso territorialmente e comprendevano tutto il Sud continentale d’Italia, l’Abruzzo, il Molise, la parte meridionale del Lazio e la Sicilia, nel 1860 vi erano poco più di nove milioni d’abitanti (poco più di un terzo di tutta la Penisola); era diviso in 22 province di cui 15 nel Sud continentale e 7 in Sicilia: Napoli e la sua provincia; Abruzzo Citeriore con capoluogo Chieti; Primo Abruzzo Ulteriore con capoluogo Teramo; Secondo Abruzzo Ulteriore con capoluogo L’Aquila; Basilicata con capoluogo Potenza; Calabria Citeriore con capoluogo Cosenza; prima Calabria Ulteriore con capoluogo Reggio; Seconda Calabria Ulteriore con capoluogo Catanzaro; Molise con capoluogo Campobasso; Principato Citeriore con capoluogo Salerno; Principato Ulteriore con capoluogo Avellino; Capitanata con capoluogo Foggia; Terra di Bari con capoluogo Bari; Terra d’Otranto con capoluogo Lecce; Terra di Lavoro con capoluogo Capua e poi Caserta; in Sicilia i capoluoghi di provincia erano: Palermo, Trapani, Girgenti (Agrigento), Caltanisetta, Messina, Catania, Noto.

La storia delle Due Sicilie era cominciata nel lontano 1130 con i Normanni e il loro sovrano Ruggero II, il regno durò 730 anni e i suoi confini rimasero in pratica invariati comprendendo comuni che avevano spesso origine greca[1]: “Correva l’anno 1072 quando Roberto e Ruggero d’Altavilla irrompevano nella città di Palermo ponendo fine al dominio arabo in Sicilia e avviando un processo che avrebbe portato l’isola a divenire il regno più ricco dell’Occidente cristiano. I Normanni, oltre ad esaltare al massimo le potenzialità economiche e culturali della Sicilia riuscirono a dimostrare, in un tempo in cui l’intolleranza era la regola, come fosse possibile la convivenza con civiltà diverse … per oltre un secolo la Sicilia fu un riferimento cui gli altri sovrani guardarono con grande rispetto e che la Chiesa cercò di blandire fino a insignire, nel 1130, il gran conte Ruggero II della ambita dignità regia. La corte del primo re di Sicilia divenne la più brillante dell’Europa medievale” [2].




Scrive Benedetto Croce: “L’unità territoriale non fu il solo retaggio che i principi normanni lasciarono all’Italia meridionale, perchè con essa le trasmisero l’unità monarchica, nel senso di uno stato governato dal centro, con eguali istituzioni e leggi, magistrati e funzionari; e questa forma vi serbò sempree, nonchè mutarla nel fatto, non se ne concepirà altra nemmeno in idea”[3] Le dinastie che si susseguirono ebbero origini straniere e questo avvenne per l'oggettiva incapacità di generarne una propria ma occorre rilevare che i loro sovrani divennero in breve dei Meridionali a tutti gli effetti, assumendone la lingua e le usanze perché Il Regno del Sud “era diventato nei secoli, indipendentemente da chi lo governava, un vitalissimo organismo geopolitico. Sotto l’avvicendarsi dei padroni di turno, il Sud disponeva ormai di una autonomia sostanziale, di una identità forte, fatta di popolazioni amalgamate, di un’economia agricola e marinara, di un vernacolo che era una lingua mediterranea, di tradizioni e costumi in cui erano rcnonoscibili elementi arabi e greci assunti e digeriti in un contesto prevalentemente latino-cristiano, di un ambiente climatico e antropico tipicamente mediterraneo. Di una concezione di vita. Per non dire di alcune tipicità bioantropologiche (tratti fisionomici…gruppo sanguigno prevalente)”[4].



Ai Normanni (1130-1194), seguirono gli Svevi (1194-1266), gli Angioini (1266-1442) e gli Aragona (1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli (1503-1707) e poi gli austriaci per solo ventisette anni (1707-1734); i più importanti sovrani delle varie casate furono considerati ai vertici assoluti dell’aristocrazia europea: ricordiamo per tutti Federico II di Svevia, detto “Stupor Mundi”, artefice di ordinamenti statali e riforme che lo fanno considerare uno dei piu’ grandi statisti di tutti i tempi. Nel 1734 la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo e iniziò l’era borbonica con i suoi re: Carlo (1734-1759), Ferdinando I (1759-1825), Francesco I (1825-1830), Ferdinando II (1830-1859) e Francesco II (1859-1861).



Carlo, figlio di Filippo V, re di Spagna e di Elisabetta Farnese, entrò in Napoli il 10 maggio 1734, sconfisse il 25 maggio gli Austriaci nella battaglia di Bitonto[5] e mise la Nazione sotto uno scettro “che unisce ai gigli d’oro della Casa di Francia ed ai sei d’azzurro di Casa Farnese le armi tradizionali delle Due Sicilie: il cavallo sfrenato, vecchia assise di Napoli e la Trinacria per la Sicilia”[6]; l’incoronazione di Carlo si celebrò, l’anno successivo, nel duomo normanno di Palermo, a testimoniare la continuità della monarchia meridionale nata nello stesso luogo nella notte di Natale del 1130 con Ruggero II. Nella successiva guerra contro l’Austria, del 1744, Carlo fu vittorioso a Velletri, e si confermò nuovo interprete e simbolo della secolare Nazione: il Sud d’Italia non aveva più a capo un semplice vicerè ma un sovrano tutto suo: “Amico, cominciamo anche noi ad avere una patria, e ad intendere quanto vantaggio sia per una nazione avere un proprio principe. Interessianci [interessiamoci] all’onore della nazione. I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare se avessimo miglior teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per destarne”[7]; successivamente, con la Prammatica del 6 ottobre 1759, re Carlo stabilì la definitiva separazione tra la corona spagnola e quella delle Due Sicilie.[8] restituendole la piena indipendenza.



