SANT'AGNESE: GLI AQUILANI AFFILANO LE LINGUE, E' LA FESTA DELLA MALDICENZA
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mercoledì 19 gennaio 2011
Abruzzo: Terra generosa ma aspra...
Terra generosa ma aspra, l’Abruzzo è una regione dalla forte vocazione naturalistica considerato il grande patrimonio ambientale che possiede. Può essere a ragione definita la terra dei parchi: nel suo territorio infatti si trovano tre parchi nazionali (il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, il Parco Nazionale della Majella), un parco regionale (Parco Regionale Sirente Velino) e decine di riserve statali e regionali.
Il territorio è in prevalenza montuoso, con numerosi altipiani erbosi utilizzati per il pascolo, una lunga fascia collinare ricca di vigneti ed oliveti, e poi il mare della costa adriatica.
Per le sue caratteristiche geografiche e morfologiche, l’Abruzzo ha potuto mantenere nel tempo la sua cultura e le sue tradizioni, anche dal punto di vista gastronomico: una cucina sostanzialmente povera, in gran parte legata alle abitudini pastorali e basata su ingredienti, semplici e genuini offerti dalla terra, dalla pastorizia e dall’allevamento. Ottimi sono i formaggi, fatti principalmente con il latte di greggi allevati in altura, le carni, di cui la gastronomia locale fa un grande uso, e la pasta, che qui significa soprattutto maccheroni alla chitarra.
Negli altipiani abruzzesi si producono verdure, ortaggi e piante aromatiche di grande qualità: le lenticchie, i carciofi, l’aglio rosso, patate, carote, barbabietole, funghi porcini, castagne, peperoncino e zafferano. Da non dimenticare la produzione di olio, che vanta ben tre DOP, e quella vitivinicola che, grazie alla particolare morfologia del territorio, permette una maturazione dei vitigni eccellente.
fonte: http://www.campagnamica.it/territori-italiani/abruzzo
Il territorio è in prevalenza montuoso, con numerosi altipiani erbosi utilizzati per il pascolo, una lunga fascia collinare ricca di vigneti ed oliveti, e poi il mare della costa adriatica.
Per le sue caratteristiche geografiche e morfologiche, l’Abruzzo ha potuto mantenere nel tempo la sua cultura e le sue tradizioni, anche dal punto di vista gastronomico: una cucina sostanzialmente povera, in gran parte legata alle abitudini pastorali e basata su ingredienti, semplici e genuini offerti dalla terra, dalla pastorizia e dall’allevamento. Ottimi sono i formaggi, fatti principalmente con il latte di greggi allevati in altura, le carni, di cui la gastronomia locale fa un grande uso, e la pasta, che qui significa soprattutto maccheroni alla chitarra.
Negli altipiani abruzzesi si producono verdure, ortaggi e piante aromatiche di grande qualità: le lenticchie, i carciofi, l’aglio rosso, patate, carote, barbabietole, funghi porcini, castagne, peperoncino e zafferano. Da non dimenticare la produzione di olio, che vanta ben tre DOP, e quella vitivinicola che, grazie alla particolare morfologia del territorio, permette una maturazione dei vitigni eccellente.
fonte: http://www.campagnamica.it/territori-italiani/abruzzo
Pizza e maccheroni
Pizza e maccheroni: la cultura alimentare italiana vista attraverso le denominazioni dialettali
di Francesco Avolio*
Vent’anni di iniziative
L’interesse per i vari aspetti della cultura alimentare italiana, che, nei suoi prodromi, è riconoscibile in alcune iniziative sorte fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta (con la nascita del periodico «Il Gambero Rosso», in origine supplemento del «Manifesto», dell’associazione Arcigola Slow Food, oggi divenuta un colosso del settore, dei vari club che esaltavano la “dieta mediterranea”), ha ormai assunto i connotati, più che della moda, di un vero e proprio carattere stabile del costume italiano contemporaneo. E tuttavia, nel fiorire ormai più che ventennale di iniziative, continuano a latitare, al di fuori dell’ambito più strettamente accademico, contributi che siano affidabili anche dal punto di vista linguistico, certo non secondario, vista, a tacer d’altro, la quantità strabocchevole di nomi di prodotti e piatti “regionali”, di tecniche di cottura e manipolazione, di influssi e scambi fra aree diverse e lontane ecc. Basta prendere in mano i volumi più seri per rendersene pienamente conto. Anche limitando l’attenzione al solo nome locale, questo, fatta salva qualche eccezione, non c’è, oppure è italianizzato, o ancora mal trascritto (e perfino mal tradotto), di modo che un lettore non del posto non potrà mai, con tutta la buona volontà, capirci qualcosa.
Misteri etimologici
Ciò premesso, quanto possiamo fare in questa sede è una breve rassegna di alcune specificità alimentari del nostro Paese, viste sub specie sermonis. Un dato che merita di essere subito segnalato è che i misteri etimologici, di cui è ricco qualsiasi libro di cucina, riguardano perfino i nomi dei due piatti simbolo della nostra tradizione, la pizza e i maccheroni, la cui origine ancora non è stata chiarita in modo del tutto convincente: per la prima, messa da parte l’ipotesi del latino pinsĕre ‘pestare, pigiare’ (supino pinsum), è stata proposta sia, da G. Pinci Braccini, un’origine germanica dall’antico alto tedesco bizzo-pizzo (cfr. il ted. mod. Bissen), documentato nelle accezioni di ‘morso’ ‘boccone’ ‘pezzo’ ‘pezzo di pane’ (etimologia accolta nel DELI) , sia, recentissimamente, semitica (e segnatamente antico-aramaica e siriana: pit(t)a, cfr. Alinei), mentre i secondi, avvicinati da alcuni al latino maccus ‘dalla grossa mascella’, ‘ghiottone’, e al verbo denominale maccare ‘impastare’ (cfr. AEI, DELI, quest’ultimo repertorio non esclude un ruolo del greco makarìa ‘piatto di pane e fiocchi di avena’, poi ‘pasto funebre’; maccu è nome ancora vivo a Messina per indicare una purea di fave), sono stati recentemente ricondotti da Giovanni Petrolini all’antico italiano manicare ‘mangiare’ (dal lat. manducare ‘masticare’), attraverso una forma manicarone > mancarone, parallela a manicaretto.
Italianizzazioni e “dialettizzazioni”
Se il campo delle etimologie continua, ovviamente, a essere minato, non mancano nemmeno italianizzazioni e “dialettizzazioni”, che pur essendo recenti, restano anch’esse oscure. Come mai, ad esempio, i piccoli, arcaici spiedini di carne ovina delle colline pescaresi e teatine, detti sul posto ruštèllë, ruštòllë ecc, ed oggi diffusi in tutto l’Abruzzo, sono divenuti, in italiano, gli arrosticini (e non, poniamo, arrostelli o arrosticelli)? E perché a Roma una delle insegne oggi più diffuse per trattorie e ristoranti è Hostaria, che non risale oltre gli anni Sessanta ed è priva di riscontri in testimonianze più antiche provenienti dalla città o dal suo territorio?
