venerdì 25 novembre 2011

Istituto Nazionale Tostiano






L'Istituto Nazionale Tostiano costituito ad Ortona (Chieti - Italia) nel 1983 con deliberazione del Consiglio Comunale, è una istituzione di impegno musicologico che si occupa statutariamente della vita e delle opere del compositore Francesco Paolo Tosti, degli altri musicisti abruzzesi e più in generale della musica vocale da camera e di altri settori della cultura musicale. Tale lavoro viene svolto attraverso il collegamento con istituzioni di cultura, editoria ed organizzazione musicale di rilevanza internazionale e con un'intensa attività musicale editoriale e discografica, l'attivazione di corsi di perfezionamento internazionali e l'organizzazione di mostre, seminari e convegni e di concorsi in Italia e all'estero.

Negli anni, si sono esibiti per l'Istituto, tra gli altri, grandi cantanti come Renato Bruson e Raina Kabaivanska, giovani esordienti, ora divenuti artisti di fama, come Monica Bacelli, Ildebrando D`Arcangelo, Donata D’Annunzio Lombardi, Amelia Felle, Umberto Chiummo; importanti pianisti quali Leone Magiera, Robert Kettelson, Roberto Negri, Roberto Cognazzo: celebri interpreti della canzone italiana e napoletana come Gino Latilla, Aurelio Fierro, Nunzio Gallo, Maria Nazionale; attori del calibro di Elio Pandolfi, oltre alle più rappresentative forze musicali dell'Abruzzo contemporaneo: da I Solisti Aquilani all'Orchestra Sinfonica Abruzzese, all’orchestra del “progetto Palcoscenico” (finanziato dalla Comunità Europea), a decine di musicisti e cantanti della regione.
Sul versante della musicologia (seminari, corsi, convegni) le attività dell'Istituto hanno ospitato i maggiori musicologi e critici musicali italiani. Fra i tanti: Michelangelo Zurletti (La Repubblica), Riccardo Allorto (BMG-Ricordi), Raoul Meloncelli (Università “La Sapienza” di Roma), Roman Vlad, (già Direttore Artistico Teatro alla Scala), Giampiero Tintori (già Direttore Museo Teatrale alla Scala), Julian Budden, Iacopo Pellegrini (Rai 3), Quirino Principe (Il Sole 24 Ore), Cesare Orselli (Conservatorio di Firenze), Piero Mioli (Conservatorio di Bologna), Adriana Guarnieri Corazzol (Università di Venezia), Guido Barbieri (La Repubblica), Giorgio Gualerzi (La Stampa), Agostina Zecca Laterza (Biblioteca del Conservatorio "G. Verdi" di Milano), Agostino Ziino (Università “Tor Vergata” di Roma), Carlo Marinelli (Università di Bologna) e l’organologo Marco Tiella (Accademia Filarmonica di Bologna).

Nel 1997 l’Istituto, allo scopo di poter contare su un livello esecutivo della massima qualità stilistica, ha creato il “Tosti Ensemble”, una formazione cameristica di organico versatile con cantanti e strumentisti di provata capacità ed esperienza, che ha tenuto numerosi concerti in Italia e all’estero.

Per quello che riguarda le attività di formazione e di specializzazione, l'Istituto, dopo numerose e fruttuose esperienze avviate già dal 1983, ha varato nel 1997 corsi internazionali di interpretazione tostiana e sulla vocalità italiana, che si sono realizzati con allievi stranieri provenienti dalla Royal Academy of Music e dalla Guildhall School of Music & Drama di Londra, e dall’International Music Exchange di Nara in Giappone.

Dal 1996 si svolge ad Ortona, con cadenza quadriennale, il Concorso Internazionale di Canto “F. P. Tosti”, che è collegato ad un’edizione “gemella” a Nara (Giappone), denominata Concorso di Canto “F.P. Tosti in Giappone”. Anche questo concorso si tiene ogni quattro anni (ma un anno prima di quello italiano): si è già tenuto nel 2003 e la prossima edizione panasiatica (cioè allargata a Cina Popolare, Corea del Sud, Taiwan), si svolgerà nell’autunno 2007.

L’Istituto, per la realizzazione delle proprie attività, agisce con il patrocinio e il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Regione Abruzzo, della Provincia di Chieti, del Comune di Ortona, ed è in costante contatto con prestigiose istituzioni italiane e straniere tra cui: Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma; Ambasciata d’Australia in Italia; Ambasciata di Spagna in Italia; Ambasciata d’Italia in Australia; Archivio Storico di Casa Ricordi, Milano; Associazione “Faites de la Musique Mécanique” di Toulose; Biblioteca del Conservatorio “G. Verdi”, Milano; Biblioteca e Museo del Conservatorio “S. Pietro a Majella”, Napoli; “Centre for Aborigenal Studies in Music” (CASM) dell’Università di Adelaide-Australia; “Century Music Foundation”, Taiwan; Centro Scuola e Cultura Italiana, Toronto; “Chapelle Historique du Bon Pasteur”, Montréal; Consolato Italiano di Perth; “Dante Society” del Canada; Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo, Corso di Laurea in Scienze del Turismo; Facoltà di Lettere e di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi “D’Annunzio” di Pescara; Festival Pucciniano di Torre del Lago; International Association of Music Libraries, Archives and Documentation Centres (IAML); International Music Exchange ed NPO “Nara Arts and Culture Association” di Nara, Giappone; I Solisti Aquilani; Istituti Italiani di Cultura di Edimburgo, Londra, Malta, Marsiglia, Melbourne, Montréal, Sydney, Tokio, Kyoto, Toronto; Istituto per lo Sviluppo Musicale nel Mezzogiorno (ISMEZ) di Roma; Ministero della Cultura Dipartimento Scienze ed Arti della Repubblica del Sud Africa; Museo Nazionale del Cinema di Torino; Museo Teatrale alla Scala di Milano; “Palestrina Chamber Chorus” di Toronto; “Regimental Museum of Royal Scots” di Edimburgo; “Royal Academy of Music” di Londra; “Guildhall School of Music & Drama” di Londra; “Royal Conservatory of Music” di Toronto; Soprintendenza Archivistica per l’Abruzzo di Pescara; Teatro Manoel di Malta; Teatro di San Carlo, Napoli; Università di Malta; University of Toronto; Università Nazionale di Taiwan; Università di Pretoria, Sud Africa.

Principali manifestazioni in Italia e all’estero:
1982 F. P. Tosti: immagini. Ortona, Palazzo Farnese (manifestazione di preparazione alla fondazione dell’INT).
1984-1986 F. P. Tosti e il suo tempo. Ortona, Palazzo Farnese.
1988 F.P. Tosti e il suo tempo. Milano, Museo Teatrale alla Scala.
1990 Presentazione Edizione integrale delle romanze di F.P. Tosti, Casa Ricordi. Milano, Museo Teatrale alla Scala.
1992 Presentazione “Edizione integrale discografica di F.P. Tosti. Napoli, Teatro di San Carlo.
1993 Conferenza e concerto romanze di Tosti di ispirazione abruzzese. Bologna, Accademia dei Notturni di Budrio.
1995 Giuseppe De Luca, la nobile voce mostra documentaria dedicata al celebre baritono romano. Milano, Museo Teatrale alla Scala.
1995 Mostre, concerti, seminari, conferenze per Tosti in Canada. Toronto, Canada.
1996 I Concorso Internazionale di Canto F. P. Tosti. Ortona, Teatro Odeon.
1996 Mostre, concerti, seminari, conferenze per Tosti in Canada. Montréal e Ottawa, Canada.
1996 F.P. Tosti: ritorno a Londra, mostre, corsi e concerti. Londra, Gran Bretagna.
1996 Tosti a Malta seminari e concerti. La Valletta, Malta.
1997 Presentazione del volume Il canto di una vita. Francesco Paolo tosti EDT, Torino. Napoli, Teatro di San Carlo.
1997 Giuseppe De Luca, la nobile voce mostra documentaria. Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
1997 Concerti e seminari sulla tradizione natalizia abruzzese. Toronto, Canada.
1998 Presentazione del I Volume sulle Mélodies francesi di Tosti. Rethèl, Champagne, Francia.
1998 Concerti a Melbourne e nello Stato del Victoria in Australia, Mostra al “Melba Museum” di Melbourne.
1998 Concerti, seminari e mostra in collaborazione con l’International Music Exchange di Nara, Giappone.
La collaborazione con questa istituzione (rafforzata dalla recente fondazione della NPO “Nara Arts and Culture Association”) è tuttora attiva con mostre, seminari, corsi di perfezionamento tostiano (realizzati ogni anno in Italia e in Giappone) e concorso di canto tostiano (in Giappone) ogni quattro anni (la prima edizione nel 2003 e la seconda nell’ottobre 2007).
1998 Concerto a Strasburgo, Sede del Parlamento Europeo, Francia.
1999 Concerti, seminari e mostre tostiane a Londra, Edimburgo e Taiwan.
2000 II Concorso Internazionale di Canto F. P. Tosti. Ortona, Teatro Odeon.
2000 Tournée in Australia del Tosti Ensemble: Canberra, Melbourne, Adelaide, Wollongong, Hobart (concerti, seminari, master class).
2002 concerti tostiani a Johannesburg, Sud Africa.
2004 III Concorso Internazionale di Canto F. P. Tosti. Ortona, Auditorium Comunale.
2006 Concerto d’opera italiana e mostra tostiana a Vienne (Francia).
2006 Tournée del Tosti Ensemble in Sud Africa (Johannesburg, Cape Town, Pretoria) e in Australia (Sydney, Perth, Brisbane, Canberra).
2007 Concerto Tostissimo! alla City Concert Hall di Hong Kong.

L’Istituto, in collaborazione con l’ISMEZ di Roma (Istituto Nazionale per lo Sviluppo Musicale nel Mezzogiorno), da oltre venti anni organizza la Mostra Biennale “Liuteria nel Mezzogiorno”. Nel corso delle varie edizioni la Mostra di Liuteria ha saputo rinnovarsi allargando il suo orizzonte di interesse dalla liuteria classica, peraltro sempre presente con strumenti di grande pregio (Stradivari, Guadagnini, Guarneri, Gagliano, ecc.), a tutti i possibili manufatti che, nelle più svariate forme, conducono il legno al suono.

fonte: http://www.istitutonazionaletostiano.org/IT/index.asp?idTestoHome=18

martedì 22 novembre 2011

Eroine di stile - la Moda italiana veste il Risorgimento

Intellettuali, aristocratiche, donne del popolo, regine e religiose, combattenti e garibaldine. Donne di cuore e di cultura, di istinto e di passione. Con un unico sogno. Unitario. Solo donne, artefici di un Risorgimento dimenticato.

Sono le “Eroine di stile”, protagoniste della mostra allestita al Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps, in via di Sant'Apollinare. L’esposizione - dal 22 novembre 2011 al 22 gennaio 2012 - è promossa dalla Provincia di Roma per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica.

La conferenza stampa si terrà martedì 22 novembre, alle ore 10,30, presso il Museo Nazionale Romano. Saranno presenti il Presidente del Comitato per le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unita' d'Italia Giuliano Amato, il Presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, il Vicepresidente della Camera di Commercio di Roma Lorenzo Tagliavanti, il Curatore della mostra Stefano Dominella.

Un percorso tutto al femminile, tra storia e moda. Nomi illustri come quelli di Anita Garibaldi, Cristina di Belgioioso, la contessa di Castiglione, Maria Sofia di Borbone, ultima regina di Napoli. Ma anche personaggi di straordinaria tempra e carattere come Enrichetta Caracciolo, Clotilde di Savoia, le brigantesse Michelina Di Cesare, Filumena Pennacchio, Maria Oliverio.