La dinastia borbonica durò 126 anni, con essa il Sud, non solo riaffermò la propria indipendenza, ma ebbe un indiscutibile progresso nel campo economico, culturale, istituzionale; purtroppo “La storiografia ufficiale continua ancora oggi a sostenere che, al momento dell’unificazione della penisola, fosse profondo il divario tra il Mezzogiorno d’Italia e il resto dell’Italia: Sud agricolo ed arretrato, Nord industriale ed avanzato. Questa tesi è insostenibile a fronte di documenti inoppugnabili che dimostrano il contrario ma gli studi in proposito, già pubblicati all’inizio del 1900 e poi proseguiti fino ai giorni nostri, sono considerati, dai difensori della storiografia ufficiale: faziosi, filoborbonici, antiliberali e quindi non attendibili “[9]. In realtà, all’epoca dell’ultimo re meridionale, Francesco II, l’emigrazione era sconosciuta, le tasse molto basse, come pure il costo della vita, il tesoro era floridissimo, l’economia in crescita, la percentuale dei poveri era pari al 1.34% (come si ricava dal censimento ufficiale del 1861) in linea con quella degli altri stati preunitari. La popolazione dai tempi del primo re della dinastia borbonica Carlo III (1734) a quelli di Francesco II si era triplicata e questo indicatore, a quei tempi, era un indice di aumentato benessere (è chiaro che si parla di livelli di vita relativi a quei tempi quando il reddito pro capite in Italia era meno di un quarantesimo di quello di oggi e molte delle comodità attuali erano inesistenti), la parte attiva era poco meno del 48%.


Contrariamente a quanto affermato dalla storiografia ufficiale, la politica dei sovrani borbonici fu improntata a diversificare le attività produttive del Sud favorendo lo sviluppo dell’artigianato, del commercio e della prima industrializzazione degli stati preunitari italiani, superando, in questo modo, i confini di un’economia basata quasi esclusivamente sull’agricoltura, che, in realtà, rappresentava l’attività prevalente anche nel resto d’Italia e di gran parte d’Europa. All’inizio, fu necessario, per permettere alle giovani fabbriche meridionali di raggiungere un livello competitivo, un sistema di protezioni doganali, analogo a quello esistente in altri Stati[10]; il “protezionismo” fu poi gradualmente mitigato dal 1846, l’obiettivo, in quel momento, era di inserire l’industria, ormai matura, nel meccanismo del commercio europeo: si abbassarono i dazi d’importazione, che precedentemente potevano arrivare anche al 20%, si strinsero numerosi trattati commerciali compresa la lontana India dove, dal 1852, era attivo un console delle Due Sicilie e dove arrivò, primo tra gli italiani, un bastimento meridionale.[11]

La critica liberista, con in prima fila economisti meridionali come Villari e Scialoja, già esuli per motivi politici, ha bollato la politica economica dei sovrani meridionali, definendola un “fallimento autarchico”, figlia del loro “paternalismo” e del “protezionismo” (le industrie meridionali, ad esempio, sono state chiamate “baracconi di regime”) ma questa bocciatura appare in gran parte ideologica e strumentale agli interessi della monarchia sabauda e dei suoi sostenitori, ai quali venivano forniti argomenti per calunniare i sovrani meridionali da loro spodestati; al contempo, era anche utilissima agli stessi economisti ai quali venivano assegnate le cattedre universitarie solo se erano “allineati” a questa impostazione critica.

È vero che il principio su cui era basata l’economia borbonica era quello di uno sviluppo guidato e sostenuto dallo Stato che salvaguardasse gli interessi dei ceti popolari e l’autosufficienza del Mezzogiorno in tutti i settori, ma è altrettanto vero che ci si deve pur chiedere dove finissero i prodotti delle fabbriche meridionali che erano ai vertici delle industrie italiane (come vedremo in seguito) e che avevano una produzione di manufatti chiaramente superiore alla capacità di assorbimento del mercato interno meridionale, come pure a cosa servisse la poderosa flotta mercantile del Sud, che era la quarta del mondo come tonnellaggio, la cui bandiera garriva in tutti i porti (per esempio, in Francia, era seconda, come presenza, solo a quella inglese).

È vero che i dazi sull’esportazione dei prodotti alimentari non erano certo di impostazione liberista, ma essi facevano parte di una politica economica statale che permetteva di vendere i generi di prima necessità ad un prezzo bassissimo, oggi si direbbe “politico”, soddisfacendo in questo modo le esigenze alimentari della popolazione; tutte le fonti, anche le più accese antiborboniche, concordano unanimemente nel confermare che nel meridione d’Italia si viveva con pochissimo; questo, però, non soddisfaceva gli interessi dei proprietari terrieri che divennero, anche per questi motivi, i più acerrimi nemici della Monarchia meridionale e interessati fautori dell’unità d’Italia.

Del resto dobbiamo anche riflettere sul fatto che un sistema economico meridionale che si dipinge, dai critici, come puramente “assistenziale” e che avrebbe dato un’occupazione improduttiva pur di dar lavoro a tutti, si poteva reggere in piedi (ma solo per un breve periodo) ricorrendo ad un prelievo fiscale spietato, che ben sappiamo non sussistere nelle Due Sicilie dove anzi era molto leggero, oppure aumentando il debito pubblico a livelli catastrofici, cosa anche questa non vera tanto che il corso borsistico dei titoli pubblici del Sud d’Italia era elevato su tutte le piazze europee (fino a quota 120) e le sue finanze più che floride erano floridissime (come vedremo in dettaglio nei prossimi capitoli); i conti quindi non tornano a chi vuole conoscere i fatti depurati dai pregiudizi.

