venerdì 19 aprile 2013

La Brigantesse in Abruzzo


  
Le temibili Signore della macchia. Tra i briganti ci fu posto anche per le donne: alcune erano madri, mogli o amanti di briganti, ma molte altre erano brigantesse

La fama dei briganti ancora oggi caratterizza, nell’immaginario collettivo, i territori montuosi ed impervi dell’Abruzzo, per secoli ideale nascondiglio delle bande dei fuorilegge. Ma non a tutti è noto che il brigantaggio post unitario conta la presenza di un cospicuo numero di donne. Molte furono semplicemente madri, mogli o amanti dei briganti, ma tante furono vere e propri brigantesse. I documenti del tempo narrano le vicende, o più spesso l’epilogo delle vicende di figure come Angela Maria, madre del brigante Sottocarrao di Thurimparte che nel 1864 fu arrestata con l’ inputazione di “manutengoismo» per avere somministrato viveri ed altro al brigantaggio. Si perché loro spesso vivendo nei paesi e facevano da tramite per i loro coniugi costretti a nascondersi tra le montagne. Appartenevano ad un ceto sociale delle plebi rurali, donne molto innamorate dei propri uomini, pronte a rinunciare  ad una vita tranquilla, pur di seguire o di agevolare il loro compagno. Erano consapevoli di non avere scampo, eppure di fronte ad azioni pericolose non si tiravano mai in dietro. Erano le confidenti più sicure, le messaggeri più fidate. Indossavano spesso abiti maschili, per entrare in un nuovo ruolo, un ruolo tutto maschile che però non le privava della loro femminilità. Nascondevano i lunghi capelli sotto il cappello a falda larga ed indossavano anche orecchini d’oro. La maggior parte delle volte capitava che, solo dopo averle catturate, ci si accorgeva del loro sesso e allora si adottava il criterio di commutare l’ergastolo in 15 anni di lavori forzati: fu il caso di Maria Capitanio, Maria Capitanio,  Spesso ebbero anche ruoli di primo piano, combattendo o comandando piccoli nuclei briganteschi: fu il caso della bella Michelina De Cesare che fu alla guida di un drappello del brigante Francesco Guerra di cui era l’amante pronte a combattere contro l’esercito piemontese che imperversava nell’Abruzzo e nel Lazio. Le loro tracce sulle montagne dell’Abruzzo si sono ormai perse, sebbene la loro memoria continui a vivere nei documenti e nelle foto conservate presso gli archivi della regione o ancora di più nei racconti e nelle vecchie storie di briganti e brigantesse.  
Lettera della brigantessa Maria Suriani al compagno


Mio caro Domenico, questa cosa che mi avete scritte mi avete fatto mettere  a piangere mentre io non voleva andarci a San Nicola, ma la famiglia e i parenti m’anno voluto portarci per forza e mi dicevano se non adempiva al voto mi succedevano discrazie. Ecco vedete che cosa dovevo fare io e non poteva sapere che vi dispiaceva tanto. Perciò se volete seguitare ad amarmi, io vi prometto di fare sempre quello che voi mi dicete. E poi vi avete trovato un’altra sposa comme mi diceste l’altra volta, allora io pazienza faccio la Madonna del Carmine e io mi farò sempre in pianto. Vi mando quattro fazzoletti che tenete per mia memoria, altri sei ve lo manderò in appresso. In tanto vi dico se voi non mi amate più, io me ne andrò da Atessa e non mi vedrete più. Non vi dico la vostra amante ma vostra serva Maria Suriani.

martedì 2 aprile 2013

Dopo 150 anni di menzogne, la Banca d'Italia conferma:l'Unità d'Italia ha creato il sottosviluppo del Mezzogiorno