Un omaggio al loro coraggio, all’ambizione, alla determinazione, firmato da grandi maestri della moda italiana quali Salvatore Ferragamo, Fendi, Max Mara, Roberto Cavalli, Laura Biagiotti, Valentino, Gianfranco Ferré, Armani, Prada, Ermanno Scervino, Emilio Schuberth, Galitzine, Romeo Gigli, Gattinoni, Sarli, Missoni, Prada, Emilio Pucci, Alessandro dell’Acqua, Walter Albini, Biki, Carosa, solo per citarne alcuni.

L’esposizione, promossa dalla Provincia di Roma, nell'ambito del Progetto ABC Arte Bellezza Cultura, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, è a cura di Stefano Dominella.

fonte: http://www.provincia.roma.it/news/eroine-di-stile-la-moda-italiana-veste-il-risorgimento

lunedì 21 novembre 2011

Brigantesse in nome dell'amore e della sofferta unità nazionale



SAGGIO«IL BOSCO NEL CUORE»: LE DONNE CHE HANNO SFIDATO LA LEGGE MORALE
Brigantesse in nome dell'amore e della sofferta unità nazionale
di Marco Patricelli

Né sante né puttane.


emplicemente donne, quando i tempi erano duri per tutti, ma per le donne ancora di più. Trascinate dai vortici della storia, inseguendo un destino a volte subìto a volte scelto: sono le brigantesse, l'altra metà del cielo della faccia oscura dell'unità nazionale, spregiativamente etichettate dai "piemontesi", vessate in vita e nella morte.

Pallidi dagherrotipi della seconda metà dell'800 ci restituiscono figure fiere e ricostruite per accontentare i palati di chi sui giornali cercava facili emozioni; altre fotografie ci mostrano la gallerie degli orrori di capi mozzati e di donne spogliate dopo essere state uccise dai soldati.

Giordano Bruno Guerri, con «Il bosco nel cuore - Lotte e amori delle brigantesse che difesero il sud» (Mondadori, pp. 224, euro 20), aggiunge un capitolo e completa così il quadro aperto lo scorso anno con «Il sangue del Sud». Aveva lasciato di proposito aperto uno spiraglio nella narrazione del brigantaggio e della «saldatura a freddo» dei due lembi dell'Italia, perché riteneva che le figure delle donne andassero raccontate a parte, pur entrando a pieno titolo in una storia fatta più di ombre che di luci, e dove le tinte sono assai poco nette.

Se c'è una riscrittura della storia, essa riguarda l'agiografia che ha addomesticato le coscienze impedendo di fare i conti con il passato: non si doveva parlare male di Garibaldi, Cavour era un padre della patria, Vittorio Emanuele II «il re galantuomo» e per l'ultimo sovrano del Regno delle Due Sicilie bastava quel «Franceschiello» con cui lo chiamava il padre. Uno stato, quello dei gigli borbonici napoletani, annichilito dall'invasione da sud delle camicie rosse e delle promesse garibaldine, e da nord dall'esercito blu dei Savoia.

Italiani contro italiani, che parlavano lingue diverse, non si comprendevano e avrebbero faticato non poco a capirsi nei decenni a seguire.

Non era certamente il regno del bengodi, quello retto per poco tempo da Francesco II di Borbone, ma non era neppure «la negazione di Dio eretta a sistema di governo» come era comodo tacciarlo sbrigativamente per esaltare l'epopea risorgimentale. Dopo il 1860 sarebbe stato depredato di quello che di buono aveva, facendo affiorare forse il peggio, in un bagno di sangue e di atrocità che faceva impallidire le cifre dei caduti delle guerre di indipedenza. Ingredienti forti, miscelati da Guerri che, con questo libro che guarda il Risorgimento con gli occhi delle donne che non lo compresero e non lo accettarono (e di alcune che vi credettero), intende «restituire umanità e dignità alle vittime, condannate all'oblio dalla cattiva coscienza dei fondatori della patria o recentemente esaltate da chi ha voluto sfruttare gli errori commessi dopo l'unità per mitizzare il passato borbonico, e accentuare divisioni antiche. Il ceto politico piemontese non fu mai sfiorato dal dubbio che la reazione – forte quanto inaspettata - di quegli "incivili" fosse causata proprio da un approccio repressivo, dal rifiuto aprioristico delle differenze, da un atteggiamento di spocchiosa superiorità.

Non si capì che il Sud poteva essere Italia senza diventare terra di conquista».


I briganti erano i "resistenti" per antonomasia. Resistevano al nuovo nell'unico modo possibile: la violenza; furono schiacciati nell'unico modo che si riteneva possibile, perché il più facile: la violenza. Non fu solo storia di uomini.

Chi furono, allora le brigantesse? Vittime o carnefici? Drude (parola allora di moda) assatanate o amanti disposte al massimo sacrificio? Sanguinarie che attingevano al peggior repertorio maschile o donne capaci di soffrire e combattere?

Non si battevano per il sud ma per non far spezzare gli antichi equilibri, neppure quello della sottomissione cui erano in qualche modo rassegnate, intravedendo uno spiraglio di riscatto proprio mettendosi al di fuori della legge e della società.

Avevano un solo mondo di riferimento: il loro.

Torturate, imprigionate, processate, condannate a volte anche per sospetto, comprate e vendute, violate e innamorate, fedelissime e delatrici, furbe e ingenue. Capaci di perdonare o di strappare un cuore dal petto e addentarlo ancora palpitante come Francesca La Gamba; o uccidere la sorella con 48 colpi di scure come Maria Oliverio detta "Ciccilla", unica a essere condannata alla pena capitale (commutata in ergastolo); o a mostrarsi più coraggiose, più combattive e più determinate degli uomini, di cui indossavano i vestiti rinunciando alla loro femminilità.

Nei boschi dove avevano portato il corpo e il cuore. Imboscate ed eccidi, rapimenti e "sindromi di Stoccolma", stupri ed evirazioni, violenze e solidarietà, gesti draconiani e gesti nobili, ignoranza e superstizioni, umanità e crudeltà: ribolle di tutto nel pentolone della storia del brigantaggio, da una parte e dall'altra.

Guerra senza pietà, con la sospensione dei diritti civili, di un esercito moderno contro bande di guerriglieri. E delle loro donne, immortalate con compiacimento dai corrispondenti: Reginalda Cariello fotografata in posa, nella messinscena mediatica a uso e consumo dei giornali; la testa spiccata dal busto di Giuseppina Spina; Michelina De Cesare giustiziata e denudata prima di essere legata per i piedi a un carro e trascinata così in paese, perché i sindaci si litigano l'"onore" di mettere in esposizione il cadavere di briganti e brigantesse.

Guerri, col consueto stile scorrevole che evoca il romanzo più che il saggio storico, coniuga leggerezza narrativa a rigore e stuzzica i più giovani agli approfondimenti allegando alla bibliografia scientifica un'ampia sitografia.

Basta mettersi di fronte a un computer e navigare sul web senza rischiare di perdere la bussola.

fonte: http://www.iltempo.it/2011/11/20/1302937-brigantesse_nome_dell_amore_della_sofferta_unita_nazionale.shtml?refresh_ce

mercoledì 16 novembre 2011

LA SITUAZIONE MERIDIONALE SOLO QUESTIONE ?!

“Quella dei Savoia - scrisse Spadolini- era una dinastia ambiziosa ed intraprendente all’estero, retrograda e conservatrice all’interno. Più astuta che geniale. Più fortunata che gloriosa. Più abile che audace. Una sola meta: estendere lo Stato sabaudo verso est e cioè verso le pingui pianure lombarde.Il Risorgimento era stato troncato a mezzo delle sue aspirazioni…..i Savoia sono rimasti gli stessi, utilitari ed esclusivisti piemontesi di prima e hanno tentato di piemontizzare l’Italia, appoggiandosi alla sua ottusa e superba consorteria militare e accaparrandosi con concessioni e compromessi i diversi ed eterogenei partiti politici, espressioni più di clientele che di popolo”

Prima di parlare di economia e di dare i numeri è bene spiegare alcuni concetti basilari e vedere perché gli ex cittadini del Regno delle due Sicilie imputano ai Piemontesi la loro rovina economica. Partiamo dal concetto di moneta, perché poi tutti i problemi finiscono li. «E' moneta tutto ciò che viene comunemente accettato, in un certo ambito geografico, come mezzo di scambio e di pagamento e come unità di misura del valore dei beni».

Questo il concetto generale in vigore da secoli e assolutamente tranquillo se non fosse che ogni potente di passaggio metteva di volta in volta il suo faccione sopra la moneta, sua e di casa d’altri.

La maniera più semplice di fare una moneta, valida ed accettabile, è comunque quella di coniarla in Oro (ricchi) o argento per i tagli minori e rame per i centesimi (per i poveri). Questo principio generale venne seguito, ma di fatto presentava tutta una serie di handicap che andavano dal titolo (lega), alla pericolosità del trasporto e detenzione e perfino ai limatori che ne alleggerivano il peso. Garanzie: con questo metodo, di fatto, la moneta era universale, veniva accettata in capo al mondo.

Tornando al concetto “…mezzo di scambio e di pagamento e come unità di misura del valore dei beni” Questa funzione può in effetti essere fatta da tanti altri mezzi e la storia ci insegna che qualsiasi oggetto raro e controllato dal potere può fungere da moneta. Fu così per il sale, le pellicce nei paesi freddi, il pesce secco nell’artico, le conchiglie in Africa etc.

Che questa funzione la potesse fare anche un altro mezzo era noto da secoli, da quando era stata inventata la cambiale e gli altri titoli di credito che non sono poi altro che gli assegni moderni (nel caso della cambiale gli assegni postdatati) e la cartamoneta. Per i tagli grossi era la soluzione (l’inflazione c’era anche allora e c’era bisogno sempre più spesso di nuovi alti tagli). Chi emetteva carta moneta (banche, ma banche di fiducia dello Stato) giurava e spergiurava di avere l’equivalente in oro monetizzabile in qualsiasi momento. La promessa era stata talmente convincente che a scoprire le carte, come si dice a Poker, veniva un 10% della gente; ergo se ho cento in oro e viene il 10 %, posso emettere 1000 e tenere solo oro per il 10% ce è 100.

Valore della produzione agricola 1861 suddivisa per territori in % Fonte: Svimez*

La pensata deve aver fruttato molto al suo ideatore, ma non teneva conto che il panico in certi momenti fa brutti scherzi. In tono minore e leggermente diverso è successo anche recentemente in Argentina dove i risparmiatori si presentarono a ritirare i sudati soldi, pensando che la banca li avesse tutti in cassaforte: esempio improprio ma non del tutto con una circolazione a copertura aurea, perchè se la banca non fa circolare la moneta con che cosa paga poi gli interessi ?.

Panico e disastro economico.

I piemontesi avevano deciso di cominciare ad emettere carta moneta già all’indomani della sconfitta di Novara del 1849 con un rapporto di uno a tre (una lira oro contro tre ritirate) con la Banca Nazionale degli Stati Sardi unico istituto autorizzato. La Banca Nazionale degli Stati Sardi, altri non era che la Banca di Genova (http://www.bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/20070925_finocchiaro.pdf ), già avvezza a simili operazioni. Con la legge 9/9/1850 si decreta l’emissione di Carta moneta e uno dei primi valori è un 1000 lire del 1851. Vengono poi le 500 lire, le 250 e le 100 (1855). Questo è l’anno che Cavour sopprime gli ordini religiosi e li espropria. Due anni dopo è la volta del 50 lire e scendendo dopo l’unificazione eravamo arrivati alla lira. Coinvolti anche tutti gli altri istituti degli stati testè conquistati.