Aggiungiamo, infine, che a uno stato come il Piemonte, che era sull’orlo del collasso economico, sarebbe stato fatale appropriarsi di una nazione che la critica antimeridionale vuole per forza dipingere come economicamente a terra e sarebbe stato stupido, e stupido certo non lo era, il banchiere Rothschild, che teneva in pugno lo stato sabaudo grazie ai suoi prestiti e che aveva quindi tutto l’interesse che fosse solvibile, non “avvertire” Cavour della non convenienza dell’operazione; in realtà, per i motivi suddetti, il Sud era un frutto golosissimo che avrebbe risolto tutti i problemi finanziari della nazione subalpina.


In conclusione possiamo dire che l’economia meridionale non era né completamente liberista né completamente autarchica a guida statale, era una via di mezzo e, proprio per questo, scontentava i sostenitori più accesi delle due “fazioni”: i liberisti a tutto tondo affermavano che “una politica economica che pretendeva di produrre tutto e di trovare all’interno i consumatori di tutto, non poteva che fallire ed un progresso industriale ottenuto a forza di dazi non poteva che essere rachitico”[12]; di contro, i sostenitori della politica economica a guida statale, affermavano che le Due Sicilie, essendo un piccolo stato, non erano e non potevano diventare l’Inghilterra o la Francia e che quindi era più logico sviluppare il più possibile una “economia protetta” dai dazi di importazione e di esportazione, la quale mirasse solo alla soddisfazione dell’occupazione e dei consumi interni rendendo la vita dei suoi abitanti facile e a buon mercato.


È, però, vero che i re Borbone avevano una radicata diffidenza per il “capitalismo puro” delle altre nazioni industriali, in parte per motivi nazionalistici, in parte per motivi ideali, con una sostanziale ripulsa di orari di lavoro disumani, come pure dello sfruttamento, molto diffuso, dei bambini, questo non ci sembra disdicevole. ”In molte industrie lombarde non veniva osservata la legge sull’istruzione obbligatoria e due quinti degli operai dell’industria cotoniera lombarda erano fanciulli sotto i dodici anni, per la maggior parte bambine, che lavoravano dodici e persino sedici ore al giorno”[13]. Scrive lo storico inglese Trevelyan, nella Storia dell’Inghilterra nel secolo XIX: “Ancora nel 1842 la Commissione reale delle miniere, che per prima gettò luce sulle condizioni di lavoro nell’Inghilterra sotterranea ebbe questi dati [dai minatori]: … “porto una cintura e una catena che mi passa tra le gambe e devo camminare a quattro zampe. L’acqua mi arriva in cima gli stivaloni; me la sono vista anche sino alle cosce. Dalla fatica del tirare sono tutta scorticata. La cintura e la catena ci fanno soffrire di più di quando siamo incinte”. Venne scoperto anche che bambini sotto i cinque anni lavorano al buio”[14]; contemporaneamente in Irlanda (non ancora indipendente) si moriva di fame tanto che le migliaia di famiglie emigrarono in America portandosi appresso un odio inestinguibile verso l’Inghilterra.

Non possiamo ignorare, in questa disputa “liberismo assoluto” - “liberismo calmierato”, che anche a livello del pensiero accademico le opinioni furono a lungo discordi (il Sud vantava una scuola di primissimo ordine, tanto che proprio a Napoli nacque nel 1754 la Prima cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio Genovesi) e solo verso il 1850 prevalse la corrente di pensiero che appoggiava il liberismo puro fautore della libera iniziativa privata, della caduta di ogni barriera doganale protezionistica e del divieto da parte dello Stato di intervenire, come parte dirigente, nello sviluppo economico. Non sappiamo chi avesse ragione nel contesto socioeconomico dell’epoca ma, comunque sia, in Europa, le Due Sicilie si comportavano dignitosamente con un incremento annuo del PIL di circa l’1%, a distanza, logicamente, da superpotenze mondiali come Francia e Inghilterra che veleggiavano sul 2,3%[15]; ma, nel Mezzogiorno, pur non essendo ricchi, non si moriva di fame e, come già detto, l’emigrazione non esisteva.

Re Ferdinando II incentivò l’opera dell’Istituto d’Incoraggiamento, che era inizialmente alle dipendenze del Ministero dell’Interno e poi, nel 1847, del neonato Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio; questa istituzione centrale coordinava l’attività delle varie società economiche che erano nate già nel 1810, sotto la dominazione francese, e che furono potenziate dal Borbone, estendendo il loro campo di azione dalla sola agricoltura all’industria, al commercio ed all’artigianato. Il compito di queste società era non solo quello di fornire ai funzionari statali provinciali (gli intendenti) informazioni e analisi statistiche sulle attività produttive, ma soprattutto quello di diffondere “l’istruzione tecnica specifica” agli addetti dei vari settori economici, con lo scopo di ottimizzare il loro lavoro. Negli altri stati italiani ed europei esistevano analoghe associazioni ma, di solito, erano private, mentre nelle Due Sicilie erano strumento del governo centrale, pur se negli anni si guadagnarono una certa autonomia. Furono, inoltre, creati incentivi economici anche per industriali stranieri che impiantassero le loro attività nelle Due Sicilie così imprenditori svizzeri, francesi, inglesi, accorsero nel regno, si organizzavano periodicamente fiere ed esposizioni locali e nazionali (a Napoli) dove i vari produttori potevano esporre i loro manufatti e ricavarne riconoscimenti e premi.