La cucina di strada
Lasciando poi perdere, almeno per questa volta, i locali e gli chef più blasonati, soffermiamoci per un attimo sulla cucina di strada, una realtà ancora radicata in diverse città italiane, soprattutto (ma non esclusivamente) nel Mezzogiorno, malgrado l’assedio di bar, hamburgerie e pizzerie a taglio. A Palermo, ad esempio, è ancora possibile gustare, in semplici friggitorie e focaccerie, frequentate anche da giovani e studenti, u pani c’’a mèusa ‘pane con la milza’, tradizionale piatto unico “povero”, secondi alcuni di origine araba, che consiste in una pagnottina al sesamo morbida, detta vastèdda, imbottita con una quantità di interiora di vitello bollite e riscaldate nello strutto; in particolare, oltre alla mèusa si aggiungono, di solito, u prumùni (polmone), u lattumèddu (fegato bianco), u cannarùozzu (esofago) e u scannaruzzàru (il pezzo di carne che resta attaccato all’esofago). Il pani si può gustare schìettu, con l’aggiunta solo di qualche goccia di limone, oppure maritatu, cioè arricchito con scaglie di caciocavallo. Nei vicoli del centro di Catanzaro è invece possibile imbattersi nelle ultime putìche (lett. ‘botteghe’), locali molto semplici dove l’unica pietanza disponibile (o una delle poche), è il morzèddu, interiora di vitello (milza, polmone, lingua ecc.) mischiate con trippa, la cosiddetta “centopezzi”, e poi cotte a lungo (almeno due-tre ore) in un sugo molto piccante, con alloro e origano. Una volta pronto, il morzèddu si gusta, per l’appunto, a… morsi dentro la pitta, focaccia morbida di pasta di pane, parente stretta, anche nel nome, della pizza, la cui immagine a volte rappresenta l’unica insegna visibile della putìca.
I locali ereditati dalla tradizione
Un destino non troppo dissimile da quello della cucina di strada lo hanno avuto i tanti locali ereditati dalla tradizione, e frequentati, di solito, dalle classi sociali più basse. Spesso, anzi, non è possibile tracciare una netta linea di demarcazione fra questi locali e, ad esempio, le già viste friggitorie o focaccerie. Se il prototipo, per dir così, è rappresentato dalle ultime, tradizionali pizzerie napoletane (che ad onta del travolgente successo mondiale del prodotto, in città sono in forte diminuzione), a Roma la fraschétta, mescita di vino sfuso così detta dalla frasca, cioè il ramo frondoso che, appeso alla porta d’ingresso, fungeva da insegna, è stata a lungo uno dei locali più tipici, che colpiva italiani e stranieri per la sua rude semplicità (tavoloni e panche di legno grezzo dove ci si sedeva gomito a gomito con altri avventori, tovaglie di carta, vino bianco dei Castelli versato in caratteristici recipienti di vetro ecc.). Negli ultimi decenni, però, una lunga e quasi letale fase di regresso, espellendola di fatto dalla città, l’ha confinata nella zona dei Castelli Romani (dove ve ne sono ancora parecchie, anche se non tutte rimaste fedeli al tipo di ambiente originario). Ma, girando per l’Italia, possiamo per fortuna trovare ancora i farinotti genovesi e liguri (locali in cui si mangia ’a fainà ‘la farinata’, focaccia bianca di farina di ceci, olio extravergine, acqua e sale, cotta al forno in grandi e basse teglie di rame), i trippai e vinai di Firenze, i fërniddë ‘fornelli’della Murgia (chianchë, cioè macellerie, nei cui retrobottega si possono cuocere allo spiedo e gustare vari tagli di carne, soprattutto suina e ovina) ecc.
Butirru latino e ’nduia francese
Curiosità di interesse linguistico sono offerte con dovizia anche dai nomi di formaggi e salumi, soprattutto quelli meno diffusi fuori della zona di origine, che rimandano spesso alle loro caratteristiche esteriori o gustative: così, per quanto riguarda il piemontese bruss (detto anche bruz, bross, bruzzu ecc.) che, più che un formaggio vero e proprio, è una crema da tavola, spalmabile, ottenuta con la riduzione di vari tipi di formaggio (vaccini, caprini e misti) a scaglie sottilissime, e l’aggiunta di grappa o vino bianco , il nome deriverebbe, forse, dal verbo brusé ‘bruciare’, perché tale può essere la sensazione di chi ne assaggi una versione piccante. Il panerón lodigiano sarebbe invece da riconnettere a panéra, cioè ‘panna’, e infatti si tratta di un prodotto caseario non stagionato, bianco, friabile. Nel Sud, i caciocavalli (casëcavàllë, cuasëcavàddë ecc.), sempre dalla classica forma a pera, ma prodotti in diverse versioni, vengono fatti stagionare in coppia, legati a delle funi messe “a cavallo” di assi o di travi (da qui, a quanto sembra, il loro nome), mentre il butirru, tipicamente presilano e silano, è la diretta continuazione del latino butyrum (greco bùthyron), e infatti la pasta filata diventa qui l’involucro esterno di una morbida sfera di burro. Fra i salumi, la calabrese ’nduja (o ’ndugghia) deriva chiaramente il suo nome dal francese andouille, che significa ‘salsiccia’, ma, di quest’ultima, ha solo l’aspetto; è infatti un particolare salume “povero”, piccantissimo, che come il marchigiano ciaùscolo, può essere tranquillamente spalmato, ma che, a differenza di questo, si ottiene macinando ripetutamente parti di scarto del maiale (le ’nduje di Spìlinga, vicino a Vibo Valentia, hanno fama di essere le migliori). La sopressata, infine, è forse il salume meridionale per antonomasia, diffusa, ad esempio in Campania e in Lucania, in una miriade di versioni diverse (che possono prevedere o meno un certo periodo di permanenza “sotto pressa”, anche se è quest’ultimo all’origine del termine). Del resto, la tradizione suinicola al Sud è così radicata, che il nome della luganega, salume fresco veneto, lungo e morbido, continua in realtà il latino lucanica(m), il quale, a sua volta, fu coniato da Lucania; malgrado le apparenze, dunque, nessun collegamento con la svizzera Lugano, ma antiche ascendenze storico-culturali.