Banca Romana (1870), Banco di Napoli, Banco di Sicilia (per loro si trattava di una novità, oltre le fedi di credito), Banca Nazionale Toscana e Banca Toscana di Credito. La banca prestava soldi allo stato per le opere pubbliche, gli stipendi, per le guerre e per quant’altro servisse. Al Piemonte di Cavour ne servivano veramente tanti di soldi e l’immissione di tali ingenti somme sul mercato era anche perturbante, se non correttamente investite (ritorno economico e fiscale). La grande finanza era (ed è) convinta che i prestiti ai governi ed alle grandi società, producono rendite maggiori e danno più solide garanzie contro l'insolvenza, rispetto ai prestiti erogati al singolo.
Piemonte Continentale 18,2
Lombardia 15,3
Veneto 9,5
Parma e Piacenza, Reggio, Modena, 6,6
Stato Pontificio 9,3
Toscana 8,8
Due Sicilie –continente 23,6
Sicilia 7
Sardegna 1,7
Italia 100


Nel 1865 l'Italia, la Francia, la Svizzera, il Belgio e la Grecia, al fine di agevolare gli scambi, crearono l'Unione Monetaria Latina. Le monete d'oro e d'argento di questi paesi avevano lo stesso peso, diametro e percentuale di metallo prezioso e potevano quindi circolare liberamente in tutti gli stati membri, proprio come l'Euro odierno. Le monete avevano le seguenti caratteristiche: es. le 5 lire d’argento in lega al 900/1000 pesavano 25 grammo le 10 lire d’oro sempre in lega 900 gr 3,226 analogamente le 100 lire 32,26 gr. Aderirono poi formalmente all'Unione anche la Spagna, Romania, Austria, Bulgaria, Venezuela, Serbia, Montenegro, S. Marino e lo Stato della Chiesa.

Parentesi, all’incirca la stessa cosa stava accadendo negli Usa, usciti da una guerra civile, dove enormi operazioni speculative su terreni, merci, ferrovie, furono finanziate da una molteplicità di banche emettitrici, che nascevano e fallivano con rapidità sorprendente. Nel biennio 1873-74 chiusero 98 banche; 600 fallirono nel 1892/3. Fra il 1907 e il 1908 ne scomparvero 246. Lo Stato federale riuscì a garantire la convertibilità in oro solo nel 1879. Ricordiamo che nel 1971 Nixon pose fine alla convertibilità del dollaro.

Veniamo quindi al paese dei Borboni.


I dati che circolano su questa o quella economia, su questo o quel deficit, sono i più vari e strampalati. In una epoca in cui non esisteva una statistica ufficiale, la stessa previsione di bilancio era un terno al lotto. Sparare cifre la cui veridicità resta dubbia e di parte non mi sembrava utile e necessario. Riassumo quindi solo alcuni numeri indicativi per avere un quadro generale della situazione.

Il primo abbozzo di censimento venne organizzato nel 1861. All’epoca l’italia contava circa 22 milioni di cittadini provenienti per 9 milioni dalle Due Sicilie, 5 dal Piemonte e 8 dagli altri Staterelli annessi (3,2 Lombardia, 4 Emilia Romagna e Toscana, mancavano ancora le tre Venezie e il Lazio per circa 3 milioni di cittadini).

La mortalità infantile era del 31%° e il prodotto interno lordo era partecipato per il 54 % dall’agricoltura, per il 19% dall’industria e per il 27% dal terziario e dalla pubblica amministrazione (6%). Su una popolazione attiva del 60% (dato nazionale*: c’erano molti giovani) il 70% era dedita alla agricoltura (10,7 milioni) il 18% all’industria (2,8 milioni) e il resto nei servizi. Per quanto riguarda il territorio continentale del regno borbonico, nel 1860 gli addetti alle grandi industrie erano 210.000 in quasi 5.000 opifici e costituivano circa il 7% della popolazione attiva (dato non completamente verificabile e inferiore comunque a quello medio nazionale).

Il reddito pro-capite era pressochè uguale a quello medio italiano.

La sostituzione monetaria comportò oltre un anno di interregno, durante il quale si doveva decidere sulla forma amministrativa dello stato (decentrato -non federale o accentrato, ma passò questo) e della politica fiscale per pagare gli ingenti debiti che erano stati fatti per la guerra (1859 263 milioni + 80 ai francesi) che furono coperti provvisoriamente con prestiti contratti anche nelle province di nuova acquisizione come nel Sud.

Dal 1859 al 1861 si calcola che il disavanzo raggiungesse i 1000 milioni di lire piemontesi.

Una ripartizione (ipotetica) ora del debito complessivo unitario vedeva Il sud accollarsi quasi 1/5 del totale. Divisione strana, perché lo stato era centralizzato e simile divisione avrebbe avuto valore solo se a livello locale le tasse pagate fossero state compensate da un minor intervento statale (che peraltro non poteva esimersi dalle spese correnti -stipendi-che erano il grosso. Ciò equivarrebbe ad annullare ogni opera pubblica). Per pareggiare il bilancio si cominciò a vendere tutto quello che era demaniale o di proprietà pubblica (ex investimenti borbonici) e religioso. Ciò nonostante gli interessi del Debito Pubblico fino al 1866 continuarono a salire (fino a 300 milioni).

In breve il debito pubblico raddoppiò, poiché lo stato faceva debiti per pagare interessi.

La lira si era svincolata dall’oro e lo stato nel 1866 con una nuova guerra alle porte era sull’orlo del fallimento, neanche la famigerata tassa sul macinato avrebbe risollevato più le sorti negli anni successivi. Fu in questo momento, col corso forzoso a neanche un anno dalla firma della unione Monetaria, che ci fu la fuga dalla cartamoneta e la tesaurizzazione di quella metallica.

Iniziava ora si la lunga fase della emigrazione che raggiungerà punte drammatiche verso la fine del secolo.

Per riportare un pò d’ordine nella circolazione monetaria nel 1874 fu poi costituito il Consorzio Obbligatorio degli istituti di emissione. A ciascuna delle sei banche autorizzate all'emissione venivano imposti un tetto massimo di banconote che potevano essere emesse e gli scarti massimi che si consentivano in rapporto alle riserve in metalli o valute pregiate. In questo modo, le banche conservavano la loro autonomia di enti privati, ma venivano sottoposti al controllo e ispezione del Ministro dell'Industria e del Commercio.

Era il preludio alla creazione della Banca d’Italia che vedrà la luce però solo 15 anni dopo.

LE MONETE CIRCOLANTI A NAPOLI: Erano d'oro: lo Zecchino da due Ducati, la doppia da quattro Ducati e l'oncia da sei Ducati. Ferdinando II coniò un pezzo d'oro da tre Ducati, una quintupla da quindici Ducati ed una decupla del valore di trenta Ducati. Tra le monete d'argento aveva limitata circolazione il Ducato da cento Grana; la piastra da 120 Grana era la più diffusa. Ferdinando IV, tra il 1784 e 1785 aveva fatto coniare anche il mezzo Ducato d'argento da 50 Grana, ma era più diffusa la mezza piastra d'argento da 60 Grana. Vi erano poi il Tarì da venti Grana, il Carlino da dieci Grana ed il mezzo Carlino da cinque Grana. Tra le monete di rame, invece, la Pubblica da tre Tornesi, il Grano da due Tornesi, il Tornese ed il Tornese e mezzo o nove Cavalli, il tre Cavalli o mezzo Tornese. Vi erano anche pezzi da 8, 10, 6, 5 e 4 Tornesi, sempre in rame e sempre del periodo di Ferdinando IV.

L'unificazione del sistema monetario italiano avvenne in base alla legge del 24/8/1862. Fu una specie di corsa contro il tempo: nel luglio (Regio Decreto del 17 luglio 1861, n. 452 ) fu scelta l’impronta da coniare; nel marzo 1862 venne stabilito il valore aureo della nuova lira (0,29 grammi, pari a 4,5 grammi d’argento); nel maggio successivo furono fissati i rapporti di cambio con le valute destinate a sparire. Una lira piemontese corrispondeva a una lira italiana, mentre la lira austriaca venne cambiata a 0,87 lire italiane e una lira toscana a 0,84; per uno scudo pontificio, invece, si ottenevano 5,38 lire. sempre il catalogo poi dice che 1 ducato napoletano valeva Lire italiane 4,25 circa (prendere o lasciare).


Nella seconda metà del 1862 le tre zecche italiane, a Napoli, Milano e Torino (Roma era ancora sotto il Papa) cominciarono a coniare. Furono emessi 150 milioni di lire in monete d’oro e d’argento, 36 milioni in monete bronzee.

In oro furono autorizzati i tagli da “lire” 100, 50, 20, 10 e 5 (tutti emessi al titolo di 900 millesimi); in argento quelli da “lire” 5, 2, 1 e da “centesimi” 50 e 20; in bronzo i pezzi da “centesimi” 10, 5, 2 e 1.
Fra i nominali in argento solo quello da “lire” 5 venne coniato al titolo di 900 millesimi, mentre per gli altri fu stabilito un fino di 835 millesimi. La lega delle monete in bronzo era fissata in 960 millesimi di rame e 40 millesimi di stagno. Il rapporto tra i due metalli nobili oro/argento restava fissato, secondo la tradizione franco-piemontese, in 1 a 15,50. La difficoltà di avere sempre oro e argento in proporzioni fisse (1/15) metteva in difficoltà da sempre il conio di monete.

Anche per questa nasce l’Unione Monetaria Latina, tipo cassa di compensazione.

Gli anni 70 dell'ottocento distruggeranno il sogno dell’"euro" (non solo in Italia) e la copertura “fittizia” in oro cadrà definitivamente anni dopo con la grande guerra.

L'oro si considera tanto stabile che, anche alle quotazioni odierne 1gr = 12,35 euro, le 10 lire oro italiane del 1862 del peso di 3,226 grammi conservano il loro valore anche oggi pari a 39,84 Euro, idem per il ducato napoletano che valeva 4,25 lire circa (3,984 euro per lira) e quindi 16,94 euro per un ducato. Il calcolo è stato effettuato a $ quotato a 1.25 e a titolo aureo costante. Quotazione oro 440 $ per oncia (gr 28,35)

Secondo «La scienza delle finanze» di Saverio Nitti la moneta circolante nelle Due Sicilie all’epoca della unificazione era pari a 443,2 milioni di lire (stima), risultante oltre il doppio di tutte le altre monete circolanti nella penisola italiana. Se calcoliamo che il Lombardo Veneto era magistralmente governato dagli Austriaci (l’attivo di bilancio era il più alto) la circolazione delle Due Sicilie appare eccessiva per altre valutazioni. La tabella sottostante costruita con stime va presa col beneficio d'inventario.

Il ritiro del circolante napoletano incontrò grosse difficoltà e secondo alcuni venne tesaurizzato in una percentuale alta, percentuale che secondo alcune fonti sta sotto il 50%.

Il debito pubblico era comunque più basso, 1/10, di quello piemontese.



Regioni

Riserve Auree in mil.

moneta ritirata in mil.

abitanti mil.

disponibilità a testa

Due Sicilie


443**

457

9,05

50,5 lire

Lombardia 8,1 112
3,15

35,5

Ducati Pr-Mo 1,8 38
Romagna
2,1
18

Piemonte 27 176 5 35
Toscana 85,2 73 1,9
38,4

Ex papato

55,3


1,35


Venezie*

12,7


2,5


Roma Lazio 1870 35,3 350 mila
Totali
668,4


25,4




Dalle cifre sopra esposte, se reali, si può notare che ad esclusione di Toscana e Due Sicilie il rapporto fra Riserve e circolante era già andato oltre l’uno a tre. Si nota anche che il dato delle due Sicilie (incompleto) dà una disponibilità a testa più alta d’Italia !!!.