Così, grazie alla guida di re Ferdinando II, già nel 1843 gli operai e gli artigiani raggiunsero il 5% dell’intera popolazione occupata per poi raggiungere il 7 % alla vigilia dell’unità, con punte dell’ 11% in Campania (che era la regione più industrializzata d’Italia), queste percentuali erano in linea con quelle degli altri stati italiani preunitari. Complessivamente, per quanto riguarda la parte continentale del Regno, nel 1860 vi erano quasi 5000 fabbriche e dal censimento ufficiale del 1861 si deduce che, al momento dell’unità, le Due Sicilie, pur avendo il 36.7% della popolazione totale italiana, davano impiego nell’industria ad una forza-lavoro pari al 51% di quella complessiva degli stati italiani[16] grazie alla cantieristica navale, all’industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria e alimentare. Dalla stessa fonte, inoltre, si ricava che il Sud, che contava 36.7% della popolazione italiana, aveva il 56,3% dei braccianti agricoli e il 55,8% degli operai agricoli specializzati, in tutto circa 2milioni 600mila unità. Il ceto operaio meridionale fu, inoltre, il primo in Italia ad inscenare manifestazioni di protesta per reclamare aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro[17]; era il datore di lavoro, infatti, a fissare il salario e l’orario, eppure in occasione del Congresso degli Scienziati, tenutosi a Napoli nel 1845, si affermò che essendo nel Regno delle Due Sicilie “più facile e meno caro il vitto, non è il caso di apportare variazioni salariali”[18].

La bilancia commerciale del Regno delle Due Sicilie era in attivo negli scambi con gli altri stati preunitari italiani, eccettuata la Toscana; con le potenze europee era in passivo, eccetto con l’Austria, ma se paragoniamo i dati del 1838 con quelli del 1855 si notano dei segni di ripresa a confermare una progressiva espansione economica[19], “nel 1858 il valore delle esportazioni delle Due Sicilie per gli Stati Uniti raggiunse 1.737.328 ducati, quello delle importazioni ducati 566.243….tra il 1839 e il 1855 la flotta mercantile aveva esportato fuori dal Regno merci per circa 89 milioni di ducati[20]. Le Due Sicilie smerciavano i prodotti meridionali (agricoli e manifatturieri) per 85% del totale verso Inghilterra, Francia e Austria, paesi che erano in grado di acquistarli, cosa che non potevano fare gli altri stati italiani[21] a causa della loro scarsa ricchezza; nei confronti del regno di Sardegna il Sud aveva un saldo molto attivo[22]. Negli ultimi anni di indipendenza del regno si cominciò a volgere lo sguardo anche verso i paesi del Mediterraneo, di cui le Due Sicilie ambivano essere la nazione guida nello sviluppo economico.

Tenendo presenti questi fatti possiamo concludere affermando che “La rappresentazione del Mezzogiorno come un blocco unitario di arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico ma ha genesi e natura ideologiche. I primi a diffondere giudizi falsi sugli inferiori coefficienti di civiltà su quell’area sono gli esuli napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della Dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud”[23]. Dopo la caduta del regno del Sud al coro di lagnanze degli esuli rientrati in Patria si aggiunsero anche quelle degli uomini che avevano servito i Borbone e, come faceva rilevare Francesco Saverio Nitti ai primi del 1900: “Una delle letture più interessanti è quella dell’Almanacco Reale dei Borboni e degli organici delle grandi amministrazioni borboniche. Figurano quasi tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le istituzioni nostre [del regno d’Italia] o figurano, tra i beneficiati, i loro padri , i loro figli, i loro fratelli, le loro famiglie“[24].

Purtroppo, grazie all’opera di denigrazione sistematica del Meridione preunitario, “La memoria dei vinti è stata sottoposta ad un’incredibile umiliazione … più grave è stato il taglio del filo genetico per cui c’è un pezzo d’Italia che ha dovuto vergognarsi del proprio passato, e poi ci si lamenta che manca la dignità, ma la dignità proviene dal riconoscimento della propria ascendenza … bisogna prima di tutto ridare al Mezzogiorno il senso della sua precedente grandiosità, riscattare questa presunta inferiorità etnica del Sud da operazioni di tentata cancellazione della sua memoria. Ricordo che Rosario Romeo scrisse nella sua storia su Cavour un elogio a Ferdinando II, confrontandolo con il vincitore Vittorio Emanuele II, con grande scandalo dei risorgimentalisti che consideravano ciò intollerabile”[25]

In realtà la “Questione meridionale”, tutt’oggi irrisolta, nacque dopo e non prima dell’unità; persino un ufficiale piemontese, il conte Alessandro Bianco di Saint-Joroz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale, scrisse nel 1864 che “Il 1860 trovò questo popolo del 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto. La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia. Adesso veruna cattedra scientifica … Nobili e plebei, ricchi e poveri, qui tutti aspirano, meno qualche onorevole eccezione, ad una prossima restaurazione borbonica” [26].


Giuseppe Ressa
 fonte: http://www.ilportaledelsud.org/mr01.htm



1] 1739 comuni nel Mezzogiorno continentale e 361 in Sicilia




[2] Pasquale Hamel su FMR n. 162, pag. 88, febbraio-marzo 2004.



[3] Riportato da Giuseppe Campolieti “Breve storia del Sud”, Mondandori, 2006, pag. 155



[4] ibidem pag. 156



[5] a ricordo dell’evento fu innalzato un obelisco, tuttora esistente.



[6] A. Insogna, Francesco II Re di Napoli, Napoli 1898



[7] A.Genovesi, Lettera a Giuseppe De Sanctis, 3 agosto 1754



[8] “che l’ordine di successione da me prescritto non mai possa portare l’unione della Monarchia di Spagna, colla Sovranità, e [dei] Dominj Italiani”.