Una chitarra per la pasta, una jota di minestra
Impossibile prendere in esame anche solo cursoriamente l’infinità di minestre e di paste asciutte del nostro territorio: interessante, anche perché poco noto, il caso dei maccheroni alla chitarra, spaghettoni di pasta all’uovo a sezione quadrata tipici dell’Abruzzo; la “chitarra” (chitàrrë, chëtàrrë) è un telaio rettangolare in legno, abbastanza piccolo, su cui sono tese delle corde metalliche che hanno la funzione di tagliare a strisce la pasta sfoglia (leggermente pressata su di esse con la mano) e che lo fanno appunto assomigliare a una chitarra. Fra le minestre, citiamo la jota, popolare zuppa triestina e anche friulana di orzo e patate, arricchita con lardo, pancetta, fagioli e crauti: ne esistono molte versioni, anche sul versante sloveno, e la base etimologica del nome è da ricercarsi nel latino classico ius ‘brodo’, alla base del latino tardo *jutta ‘brodaglia’, voce continuata anche in Emilia (Parma, Reggio, Modena), e perfino più lontano (Engadina, Corsica, Calabria; qui jotta è ‘l’acqua dove si è cotta la pasta’, o il ‘beverone che si dà ai maiali’, v. Rohlfs).
Un grande pastu mistu
Se abbiamo parlato di piatti poveri, non possiamo però dimenticare alcuni sontuosi secondi a base di suino, pollame o cacciagione, come il trentino tonco de pontesél, tipo di spezzatino di maiale così chiamato perché accompagnato, secondo la tradizione, dalla polenta di mais, il quale si faceva appassire sui lunghi balconi delle case contadine (detti in dialetto ponteśéi ‘ponticelli’), o la galina imbriaga, caratteristica del Vicentino, il cui nome non è per burla: la gallina viene infatti prima marinata nel Cabernet con verdure e aromi, poi cosparsa di grappa e infine messa in forno. La Sardegna si segnala, oltre che per il porcéddu arrosto, per il pastu mistu del Campidano (grosso tacchino con all’interno un fagiano, una lepre o un pollo) e, tornando ai pastori, per la còrdula (budella ovine intrecciate), servita in genere con i piselli, piatto che ha numerosi echi mediterranei
Vino e pane
Vino e pane, benché alimenti sacri per tante tradizioni, non hanno purtroppo qui lo spazio per essere ricordati come meriterebbero. D’obbligo, però, menzionare, di passata, almeno il pane senza sale o sciapo toscano e umbro; lo pane altrui, per dirla con Dante, salato e con farina integrale, che si comincia invece a vedere da Roma in giù (ad esempio a Lariano); il pane con le patate dell’Abruzzo (le patate sono aggiunte per renderlo più morbido); il pane di grano duro pugliese e lucano che trova in quello di Altamura l’esempio oggi forse più noto. La Sardegna si segnala per il noto, sottilissimo pane carasau (haresau a Mamoiada ecc., cioè ‘cotto per essere croccante’), conosciuto anche come carta da musica.
Non possono mancare, in conclusione, brevi note antropologiche, o, come si diceva, “di costume”, sul rito del bicchiere di vino. Da soli o in compagnia, a coronamento di una passeggiata, di una chiacchiera (ciàcola) fra amici o come semplice aperitivo, esso, nel Veneto, è uno di quelli in grado di resistere a qualsiasi ondata globalizzante. Chiamato popolarmente ómbra a Venezia, Padova, Rovigo e Vicenza, gòto a Verona (derivato dal latino guttus ‘vaso dal collo stretto’, cfr. AEI) e tajut (cioè ‘taglietto’, col tipico suffisso -ut) nel Friuli, esso viene ancora consumato nelle ostarìe, progenitrici, più che dei moderni ristoranti, dei post-moderni wine-bar. Gli spuntini che lo accompagnano, a base di pesce, salumi, carne e altro ancora, sono caratterizzati da un’estrema varietà, e sono detti cichéti a Venezia, spincióni a Padova.
Riferimenti bibliografici
AEI = G. Devoto, Avviamento all’etimologia italiana, Firenze, Le Monnier, 1968.
Alinei = M. Alinei, E. Nissan, L’etimologia semitica dell’it. pizza e dei suoi corradicali est-europei, turchi, e dell’area semitica levantina, in “Quaderni di semantica”, XXVIII, n. 1, giugno 2007, pp. 117-136.
G. L. Beccaria, A. Stella, U. Vignuzzi (a cura di), La linguistica in cucina: nomi dei piatti tipici, Milano, Unicopli, 2005.
E. Caffarelli, L’alimentazione nell’onomastica. L’onomastica nell’alimentazione, in D. Silvestri, A. Marra, I. Pinto (a cura di), Saperi e sapori mediterranei. La cultura dell’alimentazione e i suoi riflessi linguistici, Atti del Convegno Internazionale, vol. I, Napoli, Università degli studi “L’Orientale”, Quaderni di Aion (nuova serie - 3), 2002, pp. 143-173.
DELI = M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana (5 voll.), Bologna, Zanichelli, 1979-1988.
DIDE = M. Cortelazzo, C. Marcato, I Dialetti Italiani. Dizionario etimologico, Torino, Utet, 1998.
G. Frosini, L’italiano in tavola, in P. Trifone (a cura di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Roma, Carocci, 2006, pp. 41-63.
E. Giammarco, Lessico Etimologico Abruzzese, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1986.
Rohlfs = G. Rohlfs, Dizionario dialettale delle tre Calabrie (2 voll.), Milano, Hoepli, 1932.
A. Vàrvaro, Vocabolario Etimologico Siciliano, con la collaborazione di Rosanna Sornicola, volume I (A-L), Palermo, Centro di studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1986.
M. L. Wagner, Dizionario Etimologico Sardo (3 voll.), Heidelberg, Winter, 1960-1964.
*Francesco Avolio (Roma, 1963) insegna Linguistica italiana nell’Università degli studi dell’Aquila. Al centro dei suoi interessi scientifici sono le varietà dialettali dell’Italia centrale e meridionale, la teoria e i metodi della ricerca dialettologica e geolinguistica, i problemi della ricostruzione linguistica, i rapporti tra linguaggio ed esperienza. Membro di diverse società scientifiche nazionali e internazionali (Associazione per la Storia della Lingua Italiana, Società Italiana di Glottologia, Società Internazionale di Dialettologia e Geolinguistica) e del Comitato scientifico della «Rivista Italiana di Linguistica e Dialettologia», suoi articoli sono apparsi su riviste e periodici specializzati («L’Italia dialettale», «Contributi di filologia dell’Italia mediana», «Romance Philology», «Studi linguistici italiani»). È autore di numerosi saggi, tra cui il volume Bommèspre. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale (San Severo, 1995).
fonte: http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/speciali/panevino/1.html
di Francesco Avolio*
Vent’anni di iniziative
L’interesse per i vari aspetti della cultura alimentare italiana, che, nei suoi prodromi, è riconoscibile in alcune iniziative sorte fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta (con la nascita del periodico «Il Gambero Rosso», in origine supplemento del «Manifesto», dell’associazione Arcigola Slow Food, oggi divenuta un colosso del settore, dei vari club che esaltavano la “dieta mediterranea”), ha ormai assunto i connotati, più che della moda, di un vero e proprio carattere stabile del costume italiano contemporaneo. E tuttavia, nel fiorire ormai più che ventennale di iniziative, continuano a latitare, al di fuori dell’ambito più strettamente accademico, contributi che siano affidabili anche dal punto di vista linguistico, certo non secondario, vista, a tacer d’altro, la quantità strabocchevole di nomi di prodotti e piatti “regionali”, di tecniche di cottura e manipolazione, di influssi e scambi fra aree diverse e lontane ecc. Basta prendere in mano i volumi più seri per rendersene pienamente conto. Anche limitando l’attenzione al solo nome locale, questo, fatta salva qualche eccezione, non c’è, oppure è italianizzato, o ancora mal trascritto (e perfino mal tradotto), di modo che un lettore non del posto non potrà mai, con tutta la buona volontà, capirci qualcosa.