**Con una circolazione a metallo nobile la riserva non esisteva fisicamente se non per quella parte non coperta (aggio). Il dato delle riserve del Lazio è alto perché copriva anche la circolazione monetaria di Romagna, Marche e Umbria, perse nel 1860, per circa 3 milioni di abitanti , non si conosce il circolante. * Il dato delle Venezie comprende la Venezia Tridentina entrata a far parte della nazione italiana solo nel 1918. I dati al 1861, fuori dal censimento italiano, sono stimati.

Da considerare che quando è stata ritirata la lira a favore dell'Euro 2 anni fa il circolante a disposizione era poco più di 2 milioni a testa, in presenza di altri strumenti monetari sostitutivi come gli assegni, carte di credito, bancomat etc. Si stima che su 125.000 miliardi di lire circa un 10% non rientrerà più anche in tempi successivi per cause varie (collezionismo, distruzione o smarrimento).

fonte:http://digilander.libero.it/fiammecremisi/approfondimenti/questionemeridionale1.htm

Brigantes, Brigantii e Brigantaggio

Il brigante è inteso, genericamente, come bandito, persona la cui attività è fuorilegge. Spesso sono stati definiti briganti, in senso dispregiativo, combattenti, partigiani e rivoltosi in determinate situazioni sociali e politiche: in particolare briganti furono i personaggi che si opposero con le armi all'instaurazione della monarchia sabauda nel Regno delle due Sicilie. Occorre distinguere quei briganti in qualche modo politicizzati, dai briganti che furono dei delinquenti puri, non legati a ideologie, come i briganti romagnoli, tra i quali il più conosciuto è il "Passatore".



Etimologia

Il termine brigante, seppur derivi dalla parola "brigare" di cui condivise originariamente i significati di "praticare", "lavorare", "trovarsi insieme", ha assunto progressivamente, soprattutto in Francia, la connotazione di "fuorilegge", che oggi prevale. È nel 1410, che si attesta il lemma francese "brigandage", ma è solo nel 1829 che viene riscontrato in Italia come neologismo.
Ancora oggi in Russia si cantano e si ballano, in opere folkloristiche, le gesta di gruppi di briganti guidati da Stenka Razin, intorno al 1670. Razin e le sue bande armate di contadini e di avventurieri rivendicavano diritti sociali, quali l'eguaglianza e l'abolizione di privilegi.
"Briganti" vennero detti dai francesi anche i componenti dell'armata sanfedista riunita dal cardinale Fabrizio Ruffo che combatterono vittoriosamente contro l'occupazione francese e contro la Repubblica napoletana del 1799 (sostenuta, ma non riconosciuta, dalla stessa Francia). È in tal modo quindi, che, attraverso il francese, la parola "brigante" giunge in Italia poiché "con tal nome erano comunemente chiamati nell'anno 1809 coloro che nelle varie nostre province si sollevarono"
.
Sono stati quindi spesso definiti briganti, in senso dispregiativo, non unicamente dei 'delinquenti', ma i combattenti e rivoltosi in determinate situazioni sociali e politiche e per brigantaggio poi si è teso a definire non solo una forma di banditismo caratterizzata da azioni violente a scopo di rapina ed estorsione, ma anche azioni che hanno avuto, in altre circostanze, risvolti insurrezionalisti a sfondo politico e sociale. In Italia spesso ci si riferisce a persone raggruppatisi nel Mezzogiorno per contrapporsi contro le truppe che portarono al compimento il processo di unificazione del Regno d'Italia dei Savoia. L'uso del termine "brigante" assimilato a "bandito" è stato anche impiegato contro i partigiani della Resistenza dalle forze d'occupazione naziste.



Sono stati, in definitiva nel tempo, spesso definiti briganti, in senso dispregiativo, non solo persone 'dedicate' alla criminalità, ma altresì combattenti e rivoltosi in determinate situazioni sociali e politiche. Nella storiografia sono definiti "briganti" i movimenti di Taiping, un gruppo di rivoltosi orientali, attivo dalla seconda metà dell'Ottocento.


Brigantes, Brigantii e Brigantaggio



Secondo alcuni, il termine "brigante" deriverebbe dal popolo celtico dei Briganti,(abitanti della Britannia), insediato presso Eboracum (York) e, sempre per costoro, tristemente famoso presso i romani a causa della loro riottosità; secondo il Devoto per briga è da intendersi una parola che in lingua gallica, (il gallico è una lingua celtica estinta, parlata nelle antiche Gallie, praticamente le odierne Francia ed Italia settentrionale), indica "forza", passata poi a significare "prepotenza".

Il nome Brigantes (Briganti, Βρίγαντες; della Britannia) è affine a quello della dea celtica Brigantia.

Comunque il nome viene da una radice celtica che significa ‘altitudine'.Il nome Brigantes infatti è collegabile a 'brig' che significa "alto, elevato ed anche colle, altura" e non è chiaro se i nomi derivati erano così denominati col significato di "quelli alti " nel senso metaforico di animi nobili, o col significato di "montanari", oppure col significato di abitanti, luoghi o fortificazioni situati in altura. Anche il nome Brigit ed altri simili avrebbero avuto la stessa origine in Irlanda[6].A parziale conferma, Tolomeo nel menzionare i Brigantes, li riconosce come tribù presente anche in Irlanda. Un'altra tribù celtica (da taluni identificata come Brigantii) è citata da Strabone come una sub-tribù presente nel territorio dei Vindelici. Nella geografia ‘pre-romana' dell'Europa, Vindelicia era una regione delimitata a nord dal Danubio (e successivamente dal Limes Germanico di Adriano), a est dall'attuale fiume Inn, a sud dalla Rezia e ad ovest dal territorio degli Elvezi. Il suo capoluogo divenne con i Romani Augusta Vindelicorum ("Augusta dei Vindelici", o Augusta).

L'origine etnica del Vindelici non è sicura. In ogni caso solo verso la fine del primo secolo d.C., questa regione è stato inclusa nella provincia della Rezia dove erano sicuramente presenti sub-tribù di Brigantes Celti. Nella lingua italiana la parola brigante, da cui, fra gli altri, i nomi inglesi e francesi di brigand e brigade (e poi anche di brigandage) si evidenzia da espressioni derivate dal latino medievale non prima del XIV secolo.

Il termine brigante, con la connotazione di "fuorilegge", deriverebbe, come sopra affermato, da "brigare".

Non vi sarebbe dunque un'origine celtica di termini relativi alla parola brigantaggio ed anche se una derivazione celtica fosse possibile, ogni connessione con la tribù celtica dei Brigantes della Britannia appare affatto improbabile in quanto detta tribù non aveva avuto alcuna particolare presenza nella penisola italica ed era scomparsa come popolo da qualche migliaia di anni rispetto al momento in cui comparvero termini correlati con brigantaggio.

D'altro canto diverse città ed aree che si rifanno ad antichi insediamenti celtici con brig o ‘Briga- Prefixed Names in Europe'),potrebbero avere origini comuni coi Brigantes della Britannia e sono in ogni caso tutte città ed aree che si rifanno ad antichi insediamenti celtici.
Fra questi stanziamenti brig o ‘Briga- Prefixed Names in Europe' vi sono Brigantion poi romanizzata e denominata Brigantium, (l'attuale Bregenz in Austria), posta sulle rive del Brigantinus Lacus e principale centro delle sottotribù celtiche dei Briganti delle Alpi e Prealpi retiche, oppure Brigantio -> Brigantium oggi Briançon nelle Alpi Cozie ed anche Hispaniae Brigantium o Brigantinus Portus, l'antico nome del porto dell'odierna La Coruña, nella parte nord-occidentale della Spagna, Bragança in Portogallo nel distretto di Bragança. A proposito dell'attuale Bregenz, fondata da Brigantes delle Alpi e Prealpi ( ‘Brigantiers ' per i francesi), nel 15 a.C. i Romani la conquistarono e le conferirono lo status di città (Brigantium).

Nel 259-60, Brigantium venne distrutta in seguito ad invasioni ‘barbariche germaniche'. Curiosamente tra le ricostruzioni storiche sulle origini del nome del territorio storico della Brianza italiana,(che ha il documento forse più antico, nel quale si accenna proprio al nome Brianza,risalente al 1107), alcune,[9][10] hanno sostenuto la versione, forse leggendaria, secondo la quale il nome di questo territorio storico della Lombardia, è collegabile con il nome della Città di Brigantium e della popolazione che da essa emigrò dopo l'invasione dei popoli Germanici. D'altronde nelle trascrizioni, la G celtica tende a volte a sparire davanti alla A e quindi è possibile una derivazione Brigantes->Brigantii-> Briganti->Briganzi-> Briantii-> Brianti->Brianzi.

Nel 1485 venne istituita la Banca del Monte di Brianza, che tentò di risolvere problemi conseguenza fra l'altro della calamità del brigantaggio, ma particolarmente suggestivo è poi il possibile rafforzarsi del termine dovuto ai 'bravi' di manzoniana memoria,(probabilmente il nome ‘bravo' deriva dal latino pravus che significa ‘cattivo e malvagio') , soldataglia al servizio di signorotti locali, loro braccio armato e prepotente e con essi esercitanti una vera e propria forma di brigantaggio crudele nei contadi in cui spadroneggiavano nel 1600; in caso di razzie nelle campagne, di fronte a rare ribellioni nei loro confronti trovavano rifugio tra boschi, colline, luoghi montagnosi e dirupi, in ogni caso sedi impervie: fra i ‘bricch' come si diceva nei dialetti locali.

Vi sono infine alcune città italiane che deriverebbero il loro nome da termine celtico ‘Brig , Brik',quindi con un lontano passato celtico ma senza alcun legame con città e popolazioni di quella tribù celtica dei Brigantes della Britannia che in epoca pre-romana controllava la parte più grande dell'attuale Inghilterra del Nord , e una parte significativa delle Midlands, né soprattutto col Brigantaggio.

In conclusione i termini Brigantes e Brigantii, hanno avuto nel corso della storia collegamenti con diversi episodi di ribellione ad invasioni o a prevaricazioni sociali e politiche ma non hanno alcuna connessione col Brigantaggio, inteso nel senso di fenomeno determinato da persone 'dedicate' ad atti di perversa brutalità o di sopraffazione e prevaricazione anche violente e spesso nell'ambito di una criminalità organizzata.


Briganti e partigiani


L'identificazione di un determinato gruppo di combattenti o partigiani con termini quali brigante o bandito dipende in buona parte dal punto di vista della potenza che, detenendo il monopolio della forza e della legge, s'impone sul territorio interessato dalla ribellione, con l'obiettivo di screditarla ed isolarla dal suo tessuto sociale. Quando i libri di storia sono scritti dai vincitori, questi possono assumere questo punto di vista nei confronti dei vinti, a giustifica dell'opera di repressione nei loro confronti. In queste circostanze, i testi della storia ufficiale possono differire dai fatti come oggettivamente avvenuti, risultando fonti poco attendibili.
Alcuni di questi briganti guadagnarono in alcuni casi fama e appoggio dalla popolazione assumendo, nella cultura contadina e nella letteratura, un carattere a volte leggendario, come ad esempio avvenne nel caso dei cangaçeiros, che per circa 70 anni agirono nel Nordest del Brasile.
Infine, ulteriore esempio di quanto controverso possa essere l'uso di termini come "brigante" e "bandito" è il fatto che i partigiani della Resistenza venivano comunemente definiti banditi dalle forze d'occupazione naziste e come tali trattati.
Son stati definiti "briganti" anche i praedones della Roma repubblicana, sebbene tale parola, data la propria forte valenza storica, non appaia appropriata per quel contesto.

fonte:http://it.wikipedia.org/wiki/Brigante

giovedì 10 novembre 2011

Briganti: delinquenti o resistenti, malfattori o patrioti?

