LE VIE DELLA MISERIA
Penso al “Mammone” quando alle prime luci dell’alba ci immergiamo nel silenzio del bosco diretti alle Fosse Pasqualetti, luogo solitario e misterioso ancora oggi, sul versante che il Monte Sirente affaccia sull’abitato di Gagliano Aterno. Al pari di “Gasparoni”, “Fra Diavolo”, “Marco Sciarra” e tante altre figure di briganti vissute a cavallo tra il XVI e il XIX secolo, il suo nome è passato alla leggenda al punto da divenire messaggio subliminale di terrore e deterrente per più generazioni di bambini capricciosi: -”Mo’ vién’ Mammone!”-, come a voler dire “adesso viene l’orco che ti mangia!” o “viene il lupo cattivo!”. Più verosimilmente Gaetano Mammone, macellaio di Sora, fu uno dei tanti “capimassa” che guidarono l’insurrezione contro i francesi della Repubblica Partenopea: eroe per la tradizione popolare, vile bandito per la storia patria. Qui sulla montagna del Sirente, come su tutto l’Appennino centromeridionale, sono transitati molti altri briganti; personaggi oscuri, di cui si conoscono solo le efferatezze commesse, perché raccontate con dovizia di particolari solo da chi dava loro una caccia feroce, che inevitabilmente si concludeva con la morte del brigante. Qualcuno è sopravvissuto abbastanza per far parlare di se, emergendo così dall’orda anonima; autentiche primule rosse per l’esercito sabaudo, spine nel fianco di un’altrettanta vendicativa e spietata Guardia Nazionale. A nessuno di loro è stato dato il tempo o l’opportunità di spiegare le proprie “ragioni”, tantomeno di scrivere memorie!
Le storie dei briganti sono tutt’uno con quelle di fame e miseria che le popolazioni di un territorio esteso quanto metà della penisola, hanno sopportato per secoli e il cui retaggio di arretratezza è ancora sotto i nostri occhi. Le cronache del brigantaggio si intrecciano con le vicende dei ceti più umili: pastori, carbonai, contadini; sono le storie dolorose di queste montagne, di questi paesi, di tante genti vissute fino a ieri e la cui eco risuona ancora tra i solitari valloni e le creste boscose che chiudono l’orizzonte di queste terre aspre.
A spingermi in queste contrade oggi è un senso di grande solidarietà, per quegli uomini che le vicende disgraziate della storia hanno relegato in un mondo di ombra, a cui neanche la pietà dei vivi per i perdenti è concessa. La figura del brigante nei secoli, ha calamitato i risentimenti di una società che spesso scrive le proprie verità con il sangue dei vinti, scaricando sui ceti più deboli tutte le paure ancestrali e i mali che l’ipocrisia dell’Uomo, non riuscendo a eliminare, cerca di occultare. Un’emancipazione sociale unilaterale la nostra, che lascia il mondo diviso in ricchi e diseredati, in potenti ed oppressi, in Nord e Sud. “Terre del finimondo” queste ultime, per dirla con Jorge Amado, dove la storia dei potenti ha lasciato nei secoli una scia di sangue e di sventure, pagate sempre da chi non è padrone neanche della propria vita. Penso a Héctor Chacón per esempio, del libro “Redoble por Rancas” e alle lotte disperate dei braccianti peruviani negli anni ‘50 di questo secolo: inutili sussulti di una classe senza futuro che in tutti i Sud del mondo ha pagato a caro prezzo l’illusione di un riscatto sociale. Ad accomunare peones, campesiños, mugiki e cafoni, nel corso dei secoli e in ogni parte del globo, sarà un semplice gesto: quello di abbassare la testa.
LE VIE DELLA MISERIA
Giuseppe, l’anziano taglialegna che mi guida in questa selva, non porta “ciocie” ai piedi, né orecchini, ma tra i suoi avi conta sicuramente qualche brigante, come d’altronde quasi tutte le famiglie in questi paesi di montagna. Basta scorrere i lunghissimi elenchi che la Guardia Nazionale, dopo l’Unificazione, andava compilando in ogni comune delle cosiddette “zone militari”, per tenere sotto controllo le persone in “odore di brigantaggio”.
Eppure qui molta gente, la fame l’ha fatta ugualmente, e fino agli anni del dopoguerra, sbarcando il lunario nelle attività più umili e vivendo di ciò che miracolosamente la montagna serbava loro. Facendo questo essi hanno tracciato sui monti una fitta ragnatela di sentieri e mulattiere, a volte esili tracce, che solo i nativi e quant’altri percorrevano queste terre a volte ostili, dove la vita è ancora oggi fortemente legata alla natura, riuscivano a trovare e a seguire. In queste peregrinazioni, durante le attività che permettevano loro di sopravvivere, hanno dato vita a innumerevoli fili di Arianna: le Vie della Miseria, con le quali raggiungere i luoghi più inaccessibili, per mettersi in salvo o per tornare a casa:. Oggi quei fili servono a noi per ripercorrere le tracce di avvenimenti, non troppo lontani nel tempo, di cui però ugualmente abbiamo perso memoria.