[9] Ricordiamo, oltre a Pedio, autore di questa affermazione (da “Economia e società meridionale a metà dell’Ottocento” , Capone Editore, 1999, modif.), alcuni nomi degli storici controcorrente: Rispoli, Nitti, Salvemini, Coniglio, Bianchini, Luzzato, Lepre, Villani, Demarco, Petrocchi, Mangone, Vocino, Capecelatro e Carlo.



[10] provvedimenti legislativi del ministro Medici datati 15 dicembre 1823 e 20 novembre 1824



[11] Gennaro de Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, Grimaldi, 2002, pag. 23



[12] Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione, Rubbettino, 1998, pag. 78



[13] D.Mack Smith, Il Risorgimento italiano, Laterza, 1999, pag. 157



[14] Cesare Bertoletti, Il Risorgimento visto dall’altra sponda, Berisio, 1967, pag. 96



[15] dati ricavati da Nicola Ostuni, Napoli Comune Napoli Capitale, Liguori, 1999, pag.170 e 175



[16] circa 1.600.000 addetti su circa 3.131.000 complessivi



[17] Tommaso Pedio, op. cit., pagg.1-4, modif.



[18] riportato da Tommaso Pedio, op. cit. pag.92



[19] dati relativi alle province continentali del Regno, da T.Pedio, op. cit., pag. 82



[20] Gennaro de Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, Grimaldi, 2002, pag. 23



[21] A. Graziani, Il commercio estero del Regno delle Due Sicilie dal 1832 al 1858, Ilte, Roma , 1965 citato da Alberto Banti in “La nazione del Risorgimento” , Einaudi, 2000, pag.21



[22] per le province continentali del Regno, periodo 1838-1855: importazioni 19.441 ducati; esportazioni 33.541 ducati; riportato da T.Pedio, “Economia e società meridionale a metà dell’Ottocento”, Capone Editore, 1999, pag. 82



[23] Francesco Pappalardo, Civiltà del Sud , Luglio 2003



[24] “Gli scritti sulla questione meridionale“ a cura di A Saitta, Laterza, 1958



[25] Giorgio Rumi, dal periodico “Il sud“, del 22/11/97



[26] “Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, studio storico-politico-statistico-morale-militare”, Daelli, Milano, 1864; riportato da Matteo Liberatore, Del brigantaggio nel Regno di Napoli, in Civiltà Cattolica e citato da Giovanni Turco in “Brigantaggio, legittima difesa del Sud”, Il Giglio editore, 2000, pag. XXXI

Giuseppe Ressa

martedì 7 dicembre 2010

CONTRO L’IDENTITÀ. INTERVISTA ALLO STORICO ABRUZZESE COSTANTINO FELICE

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di Roberto Ciuffini *






Quello degli “Abruzzesi forti e gentili” è un vecchio cliché antropologico-letterario, abbastanza noto a chi conosce un minimo di storia regionale. Dopo il 6 Aprile dell’anno scorso però è diventato uno slogan di cui in molti hanno abusato: politici (nazionali e locali), giornalisti, per non parlare degli stessi cittadini aquilani, i quali, pur avendolo inizialmente più subìto che scelto, hanno finito per accettarlo e abbracciarlo non senza una certa dose di autocompiacimento. Ma “in cosa consiste, se c’è, l’identità di un popolo? […] E in quale misura le semplificazioni idealtipiche corrispondono a gesti e atti concreti?” Sono domande che si pone Costantino Felice, docente di storia all’università “D’Annunzio” di Pescara e Chieti, nel suo ultimo libro: “Le trappole dell’identità. L’Abruzzo, le catastrofi, l’Italia di oggi”, edito da Donzelli.



La molla che ha spinto lo storico (autore di numerosi libri sull’Abruzzo e sul meridione) a scrivere questo saggio è stata l’osservazione delle “trame narrative che [sul terremoto] hanno intessuto il potere politico e l’informazione: una travolgente ondata di retorica su stereotipi e luoghi comuni che non poteva non sorprendere chiunque avesse un minimo di frequentazione con la storia delle catastrofi, oltre che con la particolare storia di questa regione”. Secondo questo “discorso pubblico”, esisterebbe un tipico e immutabile carattere regionale, un’abruzzesità i cui tratti salienti sarebbero la forza, la dignità, il coraggio, la tenacia, la generosità, la naturale laboriosità.



Questa narrazione è stata rafforzata e resa più autorevole dall’uso di citazioni pseudo colte, come quella, ormai celeberrima, del cosiddetto “discorso di Pescasseroli” di Benedetto Croce (“Quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: - Tu non sei napoletano, sei abruzzese!”. Parole sentite ripetere innumerevoli volte. Il discorso di Croce, in realtà, è stato completamente decontestualizzato e quindi travisato. In questo modo si è fatto passare il filosofo per ciò che non era, sia per concezione che per temperamento: filius locis e non, come amava invece definirsi, filius temporis.



Quali sono le ragioni di tutta questa retorica? Qual è lo schema concettuale che la sorregge? Alla base di tutto vi è un sillogismo: sarebbe stata una natura ostile, aspra e inospitale a produrre l’”Abruzzo forte e gentile”. Ma se è legittimo dire che “i quadri ambientali condizionano le forme dell’economia”, poiché “dalla varietà geografica dei luoghi sono conseguiti molteplici assetti nell’organizzazione produttiva e mercantile”, “[…] molto più complicato e controverso si presenta invece il discorso secondo cui i contesti geografici plasmerebbero la comunità come pure i singoli individui, dal lato psichico e caratteriale”.