Due diverse immagini del brigantaggio, una romantica l'altra cruda e spietata.......



Apriamo una via nuova, una via che ci porterà alla scoperta della nostra vera storia, la storia sopravvissuta alla storia raccontata dai vincitori. La storia di 140 anni fa, la storia del Sud post-unitario cha ha finanziato le grandi imprese del Nord, la storia di settori industriali meridionali all'avanguardia, la storia di una cultura da rivalutare, o scoprire, per conoscere le nostre vere radici, la nostra identità.
02/05/05

Briganti: delinquenti o resistenti, malfattori o patrioti?

raccolta di appunti mix e frammenti di una storia troppo poco raccontata
(lametropolis.it, Settimo Sigillo del 02/05/05

Se i briganti furono delinquenti allora l'Italia nacque legittimamente, ma se i briganti furono patrioti e resistenti allora è tutta un'altra storia. La storia del mezzogiorno contemporaneo pare essere un tutt'uno con la storia della questione meridionale. La storia delle cause e delle responsabilità piuttosto che la vicenda storica effettiva. Vae victis, una storia raccontata dai vincitori ed i vinti del Sud che si dovranno sempre giustificare sul perché si siano battuti "per la parte sbagliata".

Una rivendicazione di una storia autonoma del Sud Italia è improponibile ma è possibile individuare le radici profonde dello sconvolgimento della vita di milioni di uomini e dell'economia che hanno cambiato la faccia delle popolazione meridionale negli ultimi 150 anni. La storia dei rapporti tra Nord e Sud, le radici della storia della questione meridionale.

Il Brigantaggio ebbe inizio storicamente all’indomani della partenza per l’esilio del Re Francesco II di Borbone, avvenuta il 13 febbraio 1861, già due giorni dopo ci furono le prime sollevazioni. Quel Popolo che si ribellò fu marchiato con la parola "BRIGANTE" dall' idioma francese brigant che significa delinquente, bandito. La repressione messa in atto dai Piemontesi fu violentissima sin dall’inizio, ma inefficace.

Il nuovo Regno d’Italia schierò ben 211.500 soldati e inviò i suoi ufficiali di maggior rilievo, eppure per molto tempo non riuscì a distruggere neppure una banda. Nel 1863, fu istituita una Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta dal deputato Giuseppe Massari quale venivano indicate le cause del brigantaggio: la miseria delle popolazioni, dovuta ovviamente all’oppressione borbonica; era povera perché affamata dai Borbone. Dalla relazione Massari ebbero come risultato la promulgazione della che autorizzava lo stato d'assedio nei paesi battuti dai briganti.

Risultato: quasi un milione di morti, 54 paesi distrutti, stupri e violenze inaudite, processi e fucilazioni sommarie. Da un diario di un ufficiale sabaudo: . Pontelandolfo paese del beneventano fu letteralmente raso al suolo. Anche la storiografia corrente ha riconosciuto che la repressione contro
il Brigantaggio ha fatto più vittime di tutte le altre guerre risorgimentali messe insieme. Ma c'è di più, purtroppo, ... campi di concentramento il più temibile quello di Fenestrelle fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. Ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce. La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte.Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce". (ricorda molto la scritta dei lager nazisti). ... Già nel 1862 Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei prigionieri di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione degli abitanti d'interi paesi, con le "galere" piene fino all'inverosimile, il governo piemontese diede incarico al suo ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del governo portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al fine di relegarvi l'ingombrante massa di molte migliaia di persone da eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe successo, ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese suscitò una gran ripugnanza nell'opinione pubblica. (fonte www.cronologia.it/storia/a1863b.htm)

L'aspetto più indecente di questa porzione di storia è che sullo sfondo c'è una storia di debiti di guerra (Cavour ne fece tre in dieci anni!) a cui si sommavano anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico. Il piemonte era indebitato con Francia e Inghilterra ed il regno borbonico rappresentava una vera e propria miniera d'oro per la borghesia espansionistica piemontese e per gli affaristi internazionali. Le riserve auree del Regno delle Due Sicilie, (500 milioni contro i 100 dei piemontesi) avrebbero permesso di stampare carta moneta per circa tre miliardi una vera e propria manna se a ciò si aggiunge le nuove tasse imposte ai 9 milioni di abitanti, i risparmi, le terre ed i beni sottratti alle autorità ecclesiali destinati allo sviluppo dell'agricoltura padana. Tutto in nome dell'unità d'Italia.

Il Sud fu depredato e soggetto ad una dura imposizione fiscale "Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era, nel 1859, di 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il nuovo regime, le tasse erano salite fino a 28 franchi a testa, il doppio di quanto pagava l"’oppresso" popolo napoletano prima che Garibaldi venisse a liberarlo". L'abolizione del protezionismo e l'eccessivo liberismo dello stato sabaudo espose le industrie alla concorrenza esterna, l'economia dei borboni non era pronta all'internazionalizzazione come del resto quella italiana non lo è stata fino al 1960, 100 anni dopo! La stampa europea definiva il sud borbonico arretrato ed inefficiente, termine ancora oggi in uso per indicare qualcosa che non funziona, ma come giustificare il proliferare di attività industriali? Come mai molte fabbriche vennero smantellate come il famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica tessile nel Veneto e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia.

- Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le regioni meridionali eranocadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie. Nel 1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero; nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone. - L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria, ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione. (fonte www.morronedelsannio.com/sud/brigantaggio.htm)

Una nuova interpretazione del fenomeno del brigantaggio ciò che ha costituito un marchio d'infamia,
e che metaforicamente ha accompagnato la storia dei meridionali fino ai giorni nostri così --- (spunto) riappropriarsi della sua storia in quanto risorsa, una traccia della memoria da recuperare, un segno forte che la storia ha lasciato nella zona, un “bene culturale” da valorizzare patrimonio di una terra ed esempio per una lealtà mostrata ad una cultura locale, ad una ’appartenenza comune.
“Terra di Briganti” è la terra del SUD.




quattro partigiani patrioti del Sud catturati dall'esercito nord-piemontese e da mercenari locali. I quatto, nonostante le apparenze sono tutti morti, sono tenuti dritti dalle braccia assassine dei loro carnefici.





N.B. ho trovato molto interessante aver trovato questa storia su : La Girandola, il portale dei bambini- http://www.lagirandola.it/lg_primopiano.asp?idSpec=140

domenica 6 novembre 2011

Il Banco delle Due Sicilie

di Nicola Zitara

Siderno, 30 Settembre 2007




La banca pubblica che gli ex Stati italiani tentarono, con molta fatica e pochissimi successi, di far nascere durante i decenni compresi tra la caduta di Napoleone e l’unità nazionale, fu una solida realtà nelle Due Sicilie sin dal 1815, data del rientro di Ferdinando I[1] a Napoli; una realtà che, poi, l’Italia una e indivisibile faticò non poco a soffocare. La precocità del Sud rispetto agli altri Stati italiani viene attribuita da Francesco Saverio Nitti a un uomo di genio, quale fu in effetti il ministro Luigi de’ Medici.

Senza nulla togliere al grande uomo di Stato, che con misure di tipo colbertista operò nel senso di far transitare lo Stato duosiciliano dal parissitismo giacobin-nobiliare dei re francesi alla produzione moderna, bisogna ricordare, però, cinque cose.

Prima: il Regno delle Due Sicilie era uno Stato unitario da settecento anni.

Seconda: le Due Sicilie erano lo Stato più grande e popoloso della penisola, dando luogo a una vasta base impositiva.

Terza
: la capitale contava parecchio più che tutto il regno, cosicché i Banchi napoletani raccoglievano un’enorme massa di danaro.

Tuttavia questo danaro rimaneva egualmente in circolazione, in quanto la fede di credito circolava, con generale soddisfazione del pubblico, da una mano all’altra e veniva prontamente trasformata in numerario in periferia dai tesorieri e dagli esattori regi.

Quarta, l’apodissario, cioè colui che depositava il danaro allo sportello del Banco, diveniva, almeno in teoria, creditore dello Stato, cioè il Re, considerato il soggetto più ricco e solvibile del paese. Infatti la fede non attestava un deposito, ma un credito, da cui fede di credito. La differenza è giuridicamente rilevante. Infatti, nel contratto di deposito la perdita senza colpa del danaro esime il depositario dalla restituzione, mentre nel caso di credito sorge l’obbligazione di restituire il corrispondente in ogni caso.

Quinta: i Banchi napoletani erano delle istituzioni interclassiste e a diretto contatto con le masse, a favore delle quali praticavano il prestito su pegno a un modico interesse (il Banco della Pietà e quello di Santo Spirito del tutto gratis), ancorché non negandolo ai nobili, ai ricchi, e (con garanzie diverse dal pegno) ai mercanti, nonché al governo[2].

Abbiamo ricordato che la fine della secolare pluralità dei Banchi si ebbe nel 1795, allorché Ferdinando IV s’impossessò di 33 milioni di ducati (circa 130 milioni delle successive lire-oro piemontesi) per prepararsi a resistere agli eserciti della Repubblica Francese, che stavano valicando le Alpi. Dopo il colpo, affinché potessero far più facilmente (o meno difficilmente) fronte alle richieste di conversine delle fedi in numerario, il ministro Giuseppe Zurlo li unificò. Ovviamente ciò non poté bastare a far sì che i ducati si riproducessero. Infatti le fedi si svalutarono e caddero a meno del 20 per cento del valore nominale.

Nel 1803, un comitato promosso dagli apodissari elaborò il progetto di un nuovo banco, che si voleva rispondente alle esigenze crescenti di chi operava con il danaro. Durante la dominazione francese, il Banco, nonostante l’unificazione, non si riprese. Neanche i re rivoluzionari hanno il potere di resuscitare le vittime delle loro ambizioni di dominio. Tuttavia va ascritto a merito del governo Murat la fondazione del Banco delle Due Sicilie, modellato su due Casse. Il modello fu rispettato dal governo borbonico.
Con la restaurazione borbonica, il Banco delle Due Sicilie, diversamente dai vecchi banchi che erano istituzioni non statali, divenne un settore della pubblica amministrazione, passò cioè alle dipendenze del governo regio. Era diretto da una sola persona, il Reggente, ed era diviso in due settori (Casse) aventi funzioni diverse, almeno formalmente.
Entrambe le casse accettavano depositi in monete di argento e di rame. A fronte del deposito rilasciavano una fede di credito o un altro dei titoli della tradizione napoletana (cfr. Capitolo 4.6).
Bisogna aggiungere che il Banco prese a distinguere tra fedi in argento e fedi in rame. Le Casse convertivano in moneta d’argento le fedi in argento e in rame le fedi in rame. La non intercambiabilità tra argento e rame si spiega con il fatto che le monete d’argento valevano (carato più, carato meno) quanto il metallo fino contenuto nel singolo conio, mentre le monete di rame circolavano per un valore nominale che era significativamente superiore al prezzo del rame[3]. La coniazione del rame era un privilegio dello Stato. Il privato poteva acquistare monete di rame alla zecca, ovviamente al loro valore nominale, ma non farle coniare. Il pagamento in argento di una fede in rame avrebbe dato luogo a un regalo a favore del portatore del titolo e (collettivamente) un danno per i possessori di monete d’argento.
Le fedi in oro furono istituite nei decenni successivi.