La Valle Subequana sotto i Romani aveva acquisito una importanza rilevante, grazie soprattutto alla posizione che occupava rispetto alla viabilità dell’epoca. Nel MedioEvo e poi ancora nel Rinascimento mantenne una felice posizione economica e sociale, anche per un positivo compattamento del territorio, nei feudi prima e nei comuni poi, contro l’ingerenza e l’egemonia della opulenta città dell’Aquila. Autonomia che, mantenuta fino a metà del XIX secolo per via di un forte polo di allevamento ovino e una fitta rete di tratturi esistente tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli, perse in breve tempo per il tramonto della pastorizia e lo smembramento del tessuto sociale causato dell’emigrazione. Decadenza rapida ed incisiva che proiettò i paesi della valle nel pesante isolamento tipico delle aree interne appenniniche.
L’isolamento fino alla metà di questo secolo era totale, quando anche la strada che sale ora dalla valle percorrendo l’altipiano delle Rocche non esisteva e sui pascoli del Sirente si ascendeva direttamente dalle case del paese, con i muli o a piedi. I valichi di montagna restavano ancora gli unici accessi consentiti per il passaggio nella limitrofa Marsica, nell’alta Valle dell’Aterno e nella più urbanizzata Valle Peligna. Negli anni del dopoguerra sulla montagna appenninica si andava ancora e soprattutto per caricare il carbone e la legna, ma sul Sirente c’era un’altra risorsa: il ghiaccio, che si asportava da alcune provvidenziali neviere, accumuli di neve che ancora oggi, grazie all’esposizione e alla quota, resistono per gran parte dell’anno e in alcuni casi sono praticamente perenni. Quando non esisteva ancora il ghiaccio artificiale la neve serviva, specie nei grandi centri, per conservare ogni sorta di alimenti, ma anche nella terapia medica, per abbassare le febbri tifoidee per esempio. Occorrevano sei ore col mulo per andare e tornare dalla montagna e in una settimana spesso si facevano tre, anche quattro di viaggi. Chi possedeva un mulo per il trasporto, perché nessun altro animale poteva fare quei percorsi impervi, alternava quest’attività ad altre, come il taglio della legna o il lavoro su piccoli appezzamenti di terra. -”Si partiva di notte, anche in segreto, perché si rubava il lavoro ad un altro: la povertà e le poche risorse della montagna mettevano le famiglie le une contro le altre. Era la Miseria. (...) Nel Paese c’era tanta concorrenza tra le famiglie per la neve, come per il taglio del bosco ed altri mestieri. Solo con la neve, a Secinaro, non si poteva vivere.”- (1). Il comune provvedeva all’appalto per la raccolta e poi al trasporto della neve, che si effettuava con squadre di mulattieri attraverso i tratturi, a Roma e fino alle Puglie. I mestieri più diffusi nei paesi a ridosso della montagna erano quelli del carbonaio, del tagliatore di legna, degli operai addetti alla lavorazione della calce, degli artigiani del legno. Questi ultimi che producevano aratri, rastrelli, basti per muli, spesse volte erano costretti ad agire di nascosto alle guardie del Corpo Forestale: andavano in montagna a raccogliere particolari piante di faggio che per le loro caratteristiche crescevano solo in alcune zone del bosco non soggette al taglio. L’economia dei paesi si reggeva quasi esclusivamente sul bosco. La legna era venduta in tutti i paesi della Val Pescara, della Marsica, dell’Aquilano, soprattutto in occasione delle fiere annuali. Chi aveva i muli era fortunato, trasportava la legna per conto terzi e vedeva qualche lira in più. Con i cavalli e i muli si facevano tutte le attività agricole, i lavori in montagna e i trasporti di merci e derrate varie. Gli altri, specialmente i carbonai, guadagnavano meno: passavano un’intera stagione nel bosco, dentro baracche appositamente costruite, dove spesso abitavano con l’intera famiglia. Si dormiva insieme alla legna, alle frasche e agli animali, su semplici sacchi di paglia. Mangiavano essenzialmente polenta e una piccola capra forniva il latte ai bambini. Alle donne toccava ugualmente una giornata massacrante. Per raccogliere la legna secca partivano di notte in piccoli gruppi e tornavano la mattina, dopo aver girato tutta la montagna con le fascine sulla testa. Senza riposare, spesso lasciando i figli piccoli, partivano di nuovo per attingere l’acqua che, specie a Secinaro era poca e per attingerla le donne scendevano con le conche nei paesi più a valle. -”l’acqua si imprestava,-racconta un’anziana donna- si misurava con il coppino e poi si restituiva; era preziosa. Anche il fuoco si prestava. Dicevano “dammi una paletta di brace”. Per non far consumare la legna, si metteva dentro il camino solo con le punte, per risparmiare”- (1).