Nell’invenzione dell’abruzzesità, insomma, un ruolo preponderante l’ha avuto la cultura “alta” (la storiografia, le scienze sociali, per non parlare, come si accennava in apertura, della letteratura: dal pastore dannunziano al cafone siloniano fino ad arrivare all’”Abruzzo gran produttore di silenzio” di Giorgio Manganelli, passando per Piovene e il suo Abruzzo dall’anima irriducibilmente “cantonale”). Sia chiaro: nella produzione e perpetuazione di pittoreschi miti letterari non c’è, di per sé, nulla di scandaloso. È un fenomeno che accade da sempre. I problemi sorgono quando su queste narrazioni vengono edificate e inventate immutabili identità locali, “caratteri” di intere comunità.



Ma le identità e i caratteri collettivi sono costruzioni complesse e soprattutto variabili nello spazio e nel tempo.

Usando gli strumenti e i concetti dell’indagine storica, ma senza negarsi ampi riferimenti interdisciplinari, Costantino Felice sottopone a critica le nozioni stesse di “identità” e “cultura”, per scoprirle e mostrarle anche a noi relative e non assolute, storiche e non dogmatiche, ibride e non pure, aperte e non chiuse.



Professor Felice, quando e per opera di chi nasce il mito dell'Abruzzo "forte e gentile"? E perché esso ha avuto così tanta fortuna?



«Abruzzo forte e gentile» è il titolo di un denso e suggestivo libretto uscito nel 1882, opera di Primo Levi, che nel sottotitolo significativamente recitava «impressioni d’occhio e di cuore». Dietro c’era una lunga tradizione di «miti» identitari la cui genesi letteraria nel libro ricostruisco sia pure per grandi linee (si comincia con Guinizzelli e Boccaccio). Ma si tratta, appunto, di impressioni. Proficuamente se ne sono alimentate la letteratura e l’antropologia. Ben altro dovrebbe fare l’indagine storica. La fortuna di quello slogan probabilmente dipende dal suo contenuto edificante e consolatorio: forse ha funzionato e funziona in termini di marketing. Ma la realtà è ben più complessa e articolata.



E' davvero possibile parlare dell'esistenza di caratteri regionali plasmati dalla natura? Quanto c'è di vero in quest'idea dell'"abruzzesità"?



L’abruzzesità è un «mito», una invenzione mitopoietica che, come tutti i miti (una solida letteratura sociologica e storiografica ne chiarisce ampiamente l’eziologia), risponde a esigenze psicologiche di autoriconoscimento della comunità. I suoi referenti con la realtà sono scarsi o nulli. Farvi ricorso può diventare anzi mistificante. Ha ragione Croce: ciascuno di noi è filius temporis non filius loci. Il resto è chiacchiera.



Nel corso di tutti questi anni si sono affermati due miti in parte contrastanti: quello degli abruzzesi che sarebbero, tutti e indistintamente, "forti e gentili" e quello di un Abruzzo che, a causa della natura collinare e montuosa del suo territorio, avrebbe maturato invece un carattere irriducibilmente cantonale e campanilistico, in cui le divisioni e finanche le rivalità sono più numerose degli aspetti accomunanti…



Il fatto è che non esiste un’identità predefinita. Le identità si costruiscono attraverso processi storici: sono obiettivi da conseguire. Gli abruzzesi non sono questo o quello: sono ciò che in un determinato contesto mostrano di essere. Le identità ridotte a stereotipi diventano trappole, come recita il titolo del mio libro. E le trappole si possono evitare solo tenendo alto lo spirito critico.



Lei afferma che se proprio dobbiamo indicare un tratto distintivo dell'Abruzzo questo è la "centrifugità". Che cosa intende con questo concetto?



L’Abruzzo non è mai stato una regione chiusa e appartata rispetto al resto del mondo, un«isola», come in tanti hanno ripetuto. Se per definire il profilo della nostra regione occorre per forza rintracciarne qualche tratto distintivo e peculiare, questo lo si può cogliere piuttosto nella «centrifugità»: non tanto nel senso in cui ne parla Piovene («istinto dissociativo», tendenza alla «disgregazione interna»), quanto invece come propensione degli abruzzesi a riversarsi oltre confine, a cercare risorse e occasioni d’impiego in terre diverse da quelle d’origine. Secondo linee d’evoluzione destinate con il tempo ad accentuarsi, l’Abruzzo è andato infatti caratterizzandosi – soprattutto nell’interno montano, ma in certa misura anche sul versante marittimo – per un intenso irraggiamento verso altri mondi, ora vicini (transumanza e migrazioni periodiche) ora lontani (grandi esodi dell’età giolittiana e del secondo dopoguerra). Le «spinte centrifughe» – l’opposto cioè della chiusura e dell’isolamento – hanno lasciato segni profondi su qualità e cadenze di vita, oltre che, specificamente, sulle forme della crescita economica.



Un altro luogo comune che nel suo libro contrasta con determinazione è quello secondo cui l'Abruzzo sarebbe ancora, nel profondo, una regione dall'anima agropastorale e arcaica. La nostra regione ha conosciuto, al contrario, uno sviluppo e un dinamismo economico- industriale e processi di modernizzazione indiscutibili…