Nelle Due Sicilie le due unità monetarie (il ducato e lo scudo, fra loro intercambiabili) erano in argento e così pure gran parte dei coni circolanti.


Durante i decenni della Restaurazione, e fino alla cosiddetta e maledetta unità, la Cassa di Corte fece da sportello unico per gli incassi e i pagamenti dello Stato. Chi doveva pagare un tributo, un servizio, un acquisto dallo Stato, lo doveva fare versando l’importo al Banco, che accreditava l’incasso sul conto del Tesoro.

Quando a pagare era il Tesoro, il Banco riceveva l’ordine di sborsare la somma dovuta, imputandola a debito del Tesoro. Il miracolo di un banco tanto ricco stava tutto in questa regia disposizione! Il Banco effettuava gratis sia l’emissione di una fede sia l’operazione del cambio, tuttavia usava la liquidità che ristagnava nelle sue Casse nelle more tra un’operazione e l’altra. Si comportava, cioè, come una banca di deposito e di sconto, oltre che come un istituto d’emissione. Insomma, il ministro Medici applicò a Napoli la teoria di Law, e lo fece con prudenza e in funzione della pubblica utilità. Il Banco non faceva altro che pagare o incassare, dopo aver accertato che chi si presentava alle sue casse era la persona legittimata a farlo. Ciò, oltre che dare certezza alle transazioni, permetteva una proficua valorizzazione del considerevole capitale immobilizzato in moneta.

Le fedi di credito circolavano in tutto il regno. Entrambe le Casse le convertivano a vista, anche se emesse dall’altra Cassa, le tesorerie provinciali erano obbligate ad accettarle come moneta contante ed erano autorizzate a cambiarle in numerario al privato che lo richiedeva. Negli affari erano viste come una grande comodità. Da tutte le province partivano istanze perché vi fosse aperta una succursale del Banco. A queste richieste il Banco fu costantemente sordo, perché le operazioni di deposito e di cambio prevedevano costose registrazioni.

Infatti l’emissione di una fede di credito dava luogo all’apertura di un conto intestato a un cliente (madrefede). Gli originali tornati in pagamento venivano registrati e archiviati. Ma archivi[4] si facevano per ogni cosa, per esempio le operazioni giornaliere della Cassa. Il Banco teneva una quotidiana situazione di cassa, quasi un bilancio giornaliero, e una folta corrispondenza con gli altri settori della macchina ministeriale. Gli sportelli aperti a Napoli costavano tra le quattrocento e le cinquecento mila lire-oro all’anno Il personale era numeroso (più di 2000 impiegati) e non sempre ben pagato. Chi stava al vertice godeva delle 13°, 14° e 15° mensilità (una a Pasqua, una Ferragosto e una Natale) e a fine servizio aveva la pensione. Il trattamento economico degli impiegati di un certo rango era elevato.

Il principe di Carignano, che fu il Reggente sia con Murat che con Ferdinando I, aveva uno stipendio di circa 15.000 lire-oro; più della rendita di un grosso proprietario o del profitto di un capitalista. I maggiori dirigenti avevano stipendi che stavano intorno alle 5.000 lire-oro. I circa 2000 dipendenti ottenevano paghe annue tra i 400 e i 1.000 ducati. Va da sé che, per tali privilegi, il Banco fosse, persino dopo l’unità, uno dei luoghi preferiti dal classico clientelismo meridionale. C’erano però anche dipendenti con paghe da sopravvivenza, che qualche volta il Banco salvava dalle grinfie degli usurai con atti di beneficenza. C’erano anche persone che lavoravano per pochi ducati al mese e apprendisti che prestavano la loro opera senza alcun salario.
I crediti dei privati verso il Banco (cioè le fedi in circolazione, dette anche le bancali) non erano sequestrabili né pignorabili da parte di un privato né a opera dello Stato. Esse non avevano però corso forzoso tra i privati: non erano, cioè, moneta dello Stato. Il privato era libero di non accettarle in pagamento. La pronta cassa fu la più convincente pubblicità del Banco e creò, nelle popolazioni regnicole, un clima di fiducia nella moneta cartolare insolito sia in Italia che in gran parte dei paesi europei. La carta circolava nelle province con sicurezza, nonostante la presenza di banditi e predoni. Viaggiava per mare come se la somma fosse assicurata, in quanto, nel caso di naufragio, o comunque di smarrimento o furto, fatti i debiti accertamenti e costituite le necessarie garanzie, il Banco rilasciava una seconda bancale.
Il meccanismo creato dal ministro Medici fece del Banco l’unica istituzione veramente prospera di tutta la penisola. Una quota, variamente consistente negli anni, ma sempre elevata, della moneta circolante nelle Due Sicilie giaceva nelle sue casse. Di questo contante lo Stato, sornionamente, utilizzava una parte per la sua attività erariale, senza per questo disturbare gli affari privati, anzi stimolandoli attraverso una tranquilla circolazione dei titoli.

In sostanza il governo napoletano, una volta creato un meccanismo che gli metteva a disposizione il danaro della gente, poté essere meno fiscale di altri governi e persino più contenuto nell’emissione di debito pubblico, che, se acquistato all’estero, dava luogo all’esportazione di rendita.

Ma se il Banco – per così dire – annacquava agli occhi dei sudditi il peso dello Stato e se contemporaneamente favoriva i grossi commercianti napoletani, era invece chiuso al più pesante e pressante problema dell’economia duosiciliana: il credito all’agricoltura. Il giro creditizio della Cassa di Sconto non raggiungeva la provincia, se non a livello di duchi e baroni. I quali, per altro, se attingevano al credito, di regola non lo facevano per effettuare degli investimenti produttivi. Nonostante la maestosità e l’imponenza del Banco, nelle campagne allignava l’usura. Lo scambio tra il produttore agricolo e il mercante era il focolaio sul quale ribolliva un’economia da saccheggio. Ciò era il segno di un’accumulazione primitiva già in itinere, nel senso proprio e tipicamente europeo di un sistema paese strutturato in modo da spostare invisibilmente risorse dalla campagna alla città[5].

Per spiegare la duttilità politica di de Medici è opportuno ricordare che la Cassa di Corte non solo anticipava soldi al Tesoro, ma li prestava anche a chi effettuava forniture allo Stato o otteneva l’appalto per un’opera pubblica, o anche a un gran signore in difficoltà. Per agevolare il settore commerciale, il ministro istituì presso la Cassa di Corte un Consiglio di sconto, con il compito di stabilire se ammettere allo sconto le cambiali presentate da un dato commerciante. Già nel 1820, appena avviata la sua attività, su 3.844.172 di ducati di depositi (che peraltro rimanevano in circolazione sotto forma di bancali) il Banco impiegava in operazioni di credito duc. 1.654.775, trattenendo in cassa soltanto il 30 per cento dei depositi, pari a duc. 1.189.397 (idem, pag. 171). In pratica la circolazione di carta bancaria assommava le fedi rilasciate ai depositanti (duc. 3.844.172) e le fedi emesse come carta fiduciaria (duc. 1.654.775). In totale, nel 1820, a Napoli circolava carta per duc. 5.498.947 (pari a 24, 2 milioni di lire-oro).

E’ da chiedersi a questo punto, dove sta l’arretratezza napoletana e dove stanno i primati e le primazie piemontesi.
_____________________
[1] Con la restaurazione postnapoleonica Ferdinado IV di Napoli e III di Sicilia si proclamò Ferdinando I delle Due Sicilie. In precedenza il regno di Sicilia e quello di Napoli, benché sottoposti a un solo dinasta, davano luogo a due diverse corone. L’unità effettiva tra Sicilia e Napoletano risaliva all’intromissione della Curia romana nella vita del Sud e ai re normanni, mentre la dizione Due Sicilie era stata coniata al tempo degli angioini. Per sette secoli due corone si sovrapposero su una sola testa, quella che l’Europa barbarica decretava dovesse regnare sui meridionali. Con la proclamazione del 1815 il regno diventò uno solo anche agli effetti del diritto internazionale.
[2] Oltre al citato Banco di Sant’Eligio, c’erano il Monte dei Poveri (nato il 1563), il Banco di Ava Gratia Plena o della Santissima Annunziata (1587), il Banco di Santa Maria del Popolo o Banco del Popolo (1589), il Banco dello Spirito Santo (1590), il Banco di San Giacomo o della Vittoria (1597), il Banco del Santissimo Salvatore (1640). Quest’ultimo, fondato da un’Associazione di fornai, era il solo ad avere un dichiarato fine di lucro.
I vecchi banchi raccoglievano depositi per una cifra favolosa per il XVIII secolo, 25.576.470 ducati, e possedevano beni immobili per 13 milioni di ducati. Se Ferdinando avesse prestato il contante disponibile ai suoi cognati, Luigi XVI e Maria Antonietta, probabilmente la Grande Rivoluzione non ci sarebbe stata, con gran beneficio degli italici e dei siculi loro contemporanei, nonché di noi sudici posteri.
Sui Banchi napoletani esistono centinaia di opere. Le più accreditate recentemente sono quelle di Demarco sull’Archivio del Banco di Napoli. Lo stesso Demarco cita R. Filangieri, Storia dei Banchi di Napoli, pubblicata a Napoli nel 1940.
[3] Ricordo ancora che non solo a Napoli, ma anche altrove, chiunque poteva portare oro o argento alla zecca dello Stato e farlo coniare, ovviamente pagando il signoraggio.
[4] L’archivio storico del Banco di Napoli è considerato il più ricco al mondo di documentazioni del passato.
[5] Neanche il Sud unitario poté usufruire di un apparato creditizio a favore dell’agricoltura. La moltiplicazione degli sportelli del Banco di Napoli, le banche popolari e le casse di risparmio sorte a partire dagli ultimi anni del sec. XIX, servirono essenzialmente a finanziare il commercio locale, in pratica gli sbocchi meridionali delle merci toscopadane. Una significativa opera creditizia a favore dell’agricoltura si ebbe al tempo della Cassa per il Mezzogiorno, ma a quel punto della storia il rapporto di scambio tra agricoltura meridionale e prodotti protetti comunitariamente sconsigliava d’insistere in un’attività divenuta inesorabilmente perdente.

mercoledì 2 novembre 2011

Alla riscossa terroni, di Lino Patruno

di Rocco Biondi

Terroni, è un titolo onorifico, perché è un onore serbare in sé le virtù della terra», scrive Lino Patruno. I «terroni» di Puglia hanno trasformato una terra di pietre in un giardino. I «terroni» hanno conservato o riscoperto il valore dell’agricoltura, con la difesa dei prodotti di qualità contro «la globalizzazione del tutto uguale e del tutto imitato».

Il libro raccoglie alcuni degli articoli di fondo pubblicati sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” dal 2000 al 2008, raggruppandoli intorno a quattro temi: la dis-unità d’Italia, la sagra degli autogol del Sud, i giovani e il lavoro, il federalismo.

Lino Patruno è stato direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno” dal 1995 al 2008. Tredici anni durante i quali ha potuto guardare la Puglia ed il Sud da una finestra privilegiata, ma nello stesso tempo ha saputo dare voce alle aspettative del Meridione d’Italia, non disdegnando di pungolare pugliesi e meridionali a liberarsi dalla succube rassegnazione e dai vizi che bloccano lo sviluppo, invitandoli a reagire e a mettere in campo le tante potenzialità che possiedono. Niente pregiudizio né autoflagellazione. Alla riscossa, terroni!