C’era poi chi integrava i magri bilanci familiari con la raccolta di altri prodotti del bosco: fragole, noci, funghi, che arrivavano fin sulle tavole dei ristoranti della capitale. La belladonna veniva raccolta per farne medicinali, la genziana e altre erbe officinali per i liquori. Le viole servivano alla produzione dei profumi. Le donne soprattutto, ma anche i bambini, raccoglievano di tutto, per vendere o barattare. Le frasche per il fuoco ad esempio venivano barattate con le patate, le lenticchie e le fave nei paesi del Fucino, ma era un lavoro estenuante, per guadagnare alfine solo un tozzo di pane. Dopo la raccolta delle frasche nel bosco, bisognava girare per i paesi e vendere le fascine; si faceva ritorno al tramonto. Chi lavorava nel bosco, non dormiva mai!
Tutta la popolazione viveva della montagna, eccetto pochi notabili: il medico, il curato, il notaio, il capitano, il funzionario, il magistrato. Terra da coltivare non c’è n’era e chi non c’è la faceva proprio a tirare avanti andava a Roma o a Milano, a fare il lavapiatti, la cameriera, la cucitrice, l’ombrellaio. Quelli destinati oltreoceano erano già partiti con le prime migrazioni d’inizio secolo.
Era tanta la miseria! Ma la fame di un altro essere superava forse in quegli anni quella degli uomini: il lupo. Fino al 1950 i branchi entravano di notte nei paesi. Sentivano da lontano l’odore degli animali, ed in montagna girovagavano irrequieti nel bosco intorno agli accampamenti degli operai. Per chi percorreva la montagna negli angoli più appartati, nei boschi e nei valloni solitari, l’incontro con questo animale era abituale: -”in montagna si andava anche di notte, per la fame tagliavamo la legna di nascosto e si sentiva l’ululato, sempre.”- (1), raccontano i protagonisti. Il numero dei lupi, destinato poi a calare vertiginosamente, in equilibrio con la fauna selvatica e soprattutto con le mandrie di bovini e le greggi al pascolo, era in quegli anni elevato. Solo la fame, specie d’inverno, poteva spingere questo animale, altrimenti schivo e riservato, ad avvicinare l’uomo. Ma per le popolazioni di montagna il lupo era pari al brigante, perché uccidendo gli animali domestici toglieva al pastore quel poco che aveva. Era una contesa accanita quella tra l’uomo e il lupo in queste contrade, una caccia feroce come quella tra il carabiniere e il brigante.
In fondo sia il brigante che il lupo vivevano ai margini della società, entrambi esseri al limite della sopravvivenza. Chi ammazzava un lupo veniva per questo ricompensato, con piccole offerte di cibo: pane, fagioli e anche formaggio.
Con la schiena rotta dalla fatica e lo stomaco roso dal morso della fame, nel buio e nel silenzio misterioso della selva, si raccontavano vecchie storie e di nuove ne nascevano: racconti intrisi di timore e superstizione tramandati da madre in figlia, leggende i cui soggetti giravano invariabilmente intorno a figure di streghe, fantasmi, lupi e, naturalmente, briganti.
Tutto questo accadeva solo pochi anni fa, al temine della seconda guerra mondiale, ed era tutto come un secolo prima -soprattutto la miseria-, quando giovani senza futuro, braccianti, boscaioli, pastori s’illusero fosse arrivato il momento del riscatto da una vita grama e disgraziata, la rivincita contro i torti e le angherie subite ad opera dei “galantuomini”, borghesi e notabili, che spartivano e regolavano la vita sociale ed economica dei paesi e del Meridione d’Italia.
Il fenomeno, che infiammò per ben dieci anni le terre a sud dello Stato Pontificio, propagandosi dagli Abruzzi, alla Campania, dalla Puglia alla Calabria, passando per la Basilicata, fu bollato come mera attività di bande criminali e passò alla storia come Brigantaggio Post-Unitario.
Fu l’illusione breve di un’avventura amara che coinvolse tutti: uomini, donne, bambini di ogni età e ceto sociale; una vicenda lunga e terribile conclusasi drammaticamente!
LE CIFRE DI UNA TRAGEDIA
Un esercito di 120.000 uomini, tra Fanteria, Bersaglieri, Cavalleggeri e Reali Carabinieri, quello impiegato dal governo Cavour e successivi nella repressione del brigantaggio, oltre a decine di migliaia di Guardie Nazionali, inquadrate in milizie volontarie, reclutate in quasi tutti i comuni interessati dal fenomeno.
Impossibile invece accertare quanti uomini componessero l’insieme delle “masse” contadine che dal ‘61 al ‘63 presero parte ai fatti della “reazione” e negli anni successivi dedite ad azioni delittuose e di mera sopravvivenza. E’ stato ricostruito attraverso i documenti il numero che costituì in seguito le singole bande, ma quest’operazione appare inattendibile se si pensa che gli effettivi delle stesse si rinnovavano continuamente e che molto spesso i loro ranghi davano origine a fusioni e disgregazioni continue. E poi nessuno aveva interesse a tenere il conto di quanti briganti venissero uccisi nei combattimenti o sottoposti a sommarie esecuzioni dopo gli scontri. -”Dal mese di maggio 1861 al mese di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso 7151 briganti. Non so niente altro e non posso dire niente altro.”-(2).