Gli stereotipi letterari del «pastore» dannunziano e del «cafone» siloniano, stilizzazioni idealtipiche che hanno antichissime ascendenze, rimandano a un universo agropastorale arcaico e immobile. Ben diversa è la realtà storica. La dura geografia dell’Appennino nel passato imponeva, a causa delle sue ridotte suscettività agricole, un’assidua ricerca di fonti alternative (o integrative) di sostentamento. Di qui il modularsi di molteplici strategie produttive: pastorizia transumante e stanziale, migrazioni periodiche, pluriattività rurale, e soprattutto iniziative protoindustriali. Sulle montagne abruzzesi, oltre che sul versante litoraneo, ha potuto in tal modo germinare e consolidarsi una varietà di economie che per secoli, pur tra alterne congiunture, sono riuscite a tenere saldamente in equilibrio i delicati rapporti tra uomo e ambiente. L’Abruzzo come oggi si presenta ai nostri occhi non è soltanto il risultato di fenomeni recenti. In realtà il «miracolo» del secondo Novecento affonda alcune sue radici in processi di lunga durata. L’Abruzzo storico che emerge dalle indagini più approfondite è molto diverso da quello agropastorale di derivazione antropologica e letteraria: un Abruzzo permeato anche da cultura industrialista, da spirito d’impresa e volontà di riscatto, secondo moderne logiche di profitto capitalistico. Non c’è solo l’Abruzzo degli etnologi, dei letterati e degli umanisti. C’è anche un Abruzzo – ai fini dello sviluppo moderno sicuramente più decisivo – dei tecnici, degli scienziati, degli imprenditori. È a questo Abruzzo operoso e innovativo, attento a valorizzare risorse ed energie locali (acque dei fiumi e legna dei boschi nei tempi passati, qualità del paesaggio, minerali e gas del sottosuolo nei tempi odierni), sempre pronto a cogliere le opportunità di mercato in ambito nazionale e internazionale (si pensi all’età giolittiana), che in buona parte si deve ciò che la regione è attualmente.



Nei processi di costruzione dell'identità un ruolo fondamentale è svolto dalle strategie narrative messe in atto dal Potere e dalle élite culturali. Queste narrazioni non si limitano ad essere delle riproduzioni ma sono manipolazioni a tutti gli effetti, quando non delle invenzioni tout court.

Il fatto, però, che ogni identità collettiva risulti più una costruzione sociale indotta dal Potere che non un dato originario non la rende meno efficace e meno reale. E' così?



Il discorso pubblico costruito sul terremoto aquilano ci ha mostrato – e continua ancora a mostrarci – le derive della postmodernità cui stanno andando incontro la cultura e la politica. Quale efficacia abbiano queste identità manipolatorie non saprei dire. Di certo impediscono di vedere la realtà per ciò che è. Di conseguenza anche le prospettive future diventano incerte e preoccupanti.



Si può dire, secondo lei, che gli abitanti dei comuni colpiti dal terremoto, a furia di sentirsi etichettare come "forti e gentili", hanno finito per conformarsi a una rappresentazione che, facendone in sostanza delle persone rassegnatamente bonarie, ha contribuito a renderli succubi e passivi di fronte a tutta una serie di decisioni politiche, anche autoritarie, e di speculazioni economiche?



Sono d’accordo. L’insistenza su stereotipi rassicuranti e consolatori possono indurre alla passività e al conformismo (una sorta di ipnosi collettiva). È ciò che è accaduto per un certo periodo con il terremoto aquilano. Ultimamente pare che cominci ad esserci qualche risveglio (manifestazioni della carriole ecc.).



Come giudica, nel metodo e nel merito, ciò che il governo ha fatto per L'Aquila e per gli altri paesi distrutti dal terremoto (piano C.A.S.E. ecc.)?



Preferisco non entrare esplicitamente in questioni politiche. Dico soltanto che il terremoto aquilano ha mostrato plasticamente, su scala globale, forse come mai era accaduto in precedenza, quanto la politica fosse oggi ridotta a spot pubblicitario: politica-pop e politica-territorio, come dicono gli osservatori più attenti.



Verso la fine del suo libro lei ricorda il cosiddetto "mito della grande Aquila", un progetto, ideato da Adelchi Serena durante il fascismo, che avrebbe dovuto fare dell'Aquila, attraverso una serie di trasformazioni urbanistiche e imponenti opere pubbliche, il fulcro dell'intera regione, dopo decenni di declino e di umiliazioni e usurpazioni subite dal governo centrale (un progetto peraltro velleitario, dato che le condizioni economiche e sociali dell'Aquilano erano, all'epoca, molto arretrate).

E' esagerato dire che, dopo il terremoto, sia stata usata spesso, da parte della classe politica (sia nazionale che locale), un'eguale e altrettanto velleitaria (vista la situazione di emergenza e crisi economica e sociale) "retorica del riscatto"? Mi riferisco, per esempio, alla scelta di ambientare a L'Aquila un evento imponente come il G8 quando le persone erano ancora sofferenti nelle tende o a tutti i roboanti annunci a sentire i quali L'Aquila diventerà una specie di laboratorio di città futuribile e all'avanguardia in ogni campo...Anche qui i toni pomposamente usati stridono con la realtà dei fatti (che è quella, invece, di una città con 16 mila persone cassintegrate e per giunta ancora sommersa dalle macerie...)



Sono d’accordo con lei. Nella trama narrativo (discorso pubblico) che il potere e l’informazione hanno ordito, e continuano a ordire, sul terremoto dell’Aquila a farla da padrone pressoché assoluto è la retorica: tutto è ridotto a teatralità e spettacolo. Anche il fascismo, come si sa, era pomposità, retorica, ostentazione muscolare (spesso ridicola!) di forza e coraggio, sguaiata esibizione di primati, dietro i quali spesso non c’era proprio nulla. E si sa anche come poi è finita.



Nel suo libro Lei scrive: "E' difficile trovare una regione altrettanto ricca di tipizzazioni che pretendono di riassumerne più o meno compiutamente l'identità", aggiungendo subito dopo: " Forse in questo l'Abruzzo è specchio dell'Italia intera (sicuramente del Mezzogiorno)".

Secondo lei, perché l'Italia, e il Sud in particolare, continuano ad essere prigionieri di miti e stereotipi identitari? In questo siamo meno "moderni" di altre nazioni, europee ed occidentali, oppure è un fenomeno generalizzato?