Patruno ha una scrittura facilmente comprensibile e accattivante. Il suo è un parlare franco e diretto, che arriva subito al cuore dei problemi senza inutili circonvoluzioni. Come ogni buon giornalista dovrebbe fare. E Patruno è un grande giornalista. I tantissimi premi ricevuti lo testimoniano.

Il Sud continua ad essere Sud perché nessuno si «incazza nero» con se stesso e con gli altri. Gli interventi straordinari degli anni passati per il Mezzogiorno sono convenuti a tutti. Ma a rimanerne più fregato è stato sempre il Mezzogiorno. I soldi arrivavano al Sud per consentirgli di acquistare i prodotti del Nord. Così si è creato al Sud un popolo più consumatore che produttore. Nei fatti la Cassa per il Mezzogiorno fu soprattutto la Cassa per il Settentrione.

Dal 1861 in poi, non c’è stata decisione presa dai vari governi che non sia servita principalmente agli interessi del Nord e non a quelli del Sud. L’industria meridionale è stata abbandonata e lasciata crollare. Anche l’agricoltura meridionale è stata distrutta. Sono state distrutte le banche, tutte le grandi banche sono scomparse dal Sud.

Gli industriali settentrionali, sfruttando i contributi, scendevano nel meridione ad aprire fabbriche, chiudendo poi dopo aver incassato i soldi. Al Sud non rimanevano né fabbriche né soldi. Quelle che sopravvivono hanno le sedi legali al Nord, dove vengono pagate le tasse. Ancora soldi del Sud trafugati da quelli del Nord.

In tempi più recenti gli incentivi europei per le aree depresse meridionali vengono dirottati al Nord. Parlamentari e ministri meridionali non si accorgono di questo imbroglio, o comunque non lo denunciano; sono meridionali soltanto per l’anagrafe.

La Puglia è in vendita. Una società di Brescia ha comprato 22 ettari di terreno a Maruggio, dove produrrà vini pregiati: Primitivo del Salento e Rosso di Puglia. Una grossa società immobiliare americana ha acquistato tre grandi edifici a Bari. Stranieri di ogni parte del mondo calano in Puglia per comprarsi masserie, trulli, appezzamenti di terreni. Big della finanza, dell’industria, dello spettacolo, della medicina si recintano, qui in Puglia, pezzetti di paradiso.

Le più prelibate terre pugliesi del vino sono ormai in mani venete. Il latte di Gioia del Colle è diventato emiliano. I pomodori del Tavoliere campani. Siamo inondati da prezzemolo cinese. Con etichette olandesi, vengono vendute a noi stessi le nostre insalate. I profitti, che prima rimanevano da noi, ora se li portano via. Le tasse, che prima venivano pagate qui, ora vengono pagate altrove. E noi meridionali diventiamo sempre più poveri.

E continuiamo sempre ad avere pazienza. Sarebbe ora di cominciare ad incazzarci un po’, dice Patruno. Con noi stessi che non riusciamo a trattenere i nostri soldi qui. Con gli altri che ce li portano via.
La Puglia deve imparare a sfruttare la sua migliore risorsa: il turismo, che è natura, cultura, trasporti, edilizia, gastronomia, agricoltura, allevamento, divertimento, feste popolari, musica, mondanità, moda, commercio, ospitalità, mistero.

Ma ci stanno rubando anche l’anima della Puglia, scrive Patruno. Spiantano clandestinamente secolari alberi di ulivo per trapiantarli in lussuose ville del Nord. Smontano pietra su pietra i nostri muretti a secco per ricostruirli su da loro. Ed a questo proposito ecco, a mo’ d’esempio, un poetico brano della scrittura di Patruno: «Questa tenera Puglia capace di senso in una vita senza più senso, questa Puglia di pastelli all’ombra dell’alluvione di luce, questa Puglia indorata di vite e fertile di zolle come un grembo di donna, questa la Puglia che pezzo pezzo ci portano via. Qui spunta il sortilegio delle masserie ricche come regge e arcigne come fortezze, qui acquietano gli ocra delle case contadine, qui riposano dimore padronali che hanno visto e fatto la storia. Ed è qui che si svolge la grande mattanza di mensole e altari, di pozzi e capitelli, scalinate e ringhiere, portali ed edicole, mangiatoie e abbeveratoi, tetti e caminetti, comignoli e tegole, fontanine e pinnacoli, maschere e macine, trappeti e norie, campanili e grondaie, statue e ceramiche, infissi e araldiche. Qui la Puglia viene svuotata della sua cultura».

I giovani devono inventarsi nuovi lavori e rimanere qui. La «meglio gioventù» non deve più abbandonare la sua terra. Senza più figli che tramandano i padri – scrive Patruno – muore un mondo, un piccolo grande mondo antico.

Ultima trappola per il Sud è il federalismo che Bossi ci vuole imporre. Le spese non diminuiranno, come si vuol far credere, anzi aumenteranno, perché verranno creati nuovi enti inutili e doppioni degli esistenti. E per mantenerli aumenteranno le tasse.

La Puglia non ha bisogno di federalismo fiscale, ha bisogno che gli utili di quanto viene prodotto sul suo territorio rimanga in Puglia. L’Ilva di Taranto è il più grande impianto siderurgico d’Europa, Bari e Brindisi ospitano due fra i più grandi gruppi farmaceutici mondiali: Serono Merck e Sanofi Aventis, a Bari vi è il più grande distretto industriale italiano per componenti di motori per auto, con gli impianti Bosch, Firestone, Getrag, Magneti Marelli, Graziano Trasmissioni, Skf, Brindisi ha la più grande centrale termoelettrica dell’Enel, Taranto ha la più grande fabbrica d’Italia di pale per l’eolico, Foggia ha un grande stabilimento per la manutenzione di materiale rotabile, a Foggia vi sono gli allevamenti Amadori, a Lecce il tabacchificio della British American Tabacco, ancora a Foggia l’Istituto Poligrafico e la Zecca dello Stato.
Se tutte le tasse che vengono pagate per questi impianti rimanessero in Puglia, non saremmo più Sud.

La battaglia affinché queste tasse restino qui dovrebbe vederci tutti uniti. Si può essere di destra o di sinistra, – scrive Patruno – ma il Sud è anzitutto Sud, un’unica regione con interessi unici.

Alla riscossa, terroni!

Lino Patruno, Alla riscossa terroni. Perché il Sud non è diventato ricco. Il caso Puglia, Manni editore, San Cesario di Lecce 2008, pp. 176, € 15,00

http://www.ondadelsud.it/?p=3094

martedì 1 novembre 2011

Grandi donne del sud: Trotula de Ruggiero

La più famosa delle "Mulieres Salernitanae", ovvero le "Dame della Scuola Medica Salernitana", fu senza alcun dubbio Trotula De Ruggiero, qui studiò e insegnò, fu l'antesignana delle teorie della prevenzione e dell'igiene personale. Pubblicò molti trattati di medicina nei quali si evidenziano le ampie cognizioni nell’ambito della dermatologia, ginecologia ed ostetricia. La De Ruggiero è giustamente collocata nel panorama medievale delle donne attive in in campo medico, e la sua peculiarietà è dovuta al fatto di aver trascritto il proprio scibile, affidandolo sul piano di un sapere tramandabile alle generazioni successive.

Contemporaneamente al declino della medicina classica romana, in Italia si evidenzia un’espansione dell’attività medica femminile. Inizialmente queste pratiche sono affidate in particolare alle schiave e alle assistenti levatrici che erano le uniche donne che potevano essere in contato con i malati non esistendo in pratica le infermiere che giunsero in seguito. In un mondo con caratteristiche patriarcali, questa apertura verso l’universo femminile, permise ad alcune ragazze nobili e agiate di poter acquisire una rudimentale educazione teorica per diventare medichesse o guaritrici e quindi una relativa autonomia. La vita monastica contribuì non poco a dare la possibilità alle donne di studiare veramente e, in questo modo di acquisire potere sociale e politico.

Trotula visse intorno al 1050 a Salerno, allora città aperta e cosmopolita e fortemente impegnata agli scambi economici e culturali con tutta la fascia Mediterranea.

Discendeva dall’antico casato dei "De Ruggiero" ed ebbe la possibilità di studiare grazie alla posizione agiata del suo casato, divenne scienziata, scrittrice, medico e infine insegnante di medicina, di chirurgia e di ostetricia. Dei suoi studi e delle sue opere non vi è testimonianza diretta ma solo appunti che annotano in tal senso..

Verso la fine dell’XI secolo si ebbe una forte riorgnizzazione della "Scuola Medica Salernitana" e Trotula oltre a insegnare lavorò alla stesura dell'enciclopedia medica "Pratica Brevis" con il marito Giovanni Plateo Il Giovane e ai figli.

Antesignana delle moderne teorie salutistiche, Trotula poneva la prevenzione come aspetto fondamentale della salute e cosa assolutamente nuova per il suo tempo, sottolineava l’importanza che l’igiene, l’alimentazione equilibrata e l’attività fisica hanno per il mantenimento della salute. Avversa alle pratiche medioevali che tendevano alla magia o a litanie religiose, in caso di malattia proponeva oltre ai medicinali comuni, bagni, massaggi e trattamenti dolci diversamente dalle pratiche in uso a quel tempo, i suoi consigli erano di facile applicazione e accessibili anche alle persone più povere.

Esperta ginecologa, le sue conoscenze erano eccezionali e la sua esperienza permise a molte donne di portare a termine gravidanze difficili, inoltre i suoi studi la portarono a nuove scoperte nel campo dell'ostetricia e delle malattie sessuali.

Si impegnò nella ricerca di nuovi metodi per un parto meno doloroso e per il controllo delle nascite, lavorò molto nella comprensione dei meccanismi dell'infertilità entrando in contrasto con le teorie mediche dell'epoca che considerava le sole donne la causa.

Parte del suo scibile fu pubblicato nella sua opera maggiormente conosciuta, il De passionibus Mulierum Curandarum (Sulle malattie delle donne), conosciuto meglio col nome di Trotula Major, mentre il Trotula Minor era il trattato sulle malattie della pelle, il De Ornatu Mulierum (Sui cosmetici) formulati nel latino medioevale in uso al tempo e, in special modo il primo era rivolto alle donne perchè non confidavano i loro disturbi agli uomini per pudore.

Era una profonda conoscitrice degli insegnamenti di Ippocate di Kos e di Claudio Galeno, nelle sue diagnosi erano continui i riferimenti a questi medici del passato nell'azione dell'antica concezione della natura che legava le caratteristiche della persona al cosmo.

Trotula fu quindi una degli esponenti della più grande istituzione culturale del medioevo, la Scuola Medica Salernitana che ebbe dalla sua anche il fatto di non essere controllata dalla Chiesa considerata la prima Università d’Europa (università è un termine moderno per indicare il grado di istruzione superiore in quanto il termine al tempo indicava Municipio, città), A Salerno si iniziarono a tradurre le trascrizioni arabe dei testi medici degli antichi scienziati greci rendendoli nuovamente accessibili agli studiosi occidentali e ancora testi di medici arabi, medio-orientali e di qualunque altra cultura conosciuta.

Ci si è avvalsi delle conoscenze di trotula fino al XIX secolo quando alcuni storici tra cui il tedesco Karl Sudhoff negarono la possibilità che a redigere un'opera così importante fosse stata una donna e ne cancellarono la presenza dalla storia della medicina. Il riscatto per la studiosa salernitana avvenne alla fine dell'800 da parte di storici italiani che incontestabilmente attribuirono a Trotula la paternità (in questo caso maternità) delle Mulieres Salernitanae.