Così si esprimeva il Gen. La Marmora, celebre “eroe del Risorgimento Italiano”, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio. Appare invece approssimativa per difetto la cifra di 14.000 “briganti” uccisi in combattimento, fatti prigionieri e condannati ai lavori forzati, ma soprattutto “passati per le armi” dopo la cattura, fino a tutto il 1870, data della fine delle operazioni.
-”Cercheremo di vincere gli ostacoli con le buone, -tuonava Cavour in Parlamento- se ciò non giova li vinceremo con mezzi estremi. (...) Finché avremo un voto di maggioranza ed un battaglione non cederemo un palmo”-(3).
I generali che si succedettero al comando delle truppe, i vari Pallavicini, Pinelli, Cialdini, Govone, eseguirono con zelo: decretarono lo stato di guerra nelle province infestate dai briganti. Nel 1861, nel pieno vigore delle sommosse popolari appoggiate dalla Chiesa e dai Borboni, il Gen. Enrico della Rocca consigliò -”che non si perdesse tempo a fare prigionieri!”-; così negli anni successivi, fu la caccia all’uomo, il massacro indiscriminato. Un esempio per tutti la fucilazione degli insorti di Scurcola Marsicana in Abruzzo: dove il 19 gennaio 1861 vennero scovati casa per casa e sommariamente giustiziati tutti gli sbandati e i borbonici insorti. Le cifre fornite da alcuni storici oscillano da 89 a 130 cadaveri, ma non si ebbe mai il numero ufficiale o l’identità delle vittime. Nessuno è stato mai sollecito a divulgare la verità sull’operato dell’esercito durante la repressione del brigantaggio. I parlamentari che insistentemente chiedevano ragione al governo, oscillavano essi stessi tra la reticenza e la vergogna.
E’ storicamente accertato che la logica che muoveva l’operato dei Piemontesi era esclusivamente di tipo militare, quindi di repressione; una logica ferrea e senza compromessi, la sola in grado di dare risultati e “bonificare” così le marche del sud infestate dalle bande di “ladri, criminali e assassini”.
E’ chiaro che la tendenza dei quadri dell’esercito fosse quella di vedere anche nella popolazione inerme un potenziale nemico, fiancheggiatrice di briganti, depravata essa stessa.
Ecco come un ufficiale vede le genti del sud:
-”...qui siamo tra una popolazione che, sebbene in Italia e nata Italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, (...) epperciò non è d’uopo parlar qui di cose che non sono nemmeno accessibili alla loro intelligenza. Qui dunque (...) odio e livore, libidine di potere e di vendetta, qui invidia, qui tutte le più basse e vili passioni, tutti i vizi i più ributtanti, tutte le più nefande nequizie dell’umana natura.”- (4). In quanto alla truppa, proiettata improvvisamente lontana da casa, tra popolazioni ostili e territori aspri e sconosciuti, gravata essa stessa da disagi e fatiche, reagì a situazioni complesse di cui non capiva il senso, nell’unico modo che conosceva: con ferocia inumana. -”Abitanti dell’Abruzzo Ulteriore -scriveva il Generale Pinelli pochi giorni dopo l’incontro di Teano, in un manifesto affisso sui muri dei paesi della Marsica- ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti. Quattro facinorosi sono già stati passati per le armi: il loro destino vi serva da esempio, perché io sarò inesorabile”- (2).
Fu una serie infinita di ritorsioni a catena che a sangue chiamava altro sangue. Ancora oggi, a Sulmona, sotto il sesto arco dell’acquedotto medievale, si può notare il gancio dove veniva appesa una gabbia con i resti esanimi dei briganti catturati. Ma ovunque in tutte le provincie dell’ex Regno di Napoli i cadaveri dei briganti venivano lasciati marcire per giorni e giorni, a volte smembrati e sanguinanti, come monito alla popolazione.
Delle perdite ingenti da parte dell’esercito, poco si è saputo, ma basti pensare che migliaia di soldati morirono soprattutto per patologie legate alle cattive condizioni igienico-sanitarie, al clima e al forte stress cui erano sottoposti; malaria, tifo e varie malattie infettive mieterono numerose vittime. Secondo le fonti del Ministero della Guerra, nel solo periodo che va dall’ottobre 1863 al settembre 1864 si ebbero 47.510 ricoveri in ospedale, di cui 1.178 decessi per sole febbri. Per quanto riguarda le vittime nelle operazioni di guerra, in 22 mesi dal 1861 al 1863 vengono dichiarati 315 morti tra truppa e ufficiali, 80 feriti e 24 prigionieri. E’ importante confrontare queste cifre con le perdite subite nello stesso periodo dalle bande brigantesche nella sola Basilicata: fucilati 1.038 briganti, 2.413 “uccisi in combattimento” e 2.678 caduti prigionieri.