L’Abruzzo, per l’asprezza e la maestosità stessa dei suoi ambienti geografici, è sempre stato una regione particolarmente fertile di miti identitari, i quali sono maturati soprattutto sul terreno dell’antropologia e della letteratura (mentre tutt’altro dovrebbe fare la storia). Questo vale ovviamente anche per l’Italia nel suo insieme. Si pensi allo stereotipo degli «italiani brava gente», o anche a quello degli italiani «popolo di santi, navigatori e poeti». E ancora più insistite e falsificanti sono le etichette che si continuano ad affibbiare ai meridionali: familismo, pigrizia mentale, scarsa propensione all’intrapresa, fino ai rivoltanti giudizi d’impronta razzista. Occorre uscire dai queste gabbie ideologiche che possono portare a forme di barbarie. Insistere sulle presunte identità (come se ci fossero le razze: gli italiani, i meridionali, i cinesi, i musulmani e via seguitando) rischia di far scivolare le società (o anche le singole comunità) – come tante volte è accaduto nella storia – in logiche di contrapposizione e di esclusione, fino ai conflitti sanguinari. Nel caso della nostra regione bisognerebbe fare in modo – nei comportamenti quotidiani come nelle grandi scelte – che ci siano il meno possibile gli «Abruzzi», al plurale, e invece il più possibile l’«Abruzzo», al singolare.


fonte: roberto.ciuffini@gmail.com – Il Capoluogo.it

domenica 5 dicembre 2010

Legati all' Abruzzo: FRATELLANZA DELLO SCORPIONE

Legati all' Abruzzo: FRATELLANZA DELLO SCORPIONE

FRATELLANZA DELLO SCORPIONE

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Il nome dell’associazione trae le sue origini da quello della nobile famiglia Scorpione, trasferitasi a Penne dalla lontana Milano tra il XIII e il XIV secolo, e divenuta -nei secoli successivi- una delle colonne portanti del regno di Margherita d’Austria.



Il nostro vessillo è formato da un scorpione nero su campo azzurro, con l’aggiunta delle code di rondine che si riferiscono alla Croce di San Giovanni, un chiaro riferimento all’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme.
                                                          
Queste code hanno otto punte, come la Croce di San Giovanni, che simboleggiano le otto Beatitudini Teologali descritte nel “Discorso della Montagna” riportato nei Vangeli (lealtà, pietà, franchezza, coraggio, gloria e onore, disprezzo per la morte, solidarietà verso i poveri e i malati, rispetto per la Chiesa), l’eternità, le otto nazionalità di provenienza dei Cavalieri Ospitalieri e le virtù della Cavalleria (spiritualità, semplicità, umiltà, compassione, giustizia, misericordia, sincerità, sopportazione).

Il nostro gruppo ha adottato, come periodo storico di riferimento rievocativo, l’arco temporale compreso tra il 1250 e il 1280.

A proposito di storia: Penne nel XIII secolo venne dichiarata Città Regia da Carlo II d’Angiò, lo stesso sovrano che fondò nella città la Chiesa di S. Domenico, dove si conserva la Reliquia del Capo di S. Biagio; il 10 Maggio 1291 Berardo Trasmondo fondò in città il Convento Gerosolimitano di S. Maria di Borgo Novo, che diede il via alla diffusione ospitaliera in Abruzzo; tra i fautori della propagazione dell’Ordine, non ultime erano le Cavalleresse Gerosolimitane dell’Ospedale di San Giovanni, in seguito conosciute come Dame di Malta; il Convento venne in seguito raso al suolo e spostato all’interno delle mura, nella chiesa

-appunto- di San Giovanni Battista.

Sempre in quegli anni, presso il Palazzo Vescovile della città, venne processato il templare “frater Ceccus Nicolai Ragonis de Lanzano, serviens Ordinis Militiae Templi; gli Inquisitori erano Pandolfo Savelli, protonotario del Papa, e Giacomo, Vescovo di Sutri. Non si hanno notizie né dell’assoluzione né della condanna.

Successivamente Penne divenne sede del Giustiziere d’Abruzzo Ulteriore, il cui palazzo è ancora visibile in Corso dei Vestini, di fronte alla sede della nostra associazione; la città, inoltre, nel 1325 diede i natali al noto giurista e giudice della Magna Curia Luca da Penne.

Nel 1338 il potere ecclesiastico, fino ad allora predominante, subì un duro colpo con l’arrivo del Capitano Regio Pietro de’ Piru, medico e poi presule della città, che si insediò con una solenne cerimonia nel Palazzo a lui destinato, la cui memoria si conserva in due tavole di pietra serena inserite nello stesso edificio posto in via Roma.

Le testimonianze di un passato così illustre sono tuttora perfettamente visibili e riconoscibili presso molti edifici ottimamente conservati, quali il Palazzo Scorpione, il Palazzo Castiglione, la Collegiata di San Giovanni Evangelista, il Palazzo de’ Dura, il Chiostro di San Domenico, la Chiesa di San Giovanni Battista, il Palazzo del Capitano Regio, il Palazzo del Giustiziere, la Chiesa di San Panfilo, la Chiesa di Santa Chiara, la Chiesa di Sant’Agostino, la Cattedrale di San Massimo, l’antichissimo complesso di Santa Maria dell’Assunta in Colleromano, e un lungo elenco di rinomati Palazzi signorili di casati della nobiltà locale.

Purtroppo molti di questi edifici storici sono stati danneggiati, alcuni in modo tale da renderli inagibili, dal tremendo sisma del 2009.

fonte: http://www.fratellanzadelloscorpione.it/la-storia.html