Misteri etimologici
Ciò premesso, quanto possiamo fare in questa sede è una breve rassegna di alcune specificità alimentari del nostro Paese, viste sub specie sermonis. Un dato che merita di essere subito segnalato è che i misteri etimologici, di cui è ricco qualsiasi libro di cucina, riguardano perfino i nomi dei due piatti simbolo della nostra tradizione, la pizza e i maccheroni, la cui origine ancora non è stata chiarita in modo del tutto convincente: per la prima, messa da parte l’ipotesi del latino pinsĕre ‘pestare, pigiare’ (supino pinsum), è stata proposta sia, da G. Pinci Braccini, un’origine germanica dall’antico alto tedesco bizzo-pizzo (cfr. il ted. mod. Bissen), documentato nelle accezioni di ‘morso’ ‘boccone’ ‘pezzo’ ‘pezzo di pane’ (etimologia accolta nel DELI) , sia, recentissimamente, semitica (e segnatamente antico-aramaica e siriana: pit(t)a, cfr. Alinei), mentre i secondi, avvicinati da alcuni al latino maccus ‘dalla grossa mascella’, ‘ghiottone’, e al verbo denominale maccare ‘impastare’ (cfr. AEI, DELI, quest’ultimo repertorio non esclude un ruolo del greco makarìa ‘piatto di pane e fiocchi di avena’, poi ‘pasto funebre’; maccu è nome ancora vivo a Messina per indicare una purea di fave), sono stati recentemente ricondotti da Giovanni Petrolini all’antico italiano manicare ‘mangiare’ (dal lat. manducare ‘masticare’), attraverso una forma manicarone > mancarone, parallela a manicaretto.
Italianizzazioni e “dialettizzazioni”
Se il campo delle etimologie continua, ovviamente, a essere minato, non mancano nemmeno italianizzazioni e “dialettizzazioni”, che pur essendo recenti, restano anch’esse oscure. Come mai, ad esempio, i piccoli, arcaici spiedini di carne ovina delle colline pescaresi e teatine, detti sul posto ruštèllë, ruštòllë ecc, ed oggi diffusi in tutto l’Abruzzo, sono divenuti, in italiano, gli arrosticini (e non, poniamo, arrostelli o arrosticelli)? E perché a Roma una delle insegne oggi più diffuse per trattorie e ristoranti è Hostaria, che non risale oltre gli anni Sessanta ed è priva di riscontri in testimonianze più antiche provenienti dalla città o dal suo territorio?
La cucina di strada
Lasciando poi perdere, almeno per questa volta, i locali e gli chef più blasonati, soffermiamoci per un attimo sulla cucina di strada, una realtà ancora radicata in diverse città italiane, soprattutto (ma non esclusivamente) nel Mezzogiorno, malgrado l’assedio di bar, hamburgerie e pizzerie a taglio. A Palermo, ad esempio, è ancora possibile gustare, in semplici friggitorie e focaccerie, frequentate anche da giovani e studenti, u pani c’’a mèusa ‘pane con la milza’, tradizionale piatto unico “povero”, secondi alcuni di origine araba, che consiste in una pagnottina al sesamo morbida, detta vastèdda, imbottita con una quantità di interiora di vitello bollite e riscaldate nello strutto; in particolare, oltre alla mèusa si aggiungono, di solito, u prumùni (polmone), u lattumèddu (fegato bianco), u cannarùozzu (esofago) e u scannaruzzàru (il pezzo di carne che resta attaccato all’esofago). Il pani si può gustare schìettu, con l’aggiunta solo di qualche goccia di limone, oppure maritatu, cioè arricchito con scaglie di caciocavallo. Nei vicoli del centro di Catanzaro è invece possibile imbattersi nelle ultime putìche (lett. ‘botteghe’), locali molto semplici dove l’unica pietanza disponibile (o una delle poche), è il morzèddu, interiora di vitello (milza, polmone, lingua ecc.) mischiate con trippa, la cosiddetta “centopezzi”, e poi cotte a lungo (almeno due-tre ore) in un sugo molto piccante, con alloro e origano. Una volta pronto, il morzèddu si gusta, per l’appunto, a… morsi dentro la pitta, focaccia morbida di pasta di pane, parente stretta, anche nel nome, della pizza, la cui immagine a volte rappresenta l’unica insegna visibile della putìca.
I locali ereditati dalla tradizione
Un destino non troppo dissimile da quello della cucina di strada lo hanno avuto i tanti locali ereditati dalla tradizione, e frequentati, di solito, dalle classi sociali più basse. Spesso, anzi, non è possibile tracciare una netta linea di demarcazione fra questi locali e, ad esempio, le già viste friggitorie o focaccerie. Se il prototipo, per dir così, è rappresentato dalle ultime, tradizionali pizzerie napoletane (che ad onta del travolgente successo mondiale del prodotto, in città sono in forte diminuzione), a Roma la fraschétta, mescita di vino sfuso così detta dalla frasca, cioè il ramo frondoso che, appeso alla porta d’ingresso, fungeva da insegna, è stata a lungo uno dei locali più tipici, che colpiva italiani e stranieri per la sua rude semplicità (tavoloni e panche di legno grezzo dove ci si sedeva gomito a gomito con altri avventori, tovaglie di carta, vino bianco dei Castelli versato in caratteristici recipienti di vetro ecc.). Negli ultimi decenni, però, una lunga e quasi letale fase di regresso, espellendola di fatto dalla città, l’ha confinata nella zona dei Castelli Romani (dove ve ne sono ancora parecchie, anche se non tutte rimaste fedeli al tipo di ambiente originario). Ma, girando per l’Italia, possiamo per fortuna trovare ancora i farinotti genovesi e liguri (locali in cui si mangia ’a fainà ‘la farinata’, focaccia bianca di farina di ceci, olio extravergine, acqua e sale, cotta al forno in grandi e basse teglie di rame), i trippai e vinai di Firenze, i fërniddë ‘fornelli’della Murgia (chianchë, cioè macellerie, nei cui retrobottega si possono cuocere allo spiedo e gustare vari tagli di carne, soprattutto suina e ovina) ecc.