Un dato molto interessante infine, mai confermato ufficialmente, è quello riguardante le diserzioni frequenti, di chi preferì lasciare i ranghi dell’armata sarda per entrare in quelli delle bande brigantesche. Quello degli sbandati e dei renitenti alla leva, che nei primi anni ‘60 raggiungeva cifre esorbitanti, fu il vero cruccio del nuovo governo. La leva militare obbligatoria imposta all’indomani dell’unificazione era per le famiglie contadine (già gravate da tributi, come la tassa sul macinato) un’ulteriore aggravio al già precario tenore di vita, portando lontano da casa braccia abili al lavoro e quindi fonte di reddito. Per sfuggire alla coscrizione i giovani si davano alla macchia, andando ad ingrossare le fila degli sbandati del disciolto esercito borbonico. Circa 70.000 soldati caduti prigionieri dopo la presa di Gaeta, furono buttati allo sbando. Rinviati a casa laceri ed affamati costituirono in breve nei paesi d’origine un ennesimo problema: un “esercito di bocche da sfamare”. Per sopravvivere furono costretti ad imparare uno dei mestieri più antichi del mondo: quello del ladro. A questa fiumana di sbandati vanno aggiunti inoltre più di 20.000 giovani volontari dell’esercito garibaldino; anch’essi liquidati in fretta e furia da Vittorio Emanuele, dopo che ebbero rischiato la vita per conquistare il Regno delle due Sicilie. Tutti andarono ad accrescere il numero già alto degli operai senza lavoro.
Queste alcune cifre scarne che i governi post-unitari si affrettarono a cancellare dalle cronache, seppellendo frettolosamente i documenti ufficiali tra la polvere degli archivi dei tribunali, delle prefetture e soprattutto dello Stato Maggiore dell’Esercito. Cifre queste, sicuramente parziali ed espresse per difetto, che non rendono appieno l’idea delle vicende che sconvolsero la vita civile del nostro paese all’indomani dell’annessione del Regno di Napoli al nuovo stato unitario, né tantomeno rendono giustizia alla verità storica. Una vera e propria guerra civile dunque, quella che dal 1860 al 1870 impegnò quasi metà dell’intero esercito sabaudo e dove la repressione prese ben presto le sembianze di una delle operazioni militari più lunghe, estenuanti e sanguinose di tutto il Risorgimento italiano. Ma Torino, allora capitale (Firenze lo diventerà nel 1865), era lontana e qualcuno in fondo sperava che la eco di questa carneficina non arrivasse fin li, che il silenzio stemperasse il clamore di ciò che qualcuno si ostinava a considerare semplice recrudescenza del banditismo, ma che il governo, visto gli scarsi risultati dell’intervento armato, per battere fu costretto a promulgare alla fine del 1863 una vera e propria legge di guerra, la Legge Pica che, ironia della sorte, venne promossa proprio da un parlamentare del Sud, appunto Giuseppe Pica dell’Aquila. Fu la carta bianca che permise alle truppe piemontesi e alle milizie volontarie di condurre una vera e propria caccia all’uomo e di infierire sui simpatizzanti, sui familiari e sulle popolazioni in generale.
Tanto o niente si è scritto su questi dieci anni di cronaca italiana, a seconda di come si consideri la faccenda; ma spesso lo si è fatto travisando gli avvenimenti, rispetto a quanto emerge dagli atti di archivio o ignorandoli del tutto sui libri di scuola.
Questi dieci lunghi anni spesso sono stati cancellati tout court, come a voler disconoscere quel profondo malessere e quella tremenda sofferenza in cui versavano le masse popolari del meridione; un rigetto a considerare quell’embrione di lotta di classe che avrebbe rappresentato il fulcro degli avvenimenti italiani e non solo, nel primo scorcio del ventesimo secolo.
Ancora oggi, dopo una parziale riabilitazione delle “ragioni” popolari e della figura del “brigante”, ad opera di una storiografia più illuminata e obiettiva, vedono la luce opere tendenziose e anacronistiche, a cui piace anteporre alle disastrose condizioni sociali ed economiche dell’epoca, la sola cosiddetta “ragion di stato”.
D' altronde dietro gli impulsi di fumoso patriottismo, ipocrita moralità civica e virilità militaresca, che contraddistinguono e infarciscono abbondantemente questi testi, si è pronti sempre a nascondere le stragi, i saccheggi, le brutalità, troppe volte perpetrate con crudeltà e senza discernimento alcuno, da un esercito in fondo sceso in queste terre come i precedenti: la mano forte cioè, di uno stato estraneo e lontano, di cui il popolo nulla conosce, impositore solo di leggi e gabelle come sempre esose e insostenibili.
I governi che hanno assistito alla recrudescenza del brigantaggio -per certi versi endemico-, hanno reagito forse legittimamente al sommovimento sociale, ma con uguale ferocia e brutalità; accomunando insieme sotto il termine spregevole di “brigante”, ufficiali borbonici, ex garibaldini, renitenti alla leva, ma anche legittimisti francesi, spagnoli, tedeschi, manutengoli, criminali comuni e soprattutto braccianti e contadini: un ceto sociale intero questo, i cosiddetti “cafoni”, a cui ancora nessuno riusciva a dare una giusta collocazione in un panorama politico e sociale in forte fibrillazione, ma essenzialmente ancora retto secondo schemi e logiche feudali.