A dispetto di Sudhoff e della sua schiera, a Napoli nel 1840 in onore di Trotula fu coniata una pregevole medaglia in bronzo di cui un esemplare è conservato nel museo provinciale di Salerno.

fonte: http://duesicilieoggi.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=419%3Agrandi-donne-del-sud-trotula-de-ruggiero&catid=36%3Acenni-storici&Itemid=38

venerdì 28 ottobre 2011

28 OTTOBRE BUON COMPLEANNO MICHELINA


Michelina De Cesare


OGGI 28 OTTOBRE RICADE IL COMPLEANNO 
DI MICHELINA DE CESARE,
EMBLEMA DELLA RESISTENZA DEI
NOSTRI ANTENATI CONTRO L'INVASORE
PIEMONTESE
Michelina: L'eroina del Sud


di Valentino Romano
Da Le Brigantesse, donne guerrigliere contro la conquista del Sud, Controcorrente, Napoli, 2007 ....nacque a Caspoli, frazione del comune di Mignano, il 28 ottobre 1841.Si sarebbe sposata giovanissima con Rocco Tanga, un contadino suo compaesano, morto nel 1862.Ormai vedova, ebbe modo di conoscere
Francesco Guerra che sposò solo in chiesa. Il Guerra (nato a Mignano il 12 ottobre 1836) era un ex sergente dell’esercito borbonico, aveva partecipato alle battaglie del Volturno. Nel 1860: scioltosi l’esercito e – richiamato alle armi sotto l’esercito piemontese – aveva preferito darsi alla macchia, aggregandosi alle formazioni banditesche che agivano nei dintorni del suo paese; in particolare fece parte della banda di Domenicangelo Cecchino, alias Ravanello di Roccamandolfi; morto costui nel settembre del 1861,

Francesco Guerra assunse il comando della banda, unendosi a varie altre tra le quali giova ricordare quelle di Michele Marino di Cervinara, di Alessandro Pace, di Domenico Fuoco e di Giacomo Ciccone. Innumerevoli furono gli attacchi, le grassazioni e gli scontri con la truppa che videro protagonista - fino alla sua uccisione, avvenuta nel 1868 -  Guerra con i suoi alleati.  Michelina, come sostiene il brigante Ercolino Rasti, nel 1863 “si diè al brigantaggio perché scoverta manutengola”. Da allora seguì il suo uomo, partecipando attivamente a tutte le azioni della banda.

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Dice, ad esempio, il brigante Domenico Compagnone, detenuto nel carcere di Gaeta: […] E siam rimasti per un giorno nascosti in un campo di grano poco lontano dalla taverna Delle Torricelle, dal quale luogo: Domenico Fuoco, Francesco Guerra, Michelina De Cesare, moglie di quest’ultimo, la quale sta colla banda vestita da uomo, e il fratello di questa per nome Domenico ci portarono nella taverna e colà mangiarono e bevettero[…]. 

L’episodio, conclusosi con l’uccisione di un caporale della guardia Nazionale, dà la possibilità di provare la partecipazione diretta di Michelina alle azioni della banda e ci offre due interessanti considerazioni: la prima - abbastanza scontata per le donne del brigantaggio - è che la brigantessa se ne andava in giro in abiti maschili; la seconda merita, invece, maggiore attenzione. Michelina viene indicata come la “moglie” del brigante Guerra. Ciò, se da un lato, conferma quanto scritto da alcuni autori circa un ipotetico matrimonio religioso celebrato nella chiesetta di Galluccio e non registrato, per altro verso fa riflettere sulla partigianeria degli storici filopiemontesi che non si sono fatti scrupolo di sottacere del tutto tale circostanza e hanno continuato a  definire la brigantessa con il solito appellativo di “druda”(prostituta in piemontese).

Interessante è anche il riferimento alla presenza del fratello di Michelina, di quel Domenico che tanta parte sembra aver poi avuto nella fine della banda e della sorella e che Compagnone descrive di “statura media, capelli neri, occhi simili, naso lungo, bocca snella.

Il brigante aggiunge anche  che Domenico Di Cesare  “fa parte della banda da 4 anni”: ciò può servire a spiegare circostanze e tempi dell’incontro tra Michelina e Francesco Guerra.

Il brigante Angiolo Cerullo, dal canto suo, precisa che: “[…] la druda di Guerra si chiama Michelina De Cesari di Caspoli, ha un fratello brigante e una sorella brigantessa che stanno con Guerra, ha un’altra sorella maritata in Caspoli, la quale dimora in una masseria in faccia alla ferrovia in contrada Casa Selva e la stessa somministra viveri ai briganti”. Si ha conferma della presenza del fratello di Michelina, ma viene introdotta la novità di una sorella “brigantessa” e di un’altra manutengola. Mentre di quest’ultima si trova traccia anche in altre processure, della prima non vi sono ulteriori notizie. L’indicazione appare non attendibile e dovuta probabilmente alle scarse conoscenze del brigante, che potrebbe aver fatto confusione con l’altra donna della banda, Nicolina Iaconelli, compagna di Domenico Fuoco.Nell’interrogatorio di Domenico Compagnone viene anche precisato in modo inequivocabile il ruolo di Michelina nell’organizzazione militare della banda: […]la banda è composta in tutto da 21 individui, comprese le 2 donne che stanno assieme a Fuoco e Guerra, delle quali quella di Guerra è anch’essa  armata di fucili a due colpi e di pistola. Della banda [solo] i capi sono armati di fucili a due colpi e di pistole, ad eccezione dei due capi suddetti che tengono il revolvers ”. Michelina Di Cesare non fu, dunque, una delle tante donne dei briganti, fu una brigantessa a tutti gli effetti, anzi uno dei capi della formazione, dal momento che girava armata come loro.

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La tattica spesso adottata dalla banda di Francesco Guerra fu quella della guerriglia. Il capobrigante – pare su suggerimento proprio di Michelina - ricorreva ad efficaci espedienti per annullare sul campo la soverchiante superiorità delle forze di polizia: leggendario è divenuto, per esempio, l’attacco al paese di Galluccio, nel corso del quale i briganti si travestirono da carabinieri che conducevano in arresto alcuni briganti: gli uomini della formazione di Guerra, una volta intercettati, si disperdevano singolarmente in varie direzioni, per poi riunirsi in un punto prestabilito: con tali sistemi ebbero a lungo facile gioco delle truppe  che si spostavano più lentamente e in massa.
Si arrivò così all’agosto del 1868, allorché il generale Pallavicini riuscì a convincere la maggior parte dei proprietari di Mignano, Galluccio e Roccamonfina a collaborare servendosi anche di delatori prezzolati: pur di ottenerne l’aiuto. Pallavicini si spinse a minacciare lo stato d’assedio di quei paesi e la deportazione in massa degli abitanti.
Il ricatto sortì gli effetti sperati: un massaro di Mignano informò la Guardia Nazionale del suo paese della presenza della banda Guerra nei pressi della sua masseria, ai piedi del monte Morrone di Mignano; militi della G.N. e truppe del 27° Rgt. Fanteria partirono immediatamente alla volta della masseria.

Ecco come un rapporto del Comando Generale delle Truppe per la repressione del Brigantaggio nelle province di Terra di Lavoro, Aquila, Molise e Benevento descrive l’accaduto:    “[…] Erano le 10 di sera, pioveva a dirotto ed un violentissimo temporale accompagnato da forte vento, da tuoni e da lampi, favoriva maggiormente l'operazione, permettendo ai soldati di potersi avvicinare inosservati al luogo sospetto; da qualche tempo si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si perdeva la speranza di rinvenire i briganti, quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona.

Fu buona la sua ispirazione, perché fatti pochi passi, e splendendo in quel momento un vivo lampo, scorse appoggiati ad una di quelle querce due briganti, che protetti un po' dalla cavità dell'albero ed anche da un ombrello alla paesana che uno di loro reggeva, cercavano ripararsi dalla pioggia.
Appena scortili, la guida li additò al Capitano Cazzaniga, che presso di lui veniva con qualche soldato appena; il bravo Capitano non frappone indugio, non cerca di far fuoco, ma sbarazzato anche del fucile che teneva, con un salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo, lo stramazza al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a corpo, finche venne dato ad un soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere.
Pare che uno dei proiettili (giacché il fucile era stato caricato a pallettoni), passando attraverso il petto del brigante andasse a colpire nel dito pollice della mano sinistra del Capitano, che avvinghiatolo con entrambe le braccia, gli impediva qualunque tentativo di fuga.
Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed il compagno che con lui s'intratteneva, appena visto l'attacco, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s'imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato.



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 Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina De Cesare druda del Guerra. Poco distante vari soldati con qualche Carabiniere s'incontravano con altri due briganti pure appoggiati ad un albero; attaccati risolutamente ne cadeva subito ucciso uno, che poi riconosciuto per Orsi Francesco di Letino; l'altro poté sfuggire, ma inseguito da vicino da un Carabiniere, s'ebbe una prima ferita, finche capitato negli agguati di altra pattuglia, cadde anch'egli colpito da due colpi di revolver sparatigli a brevissima distanza dal Sottotenente Ranieri.

Anche questo brigante venne poi riconosciuto per Giacomo Ciccone, già capo-banda ed ora unitosi al Guerra; fece uso delle sue armi quando si vide scoperto, e dotato di una forza erculea, oppose la più accanita resistenza tentando di aprirsi un varco frammezzo ai soldati.

Altri tre briganti che stavano un po' più lungi dai due gruppi menzionati, poterono al primo rumore salvarsi gettandosi nei burroni in quella località cosi frequenti.
Due di costoro si sono già presentati, per cui si può con tutta certezza affermare che di tutta la banda Guerra, non n'e rimasto che uno solo[...]”. Sostanzialmente uguale è la descrizione dell’accaduto che ne fa Gelli, il quale però si sofferma sul ruolo di Michelina Di Cesare nell’ultimo combattimento: “[…] la banda accerchiata da reparti del 27° Fanteria e da Carabinieri sul Monte Morrone, al comando di quell’anima dannata della Michelina tenne testa all’attacco e solo si disperse quando, colpito da una palla, penetratagli nel cervello dallo zigomo destro, il capobanda Guerra cadde riverso e, poco dopo, accanto al corpo suo e a quello del brigante Tulipano, a cui una fucilata aveva asportato metà della testa, cadde anche la Michelina.
La donna aveva combattuto come una leonessa.  Il giorno appresso i cadaveri dei briganti caduti e di Michelina vennero esposti nella piazza di Mignano, guardati da soldati armati.

Si vuole che il generale Pallavicini, felice per il risultato ottenuto, alla loro vista avesse esclamato: “ecco i merli, li abbiamo presi”.Il corpo di Michelina fu denudato, in segno di estremo oltraggio, e fotografato.

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Nello scempio fissato dall’immagine impietosa  si intravede, non la rabbia per la personale sconfitta, ma il marchio indelebile della sofferenza, del dolore e dei patimenti di un popolo; vi è registrato tutto ciò, sol che si voglia “leggere” la foto con animo pacato e mente sgombra da preconcetti.

Forse anche per questo le immagini di Michelina, da viva prima e da morta poi, sono diventate l’emblema del brigantaggio meridionale: in esse si colgono fierezza e dolore, i sentimenti distintivi di un popolo oppresso,

Chi ha inteso immortalare - con Michelina  uccisa e oltraggiata - la sconfitta di una ribelle e del suo popolo l’ha consegnata, invece, alla leggenda.


Tributo di Eugenio Bennato all'eroina:" Il sorriso di Michela".