http://www.ondadelsud.it/?p=1879


Il processo di verità storica che da tempo sta squarciando il muro di oblìo eretto a difesa di una mistificata interpretazione delle vicende unitarie e post unitarie della nostra nazione, ha trovato nuovo e solidissimo impulso per merito di una pubblicazione scientifica edita da un’istituzione dall’indiscussa affidabilità quale la Banca d’Italia. Se fino ad oggi si è potuto confutare, su basi storiografiche peraltro tutte da verificare, quanto asserito da chi, carte alla mano, mira a dimostrare come il presunto processo unitario si sia risolto nei fatti in una feroce e avvilente colonizzazione del Mezzogiorno, oggi scende in campo la Banca d’Italia, con il suo indiscusso prestigio, a sancire, sulla base di incontestabili analisi e dati statistici, la verità di fatti troppo a lungo vergognosamente manipolati.
            Ebbene, a contraddire definitivamente un’ideologia mistificatrice della realtà di episodi che hanno costretto il Mezzogiorno ad una immeritata situazione d’inferiorità, irrompono con l’autorevolezza  che gli deriva dalla reputazione di studiosi il Prof. Stefano Fenoaltea, docente di Economia Applicata all’Università di Tor Vergata (Roma), insieme al collega Carlo CiccarelliDottore di Ricerca in Teoria economica ed Istituzioni nella stessa Università.
            Nel loro accuratissimo saggio, il cui alto valore scientifico ha meritato per i due economisti l’onore della pubblicazione da parte della Banca d’Italia, gli studiosi dell’Università di Tor Vergata hanno non solo reso manifesto, potremmo dire, ma bensì confermato come all’origine dell’attuale sottosviluppo del Sud ci sia una bugiardaunificazione nazionale. Sin dalle prime pagine del loro lavoro di ricerca, apparso peraltro solo in lingua inglese nei “Quaderni di Storia Economica di Bankitalia”, n. 4, luglio 2010 (domanda: perché non in italiano e con adeguato resoconto pubblico?), Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli affermano così esplicitamente: “L’arretratezza industriale del Sud, evidente già all’inizio della prima guerra mondiale non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria» (Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of industrial Growth in Post-Unification Italy, pag.22).
            A scrupoloso fondamento del loro studio, corredato da minuziose tabelle statistiche, gli economisti di Tor Vergata prendono in esame i censimenti ufficiali del neonato Stato italiano, precisamente negli anni 1871, 1881, 1901 e 1911. La disponibilità di una notevole massa di dati nazionali e regionali ha offerto l’opportunità a Fenoaltea e Ciccarelli di comprendere a fondo, come sostanzia loro ricerca,  lo sviluppo dell’Italia nei primi decenni dopo l’unificazione. Orbene, il meticoloso lavoro eseguito aggiunge, ai dati già disponibili, un’analisi dei dati disaggregati relativi alla produzione industriale in 69 province tra il 1871 e il 1911, determinando gli studiosi a svelare che: «Il loro esame disaggregato rafforza le principali ipotesi revisioniste suggerite dai dati regionali». Più eloquente di così…e, si sottolinea ancora, qui sono i numeri che parlano esplicitamente!
            La tabelle pubblicate da Fenoaltea e Ciccarelli mostrano che nel 1871 il tasso di industrializzazione del Piemonte era del l’1.13%, quello della Lombardia 1.37%, quello della Liguria 1.48%. Da evidenziare come, a questo punto, fossero già trascorsi dieci anni di smantellamento dell’apparato industriale dell’ex Regno delle Due Sicilie, con il ridimensionamento di importanti stabilimenti come le officine metallurgiche di Pietrarsa, a Portici (Napoli) (oltre 1000 addetti prima dell’unificazione ridotti a 100 nel 1875), nonché quelle di Mongiana in Calabria (950 addetti nel 1850 ridotti a poche decine di guardiani nel 1873): ebbene, nonostante l’opera devastatrice dei presunti liberatori scesi dal Settentrione, l’indice di industrializzazione della Campania era ancora dello 1.01%, con Napoli, nel dato provinciale, all’1.44% e quindipiù di Torino che era solo all’1.41%.
L’indice di industrializzazione della Sicilia era allo 0.98%, quindi agli stessi livelli del Veneto che era al 0.99%, la Puglia era allo 0.78% con la provincia di Foggia allo 0.82%:molto più di province lombarde come Sondrio, allo 0.56%, e vicinissima ai livelli di industrializzazione dell’Emilia, lo 0.85%. La Calabria era allo 0.69%, con la provincia di Catanzaro allo 0.78% e perciò allo stesso livello di Reggio Emilia e più di Piacenza, che era allo 0.76%, ma anche di Ferrara allo 0.74%.
            Il tasso di industrializzazione della Basilicata era allo 0.67%, un indice che per quanto a prima vista basso era comunque più alto di aree liguri come Porto Maurizio che era allo 0.61%. L’Abruzzo era invece allo 0.58%, con L’Aquila a 0.63%.
            Detto questo, appare drammatico come, quarant’anni dopo, nel 1911, l’indice di industrializzazione del Piemonte fosse salito all’1.30% mentre quello della Campania era sceso a 0.93%, con Napoli all’1.32%. La Lombardia era arrivata all’1.67%, la Liguriaall’1.62%, mentre la Sicilia era crollata allo 0.65%, la Puglia allo 0.62%, la Calabria allo0.58%, la Basilicata allo 0.51%.
            Questo resoconto piuttosto tragico ma fondato su incontrovertibili riscontri scientifici, perché i numeri si possono occultare ma se resi noti non possono certamente ingannare, rende chiaro come la Banca d’Italia, pubblicando il qualificato studio di Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli, abbia certificato ufficialmente con la sua autorevolezza come l’arretratezza industriale del Sud non sia un’eredità dell’Italia pre-unitaria ma bensì un sottosviluppo voluto da una unificazione nazionale strumentalizzata in modo scellerato ai danni del Mezzogiorno.
di  Michele Loglisci e Francesco Schiraldi *
 
*Consiglieri Nazionali Partito “per il Sud”





fonte: http://www.ondadelsud.it/?p=1879