Una Italia voluta fortemente unita, ma solo per una sorta di esigenza estetica; il cancro che divorava le popolazioni del sud sembrava non interessare nessuno anzi, intorno al 1865, con il brigantaggio che non accennava ad affievolirsi ma al contrario si riacutizzava, qualcuno paventò l’idea di abbandonare definitivamente le province meridionali al proprio destino.
L’errore più grosso commesso dai governi del novello stato è stato quello di non voler capire le ragioni complesse che covavano sotto un fenomeno che in fondo era, ed è sempre stato, scontro di classe. Lo sbaglio di rispondere solo militarmente ad una situazione caotica, aggravandola con ulteriori duri provvedimenti (stato d’assedio, coscrizione obbligatoria, caccia indiscriminata a renitenti, sbandati e manutengoli, tribunali militari, nuove tasse), senza mai prendere veramente in considerazione le cause di un conflitto sociale che durava da secoli, misconoscendo quella benedetta”riforma agraria” che da più parti si urlava, condannando di fatto le popolazioni del sud ancora alle angherie e alla miseria, ha regalato all’Italia alcune tra le pagine più amare della sua storia.
Questa tragica vicenda ha avuto come palcoscenico le montagne che vanno dalla Sila al Cicolano, dall’Aspromonte al Matese. Le montagne abruzzesi e molisane hanno continuato a nascondere fino al 1871, data della cattura del brigante Crocitto, alcune tra le bande brigantesche più irriducibili, quando in Puglia, Basilicata e Calabria l’orda era stata ormai già annientata.
Alti e impervi monti ricchi di anfratti, caverne e profondi canyons, coronano un orizzonte sempre frastagliato ed aspro. Coperti di neve per molti mesi l’anno, hanno offerto per secoli un ottimo riparo a banditi e uomini in fuga, ma anche luogo di sopravvivenza e ritiro per pastori ed eremiti. In un territorio privo di strade, spesse volte lontano da grandi insediamenti urbani, i sentieri nel bosco, le sinuose mulattiere che scavalcano le montagne, e che sole permettono l’accesso a chiuse valli e ad alti valichi, hanno rappresentato per i briganti l’unico mezzo per muoversi in fretta e in sicurezza durante le scorrerie o durante la fuga da truppe che con il passare del tempo diventavano sempre più intraprendenti e spietate. A questi uomini non restava altro da fare che tornare ai luoghi selvaggi conosciuti sin dall’infanzia e percorrere ancora una volta le tracce che essi stessi ed altri uomini in passato, comunque in cerca di sopravvivenza, avevano inciso sui fianchi della montagna.
I ”CAFONI”: TANTE PENE, UNA SOLA UTOPIA
-”Lacero e scalzo, curvo e deforme dal disumano lavoro della zappa, il bracciante pugliese nella seconda metà del secolo scorso , e anche oltre, vive in affumicate e luride stamberghe, vere tane di bestie; si nutre ogni giorno di legumi secchi o di erbe, che la sua donna cerca nei sentieri o nei prati. La carne è affatto bandita dal suo desco miserevole, ed anche il pane per lui è un cibo di lusso, sostituito per lo più da una minuta polvere di orzo, ceci e granone abbrustolito, che gli strozza e corrode la gola affamata. E, triste a dirsi, una classe d’ingordi e tracotanti terrieri non solo ne manomette le sudate fatiche, non solo lo insidia nell’onore, seducendone le consorti e le figlie, ma lo cosparge di ludibrio e irride alla sventura, additandolo coi roventi appellativi di “tamarro”, “cafone”, “villano!”- (5). Questa in poche battute la lucida analisi sulle condizioni del bracciante nel Meridione d’Italia fatta da Antonio Lucarelli, storico degli anni ’20, che per altri versi sarà tutt’altro che tenero con la figura del brigante. Egli non fa che riprendere quella più estesa data nel 1863 da Saverio Sipari (ricco proprietario di armenti (!), nonché zio di Benedetto Croce) che recita: -”(...) se non è accasciato (il contadino) dalle febbri dell’aria, con sedici ore di fatica, riarso dal sollione, rivolta a punta la vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piove, e non nevica e non annebbia. Con questi ottantacinque centesimi vegeta esso, il vecchio padre, invalido dalla fatica e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli. Se gli mancano per più giorni gli ottantacinque centesimi il contadino, non possedendo nulla, nemmeno il credito, non avendo che portare all’usuraio o al monte dei pegni, allora vende la merce umana; esausto l’infame mercato, piglia il fucile e strugge, rapina incendia, scanna, stupra, e mangia. (...) Ma il brigantaggio, -conclude l’autore- non è che miseria, miseria estrema, disperata...”- (6).
All’epoca in parlamento non mancarono testimonianze obiettive a “favore” delle popolazioni del sud, e molti deputati dell’ala moderata, tra cui il Massari, si fecero promotori di una relazione tesa ad individuare le ragioni del fenomeno: -“(...) Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle provincie appunto, dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice.”- (7). Ciò non impedì loro, poco dopo, di votare comunque la famigerata Legge Pica, che di fatto passava definitivamente le consegne, per la soluzione del caso, ai militari!