Butirru latino e ’nduia francese
Curiosità di interesse linguistico sono offerte con dovizia anche dai nomi di formaggi e salumi, soprattutto quelli meno diffusi fuori della zona di origine, che rimandano spesso alle loro caratteristiche esteriori o gustative: così, per quanto riguarda il piemontese bruss (detto anche bruz, bross, bruzzu ecc.) che, più che un formaggio vero e proprio, è una crema da tavola, spalmabile, ottenuta con la riduzione di vari tipi di formaggio (vaccini, caprini e misti) a scaglie sottilissime, e l’aggiunta di grappa o vino bianco , il nome deriverebbe, forse, dal verbo brusé ‘bruciare’, perché tale può essere la sensazione di chi ne assaggi una versione piccante. Il panerón lodigiano sarebbe invece da riconnettere a panéra, cioè ‘panna’, e infatti si tratta di un prodotto caseario non stagionato, bianco, friabile. Nel Sud, i caciocavalli (casëcavàllë, cuasëcavàddë ecc.), sempre dalla classica forma a pera, ma prodotti in diverse versioni, vengono fatti stagionare in coppia, legati a delle funi messe “a cavallo” di assi o di travi (da qui, a quanto sembra, il loro nome), mentre il butirru, tipicamente presilano e silano, è la diretta continuazione del latino butyrum (greco bùthyron), e infatti la pasta filata diventa qui l’involucro esterno di una morbida sfera di burro. Fra i salumi, la calabrese ’nduja (o ’ndugghia) deriva chiaramente il suo nome dal francese andouille, che significa ‘salsiccia’, ma, di quest’ultima, ha solo l’aspetto; è infatti un particolare salume “povero”, piccantissimo, che come il marchigiano ciaùscolo, può essere tranquillamente spalmato, ma che, a differenza di questo, si ottiene macinando ripetutamente parti di scarto del maiale (le ’nduje di Spìlinga, vicino a Vibo Valentia, hanno fama di essere le migliori). La sopressata, infine, è forse il salume meridionale per antonomasia, diffusa, ad esempio in Campania e in Lucania, in una miriade di versioni diverse (che possono prevedere o meno un certo periodo di permanenza “sotto pressa”, anche se è quest’ultimo all’origine del termine). Del resto, la tradizione suinicola al Sud è così radicata, che il nome della luganega, salume fresco veneto, lungo e morbido, continua in realtà il latino lucanica(m), il quale, a sua volta, fu coniato da Lucania; malgrado le apparenze, dunque, nessun collegamento con la svizzera Lugano, ma antiche ascendenze storico-culturali.
Una chitarra per la pasta, una jota di minestra
Impossibile prendere in esame anche solo cursoriamente l’infinità di minestre e di paste asciutte del nostro territorio: interessante, anche perché poco noto, il caso dei maccheroni alla chitarra, spaghettoni di pasta all’uovo a sezione quadrata tipici dell’Abruzzo; la “chitarra” (chitàrrë, chëtàrrë) è un telaio rettangolare in legno, abbastanza piccolo, su cui sono tese delle corde metalliche che hanno la funzione di tagliare a strisce la pasta sfoglia (leggermente pressata su di esse con la mano) e che lo fanno appunto assomigliare a una chitarra. Fra le minestre, citiamo la jota, popolare zuppa triestina e anche friulana di orzo e patate, arricchita con lardo, pancetta, fagioli e crauti: ne esistono molte versioni, anche sul versante sloveno, e la base etimologica del nome è da ricercarsi nel latino classico ius ‘brodo’, alla base del latino tardo *jutta ‘brodaglia’, voce continuata anche in Emilia (Parma, Reggio, Modena), e perfino più lontano (Engadina, Corsica, Calabria; qui jotta è ‘l’acqua dove si è cotta la pasta’, o il ‘beverone che si dà ai maiali’, v. Rohlfs).
Un grande pastu mistu
Se abbiamo parlato di piatti poveri, non possiamo però dimenticare alcuni sontuosi secondi a base di suino, pollame o cacciagione, come il trentino tonco de pontesél, tipo di spezzatino di maiale così chiamato perché accompagnato, secondo la tradizione, dalla polenta di mais, il quale si faceva appassire sui lunghi balconi delle case contadine (detti in dialetto ponteśéi ‘ponticelli’), o la galina imbriaga, caratteristica del Vicentino, il cui nome non è per burla: la gallina viene infatti prima marinata nel Cabernet con verdure e aromi, poi cosparsa di grappa e infine messa in forno. La Sardegna si segnala, oltre che per il porcéddu arrosto, per il pastu mistu del Campidano (grosso tacchino con all’interno un fagiano, una lepre o un pollo) e, tornando ai pastori, per la còrdula (budella ovine intrecciate), servita in genere con i piselli, piatto che ha numerosi echi mediterranei
Vino e pane
Vino e pane, benché alimenti sacri per tante tradizioni, non hanno purtroppo qui lo spazio per essere ricordati come meriterebbero. D’obbligo, però, menzionare, di passata, almeno il pane senza sale o sciapo toscano e umbro; lo pane altrui, per dirla con Dante, salato e con farina integrale, che si comincia invece a vedere da Roma in giù (ad esempio a Lariano); il pane con le patate dell’Abruzzo (le patate sono aggiunte per renderlo più morbido); il pane di grano duro pugliese e lucano che trova in quello di Altamura l’esempio oggi forse più noto. La Sardegna si segnala per il noto, sottilissimo pane carasau (haresau a Mamoiada ecc., cioè ‘cotto per essere croccante’), conosciuto anche come carta da musica.
Non possono mancare, in conclusione, brevi note antropologiche, o, come si diceva, “di costume”, sul rito del bicchiere di vino. Da soli o in compagnia, a coronamento di una passeggiata, di una chiacchiera (ciàcola) fra amici o come semplice aperitivo, esso, nel Veneto, è uno di quelli in grado di resistere a qualsiasi ondata globalizzante. Chiamato popolarmente ómbra a Venezia, Padova, Rovigo e Vicenza, gòto a Verona (derivato dal latino guttus ‘vaso dal collo stretto’, cfr. AEI) e tajut (cioè ‘taglietto’, col tipico suffisso -ut) nel Friuli, esso viene ancora consumato nelle ostarìe, progenitrici, più che dei moderni ristoranti, dei post-moderni wine-bar. Gli spuntini che lo accompagnano, a base di pesce, salumi, carne e altro ancora, sono caratterizzati da un’estrema varietà, e sono detti cichéti a Venezia, spincióni a Padova.