Senza dubbio la situazione di generale arretratezza, di crisi economica e culturale in cui versavano gran parte delle province meridionali dell’ex Regno delle due Sicilie, fu la causa principale del secolare fenomeno di ribellismo. Il brigantaggio post unitario, fomentato dagli avvenimenti politici e cavalcato dagli interessi di una parte delle classi agiate, sostanzialmente fu una questione sociale e agraria, l’insorgenza del contadino oppresso che vedeva nei Galantuomini il proprio oppressore: “la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie”- (7).
...O BRIGANTE O EMIGRANTE
Furono i Francesi di Bonaparte prima e i Giacobini di Murat dopo, che nel 1799 e nel 1810 usarono per la prima volta il termine spregiativo lesBrigands: “banditi”, per indicare le “masse” di insorti contro lo straniero invasore. In quelle occasioni la repressione fu spropositata e di inaudita crudeltà, portata avanti contro tutta la popolazione indiscriminatamente, come era già accaduto in Vandea; ma per la storiografia ufficiale quelle bande di “lazzaroni”che difendevano le loro terre dagli usurpatori che li gravavano di tasse, li spogliavano dei magri averi e li angariavano in tutti i modi, erano e rimasero briganti. I cartelli con la scritta bandito lasciati a bella posta sui cadaveri massacrati dei proscritti, sono gli stessi che in epoca a noi più vicina, pendevano dal collo dei partigiani impiccati dai Tedeschi durante l’ultima guerra! Purtroppo il confine che ha diviso l’uomo che si arma per difendere il proprio paese, da chi scorre la campagna per derubare il viandante, è sempre stato effimero. In fondo dice Lucarelli, il primo combatte contro una tirannide politica, il secondo contro una usurpazione economica. Dunque: eguaglianza politica ed eguaglianza sociale. Più in generale tutti i secoli passati sono stati o meno angustiati dal problema del brigantaggio, sia di matrice politica che volgarmente delinquenziale. La figura del furfante che coltello alla mano assaliva e derubava il viandante è antica quanto la storia dell’uomo, al punto da azzardare che forse, causa la fame e la miseria che spingono al facile guadagno, essa sia il retaggio di un mondo animale dove abitualmente la sopravvivenza spinge all’aggressione e alla rapina. Tant’è che i viaggiatori dell’ottocento, come il Lear e il Craven, che percorrevano monti e valli dell’Abruzzo a dorso di mulo, erano già al corrente della pessima fama di cui godevano queste contrade. Fama che affonda le sue radici indietro nel tempo, fino all’impero romano.
Ma chi erano veramente i Briganti?
Sostanzialmente braccianti e pastori, che per motivi quasi sempre legati all’onore, all’ingiustizia e alla miseria, si erano macchiati di qualche delitto e che nei monti proprio lì, dietro casa, trovavano rifugio. E’ la configurazione stessa del paese che ha favorito oltremodo il fenomeno del brigantaggio: un paese “coperto di interminabili catene di montagne altissime e vasti dirupi, di macchie foltissime e di oscure, fitte e immense foreste”(4). Le montagne del Gran Sasso e del Velino, i Simbruini e i Monti della Duchessa, ma soprattutto le Mainarde e la Majella, per nominare solo i massicci più importanti, furono teatro di assassinii, saccheggi e ogni altra forma immaginabile di violenza e sopruso, perpetrata metodicamente da più parti. -”Ed in mezzo a tutta questa anarchia -scrive Fulvio D’amore- dovevano vivere i nostri contadini, i pastori, i montanari con le loro famiglie, e la gente comune.”- (8).
Tra gli stessi briganti c’erano anche ladri, rapinatori o semplici sprovveduti, che facevano di tutto per rendere il loro nome e la loro fama temuta come quella dei lupi, anche al di fuori del circondario ove essi agivano. Questa fama di irriducibile ferocia era daltronte indispensabile per riuscire nelle azioni criminose, quasi sempre ricatti e grassazioni, ma soprattutto per primeggiare tra gli stessi compagni di (s)ventura. Molte figure di briganti sono ricordate per il particolare ardimento, la forza fisica e la sagacia, che per lunghi anni li portò a sfuggire la cattura, beffando le ingenti forze di polizia che ad essi davano la caccia. Questa fama ha sempre rappresentato le due facce di una stessa medaglia: figura di giustiziere quasi mitica per le plebi, belva feroce per i ”ricchi”. La realtà in verità presentava più sfaccettature; il fenomeno è sempre stato molto complesso e non riconducibile a facili schematismi, ma in linea di massima avendo le classi agiate un patrimonio, spesso più che rilevante da proteggere, rappresentavano chiaramente i soggetti a ragione più intimoriti. Di contro, il bracciante e il pastore non avevano nulla da perdere. -”...Non può venire più buio della mezzanotte!”- recita ancora un detto popolare; essi anzi avevano qualcosa da guadagnare e moralmente e materialmente, dalla convivenza forzata con il brigante. Ma la vita del brigante non è stata certamente un idillio; una vita errabonda per monti e selve aveva reso questi uomini insensibili ad ogni sofferenza e indifferenti alla più elementare pietà umana. In una guerra così fratricida non ha senso la ricerca del “chi ha iniziato per primo”, le efferatezze e le brutalità furono commesse da entrambe le parti. -”Indubbiamente tra i briganti non pochi furono quelli che la miseria, l’ignoranza, la mancanza di un lavoro certo, e anche gli istinti perversi, spinsero a malfare e a porsi fuori dalla legge comunemente accettata, per soddisfare ciechi impulsi di vendetta e di rapina. Ma molti altri furono posti, dalle circostanze e dalla società in cui vissero, dinanzi all’alternativa di vivere in ginocchio o di morire in piedi.”- (9). Il brigante non era tenero neanche con se stesso; all’interno delle bande vigeva una disciplina ferrea: la viltà e la disobbedienza erano pagate quasi sempre con la morte. Ma tutto ciò non impediva loro di essere religiosissimi; una religione lugubre e fatalista, intrisa di marcata superstizione, la sola in grado di nutrire quella speranza di scampare quotidianamente alla morte, soli e senza il conforto di chicchessia. Le foto d’epoca o le stampe del brigante con il crocefisso o il santino appuntato sul cappellaccio o in bella mostra sul corpetto, hanno fatto il giro del mondo. Le vicende degli ultimi anni del brigantaggio sono cronache legate ad un istinto ferino da parte del brigante a sopravvivere, e questo dipenderà sempre più dall’appoggio delle popolazioni. Quando questa condizione verrà a mancare saranno solo scene di disperazione: fame, freddo e fatica. Sarà una spirale di inganni, vendette e delazioni. Per il brigante non v’è futuro, braccato ormai senza tregua, ogni momento addosso il fiato degli inseguitori, egli non avrà scampo: gli ultimi irriducibili saranno inseguiti, scovati ed uccisi, uno ad uno. Né d’altronde potevano aspettarsi clemenza da uno stato che aveva ingaggiato con loro una lotta senza quartiere, da chi non aveva esitato ad ammazzare e ad imprigionare amici, parenti, innocenti o semplicemente sospettati di connivenza, di chi aveva voluto ignorare le ragioni sociali di quella tragedia. Chi pensò di arrendersi fu ammazzato comunque, come un cane rabbioso. -”L’orrore in fondo aveva dominato a lungo nell’animo di questi uomini, l’orrore per una fine quasi certa, in combattimento o per tradimento nella selva o fucilati in una piazza.”- (2). Il loro coraggio è stato quello più difficile da abbattere: il coraggio e la determinazione di chi non ha speranza di sopravvivere. I sopravvissuti, pochi, languiranno in carcere per il resto dei giorni. La morte li coglierà nell’abbandono senile in tetri sanatori, dove tutto è ormai lontano e ovattato e non v’è posto per i ricordi tremendi.
Sul contadino, protagonista e vittima allo stesso tempo degli avvenimenti storici, scenderà ancora una volta il sipario. Molti anni dovranno passare ancora, per dimostrare che un ordine politico e sociale, basato su una legge che favoriva i ricchi e i potenti, era ormai fuori dalla realtà dei tempi.
Altro sangue scorrerà sulle piazze e nelle campagne del meridione, ma nel frattempo la storia italiana avrà conosciuto un’altra fase importante: sarà un esodo biblico, quello dell’emigrazione, che vedrà le genti del Mezzogiorno partire nella sconfitta e nella disperazione.
Di nuovo il bracciante dei paesi riarsi dalla calura e rosi dalla miseria non avranno scelta, il destino riserverà loro una sola alternativa: ...o briganti o emigranti!
Sui nostri monti, se non i ricordi brucianti, restano ovunque le tracce della tragedia: -”(...) non c’è capanna laggiù senza una lugubre leggenda; non c’è macchia né roccia senza tracce di sangue; non c’è un antro, un viottolo che non sia servito ad un imboscata; non una eco che non abbia risuonato per i colpi della fucileria, per le grida di morte e di disperazione.”- (10).
Note bibliografiche:
1) “La Via dei Carrettieri”, V. Battista, L’Aquila 1997;
2) “Il Brigantaggio Meridionale”, A. De Jaco, Roma 1976;
3) “Sirente: Crocevia di briganti”, P. Casale, Chieti 1999;
4) “Il brigantaggio alla frontiera pontificia”, A. Bianco de Saint Jorioz, 1864;
5) “Il Sergente Romano. Il brigantaggio pugliese del 1860”, A. Lucarelli, Bari 1922;
6) “Storia del Regno di Napoli”, B. Croce, Bari 1926;
7) ”Relazione della Comm. parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio”, G. Massari, Roma 1863;
8) “Gli ultimi disperati. Sulle tracce dei briganti marsicani prima e dopo l’unità”, F. D’Amore, l’Aquila 1994.
9) “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, F. Molfese, Milano 1966;
10) “Memorie di Gasparoni”, P. Masi, Parigi 1867
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