Riferimenti bibliografici
AEI = G. Devoto, Avviamento all’etimologia italiana, Firenze, Le Monnier, 1968.
Alinei = M. Alinei, E. Nissan, L’etimologia semitica dell’it. pizza e dei suoi corradicali est-europei, turchi, e dell’area semitica levantina, in “Quaderni di semantica”, XXVIII, n. 1, giugno 2007, pp. 117-136.
G. L. Beccaria, A. Stella, U. Vignuzzi (a cura di), La linguistica in cucina: nomi dei piatti tipici, Milano, Unicopli, 2005.
E. Caffarelli, L’alimentazione nell’onomastica. L’onomastica nell’alimentazione, in D. Silvestri, A. Marra, I. Pinto (a cura di), Saperi e sapori mediterranei. La cultura dell’alimentazione e i suoi riflessi linguistici, Atti del Convegno Internazionale, vol. I, Napoli, Università degli studi “L’Orientale”, Quaderni di Aion (nuova serie - 3), 2002, pp. 143-173.
DELI = M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana (5 voll.), Bologna, Zanichelli, 1979-1988.
DIDE = M. Cortelazzo, C. Marcato, I Dialetti Italiani. Dizionario etimologico, Torino, Utet, 1998.
G. Frosini, L’italiano in tavola, in P. Trifone (a cura di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Roma, Carocci, 2006, pp. 41-63.
E. Giammarco, Lessico Etimologico Abruzzese, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1986.
Rohlfs = G. Rohlfs, Dizionario dialettale delle tre Calabrie (2 voll.), Milano, Hoepli, 1932.
A. Vàrvaro, Vocabolario Etimologico Siciliano, con la collaborazione di Rosanna Sornicola, volume I (A-L), Palermo, Centro di studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1986.
M. L. Wagner, Dizionario Etimologico Sardo (3 voll.), Heidelberg, Winter, 1960-1964.
*Francesco Avolio (Roma, 1963) insegna Linguistica italiana nell’Università degli studi dell’Aquila. Al centro dei suoi interessi scientifici sono le varietà dialettali dell’Italia centrale e meridionale, la teoria e i metodi della ricerca dialettologica e geolinguistica, i problemi della ricostruzione linguistica, i rapporti tra linguaggio ed esperienza. Membro di diverse società scientifiche nazionali e internazionali (Associazione per la Storia della Lingua Italiana, Società Italiana di Glottologia, Società Internazionale di Dialettologia e Geolinguistica) e del Comitato scientifico della «Rivista Italiana di Linguistica e Dialettologia», suoi articoli sono apparsi su riviste e periodici specializzati («L’Italia dialettale», «Contributi di filologia dell’Italia mediana», «Romance Philology», «Studi linguistici italiani»). È autore di numerosi saggi, tra cui il volume Bommèspre. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale (San Severo, 1995).
fonte: http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/speciali/panevino/1.html
lunedì 10 gennaio 2011
LIBRI: DELL'OSA RACCONTA AVVENTURE DEL 'DUCA DEGLI ABRUZZI'
PESCARA - Ripercorrere le avventure del Duca degli Abruzzi, Luigi di Savoia, "mosca bianca della famiglia reale", per raccontare la vita avventurosa di un personaggio spesso sconosciuto.
È l'obiettivo del libro "Il principe esploratore" del giornalista pescarese Pablo Dell'Osa, che sarà presentato oggi al circolo Overlook di Pescara, nell'ambito della rassegna "Tè e libri misti" curata dall'associazione So.Ha.
Luigi di Savoia fu un "pioniere dell'età eroica delle esplorazioni". Discendente di casa Savoia, nacque in Spagna nel 1873 e morì nel 1933 nel villaggio somalo da lui fondato, conosciuto oggi come Jawhar, città capoluogo della regione Shabeellaha Dhexe.
Dalle due dita congelate e amputate per raggiungere il Polo Nord alla love story con Kate, ereditiera americana "che non poté sposare per sottostare alla ragion di Stato", sono tanti i particolari che dal libro emergono sul "principe delle solitudini", seguito all'epoca, soprattutto per le sue vicende di gossip, da giornalisti quali Luigi Barzini senior e Alfredo Oriani.
"Luigi di Savoia è stato ed è il migliore ambasciatore che l'Abruzzo abbia avuto - sottolinea l'autore - Il suo nome era preceduto dal titolo 'Duca degli Abruzzi' quando l'Abruzzo era ancora una terra di pastori, anche se spesso non si sa che cosa abbia fatto".
fonte:http://www.abruzzoweb.it/dcp/contents_new.php?nid=16215&cid=1&utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+Abruzzoweb+%28AbruzzoWeb%29
È l'obiettivo del libro "Il principe esploratore" del giornalista pescarese Pablo Dell'Osa, che sarà presentato oggi al circolo Overlook di Pescara, nell'ambito della rassegna "Tè e libri misti" curata dall'associazione So.Ha.
Luigi di Savoia fu un "pioniere dell'età eroica delle esplorazioni". Discendente di casa Savoia, nacque in Spagna nel 1873 e morì nel 1933 nel villaggio somalo da lui fondato, conosciuto oggi come Jawhar, città capoluogo della regione Shabeellaha Dhexe.
Dalle due dita congelate e amputate per raggiungere il Polo Nord alla love story con Kate, ereditiera americana "che non poté sposare per sottostare alla ragion di Stato", sono tanti i particolari che dal libro emergono sul "principe delle solitudini", seguito all'epoca, soprattutto per le sue vicende di gossip, da giornalisti quali Luigi Barzini senior e Alfredo Oriani.
"Luigi di Savoia è stato ed è il migliore ambasciatore che l'Abruzzo abbia avuto - sottolinea l'autore - Il suo nome era preceduto dal titolo 'Duca degli Abruzzi' quando l'Abruzzo era ancora una terra di pastori, anche se spesso non si sa che cosa abbia fatto".
fonte:http://www.abruzzoweb.it/dcp/contents_new.php?nid=16215&cid=1&utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+Abruzzoweb+%28AbruzzoWeb%29
sabato 8 gennaio 2011
IL BRIGANTAGGIO in ABRUZZO
http://www.ibrigantidellamajella.it/1/il_brigantaggio_1799014.html
Il brigantaggio
Il fenomeno del brigantaggio nasce in Abruzzo fin dal 1500, con le imprese di Marco Sciarra. La Majella, con le sue grotte, fitte faggete, valloni e precipizi, è stata al centro degli episodi più noti. L'epoca di massima espansione del fenomeno si ebbe subito dopo la conquista, da parte dei Piemontesi guidati da Garibaldi, delle regioni del Regno di Napoli, ossia fra il 1860 e il 1870, quando, dopo l'iniziale entusiasmo, iniziarono ad emergere i primi malcontenti. I Borboni avevano infatti dominato per secoli imponendo uno stato protezionistico e assolutistico e molto legato al clero.
I Piemontesi introdussero invece leva obbligatoria, leggi anticlericali, libero commercio ma anche nuove tasse.
In Abruzzo la radice politica sembra esclusa in quanto si trattò soprattutto di un fenomeno malavitoso, derivato comunque dal malcontento dei contadini che vivevano da secoli nell'indigenza e nell'ignoranza. Già nel 1863 si erano costituite una decina di bande, armate di schioppi, revolver e stili, organizzate come veri e propri reparti militari (ogni componente aveva un segno distintivo in funzione del ruolo e del grado gerarchico).
Le prime notizie di brigantaggio a Sulmona risalgono al 1860: protagonisti principali furono i fratelli Felice e Giuseppe Marinucci e Antonio La Vella, alias Scipione, ex soldato dell'esercito borbonico.
La banda Marinucci-La Vella, detta anche dei Sulmontini, operò isolatamente nella Valle Peligna, fino al Bosco di Sant'Antonio e Pescocostanzo, ma non superò mai i 30 elementi. Si rese famosa per alcuni omicidi e innumerevoli furti.
La Vella fu catturato quasi subito, nell'ottobre del 1861. Felice rimase ucciso in un conflitto a fuoco nel 1862 e venne esposto sulla scalera dell'Annunziata con un cartello sulle gambe, a monito per i briganti locali. Giuseppe si costituì dopo una breve fuga e fu condannato a vent'anni di carcere. Tutti i componenti della banda furono processati e condannati nell'ottobre del 1863.
Molto attiva fu anche la Banda degli Introdacquesi, che ebbe come rifugio ideale i fitti boschi del monte Plaia, nonché le montagne fra Introdacqua, Scanno e Frattura. I capi storici furono Giuseppe Tamburrini, alias Colaizzo, Concezio Ventresca, alias Liborio, Pasquale Fontanarosa e Pasquale Del Monaco. Si resero protagonisti di estorsioni di denaro, pecore e asini, minacce, omicidi e sequestri di persona per un totale di più ben 61 reati (come risultò poi nel processo del gennaio del 1868).
A Pacentro fu molto attiva la banda capeggiata da Pasquale Mancini, alias il Mercante, diventato brigante dopo essere evaso dal carcere nei primi mesi del 1861.
Alla sua morte Giovanni Di Sciascio, alias Morletta, di Guardiagrele, assunse il comando della banda, chiamata poi Banda della Majella: la compagnia di briganti più organizzata e tristemente famosa dell'intero Abruzzo.
Si avvicendarono al comando vari briganti tra cui Domenico Di Sciascio, fratello di Giovanni, Salvatore Scenna, di Orsogna, e Nicola Marino, alias Occhi di uccello originario di Roccamorice.
La banda fu protagonista di numerosi saccheggi nei paesi di Pretoro, Pennapiedimonte, Caramanico, Salle, Guardiagrele, Palena e Tocco da Casauria (nel 1866). Altro componente della banda fu Angelo Camillo Colafella che l'11 gennaio del 1861 invase San Valentino, liberando dal carcere locale una quarantina di detenuti. Domenico Di Sciascio si unì successivamente a Domenico Valerio, alias Cannone, considerato il più famigerato dei briganti. La banda, con i suoi numerosi componenti, rimase attiva fino al 1868.
Infine, tra le bande più temibili e longeve (si sciolse solo nel 1871), può essere annoverata quella capeggiata da Croce di Tola, alias Crocitto, pastore di Roccaraso. Fu protagonista di numerosi misfatti ma in particolare era un abile autore di biglietti di ricatto (che ho riportato qui in calce) con i quali otteneva soldi, vestiti e generi alimentari, indispensabili al proprio sostentamento e a quello dei suoi gregari. Il 5 giugno del 1871 venne catturato vivo dal carabiniere Chiaffredo Bergia, condannato a morte per fucilazione nel 1872, pena poi convertita all'ergastolo. Questo arresto, insieme alla cattura nel 1871 di Primiano Marcucci di Campo di Giove, segna la fine del brigantaggio nella Valle Peligna.
Documenti
Lettere minatorie
Croce di Tola a Enrico Cocco di Pescocostanzo
"Caro Signor Enrico Cocco
se vogliamo essere amici e non bramato uno qualche interesse positivo mi dovete favorire mille docati doro un due colpi con dieci pacchi di cartucce un orologio ed angore doro colla catena di oro di Francia due anelli di brillanti 5 vestiti completi la spesa per 60 individui, non mene di una salma di buon vino 4 presutti 10 bottiglie di liquore 10 pacchi sigari."
il caporale Croce
12 giugno 1866
Croce di Tola a Francesco Ferraro di Rivisondoli
"Signor Ferraro
mi dovete subito mandare due mila docati due orologi doro con catena oro di Francia 10 vestiti completi di castoro nero con cappottie cappelli di castoro nero e scarpe se non volete ricevere un qualche interesse positivo."
il caporale Croce
30 giugno 1866
Croce di Tola a Sisto Masci di Rivisondoli
"Caro don Sisto
Cosa ve dice il core quest'anno?
basta favoritemi 3000 docati due orilogi di oro con le catene doro di Francia dieci vestiti complete e la spesa per 60 individui. Subito senza perdita di tempo e senza scusa al contrario vi farò un altro bello carezzo meglio dell'anno passato che se non mi sono sofficienti i beni di campagna vi verrò a salutare in casa!"
lamico Croce
7 giugno 1866
Domenico Cannone a Liborio Angeloni di Roccaraso
"Cari Signori Liborio,
Si adatte quelli scarsi di ammazzani queli pochi laccio. E se al momento non mandate 1000 piastre e un orologio oro con laccio doppio doro di Francia 6 vestiti 9 gordiane 10 camici 10 pajo di mutando 10 fazoletti di seta 10 pajo di prusiane 8 cappelli... so bene cannonio che vi ammazzi tutte quante avete."
lu sotto firmate il capi massi
Domenico Cannone
giugno 1866
Ordini prefettizi (trascrizioni)
Misure per contenere il fenomeno del brigantaggio
Comando dello stato d'assedio nella zona militare di Aquila
Risultando che i manifatturieri di Carbone, Legnajuoli, Lavoranti di Campagna e Pastori, tengono proviste di Pane, Farina, Formaggio ed altri generi, oltre il bisogno giornaliero[...] nell'interesse di togliere qualunque ostacolo che si presenta per la distruzione del brigantaggio, prescrive quanto appresso:
•Tutti indistintamente coloro che si porteranno in campagna per qualunque siasi motivo, non potrannoportare con loro viveri più del necessario pel mantenimento individuale di un giorno.
•Entro tre giorni dalla data di pubblicazione del presente, tutti i propietari di capanne dovranno farle aprire lateralmente in modo che nessuno vi si possa ricoverare senza esser visto, ed ove ciò non eseguibile le Capanne saranno immediatamente incendiate dalla forza pubblica.
•Dalle ore 24 italiane tutti i cani tanto dentro l'abitato, che in campagna dovranno essere rinchiusi, quelli che si troveranno fuori saranno immediatamente uccisi.
Aquila 25 ottobre 1862
Il Maggiore Generale Chiabrera
Misura per l'elargizione di premi a favore di chi combatte i briganti
Provincia del secondo Abruzzo ulteriore
Commissione provinciale per la distribuzione de' soccorsi e premi pe' casi di brigantaggio
Deliberazione del 19 Giugno 1864
Considerato che i briganti Capi-banda i quali in oggi più di tutti infestano questa Provincia, sono i famigerati Tamburrini Nunzio e Marcucci Primiano, che con l'ultime scene di sangue si sono fatti segno della pubblica esecrazione. La commissione delibera:
1°. Impartirsi un premio straordinario di Lire 4250 pari a ducati 1000 a chiunque, siasi anche dell'armata regolare, combatterà colle armi, prenderà o farà prendere vivo o morto il bandito Marcucci Primiano.
[...]
3°. Se colui che si rendesse al presente meritevole di un tal servizio, fosse egli pure un bandito, presentandosi all'Autorità, oltre al premio di sopra enunciato, otterrà di essere raccomandato per la grazia Sovrana.
Aquila degli Abruzzi 19 giugno 1864
Fonte: Archivio di Stato di Sulmona
Il brigantaggio
Il fenomeno del brigantaggio nasce in Abruzzo fin dal 1500, con le imprese di Marco Sciarra. La Majella, con le sue grotte, fitte faggete, valloni e precipizi, è stata al centro degli episodi più noti. L'epoca di massima espansione del fenomeno si ebbe subito dopo la conquista, da parte dei Piemontesi guidati da Garibaldi, delle regioni del Regno di Napoli, ossia fra il 1860 e il 1870, quando, dopo l'iniziale entusiasmo, iniziarono ad emergere i primi malcontenti. I Borboni avevano infatti dominato per secoli imponendo uno stato protezionistico e assolutistico e molto legato al clero.
I Piemontesi introdussero invece leva obbligatoria, leggi anticlericali, libero commercio ma anche nuove tasse.
In Abruzzo la radice politica sembra esclusa in quanto si trattò soprattutto di un fenomeno malavitoso, derivato comunque dal malcontento dei contadini che vivevano da secoli nell'indigenza e nell'ignoranza. Già nel 1863 si erano costituite una decina di bande, armate di schioppi, revolver e stili, organizzate come veri e propri reparti militari (ogni componente aveva un segno distintivo in funzione del ruolo e del grado gerarchico).
Le prime notizie di brigantaggio a Sulmona risalgono al 1860: protagonisti principali furono i fratelli Felice e Giuseppe Marinucci e Antonio La Vella, alias Scipione, ex soldato dell'esercito borbonico.
La banda Marinucci-La Vella, detta anche dei Sulmontini, operò isolatamente nella Valle Peligna, fino al Bosco di Sant'Antonio e Pescocostanzo, ma non superò mai i 30 elementi. Si rese famosa per alcuni omicidi e innumerevoli furti.
La Vella fu catturato quasi subito, nell'ottobre del 1861. Felice rimase ucciso in un conflitto a fuoco nel 1862 e venne esposto sulla scalera dell'Annunziata con un cartello sulle gambe, a monito per i briganti locali. Giuseppe si costituì dopo una breve fuga e fu condannato a vent'anni di carcere. Tutti i componenti della banda furono processati e condannati nell'ottobre del 1863.
Molto attiva fu anche la Banda degli Introdacquesi, che ebbe come rifugio ideale i fitti boschi del monte Plaia, nonché le montagne fra Introdacqua, Scanno e Frattura. I capi storici furono Giuseppe Tamburrini, alias Colaizzo, Concezio Ventresca, alias Liborio, Pasquale Fontanarosa e Pasquale Del Monaco. Si resero protagonisti di estorsioni di denaro, pecore e asini, minacce, omicidi e sequestri di persona per un totale di più ben 61 reati (come risultò poi nel processo del gennaio del 1868).
A Pacentro fu molto attiva la banda capeggiata da Pasquale Mancini, alias il Mercante, diventato brigante dopo essere evaso dal carcere nei primi mesi del 1861.
Alla sua morte Giovanni Di Sciascio, alias Morletta, di Guardiagrele, assunse il comando della banda, chiamata poi Banda della Majella: la compagnia di briganti più organizzata e tristemente famosa dell'intero Abruzzo.
Si avvicendarono al comando vari briganti tra cui Domenico Di Sciascio, fratello di Giovanni, Salvatore Scenna, di Orsogna, e Nicola Marino, alias Occhi di uccello originario di Roccamorice.
La banda fu protagonista di numerosi saccheggi nei paesi di Pretoro, Pennapiedimonte, Caramanico, Salle, Guardiagrele, Palena e Tocco da Casauria (nel 1866). Altro componente della banda fu Angelo Camillo Colafella che l'11 gennaio del 1861 invase San Valentino, liberando dal carcere locale una quarantina di detenuti. Domenico Di Sciascio si unì successivamente a Domenico Valerio, alias Cannone, considerato il più famigerato dei briganti. La banda, con i suoi numerosi componenti, rimase attiva fino al 1868.
Infine, tra le bande più temibili e longeve (si sciolse solo nel 1871), può essere annoverata quella capeggiata da Croce di Tola, alias Crocitto, pastore di Roccaraso. Fu protagonista di numerosi misfatti ma in particolare era un abile autore di biglietti di ricatto (che ho riportato qui in calce) con i quali otteneva soldi, vestiti e generi alimentari, indispensabili al proprio sostentamento e a quello dei suoi gregari. Il 5 giugno del 1871 venne catturato vivo dal carabiniere Chiaffredo Bergia, condannato a morte per fucilazione nel 1872, pena poi convertita all'ergastolo. Questo arresto, insieme alla cattura nel 1871 di Primiano Marcucci di Campo di Giove, segna la fine del brigantaggio nella Valle Peligna.
Documenti
Lettere minatorie
Croce di Tola a Enrico Cocco di Pescocostanzo
"Caro Signor Enrico Cocco
se vogliamo essere amici e non bramato uno qualche interesse positivo mi dovete favorire mille docati doro un due colpi con dieci pacchi di cartucce un orologio ed angore doro colla catena di oro di Francia due anelli di brillanti 5 vestiti completi la spesa per 60 individui, non mene di una salma di buon vino 4 presutti 10 bottiglie di liquore 10 pacchi sigari."
il caporale Croce
12 giugno 1866
Croce di Tola a Francesco Ferraro di Rivisondoli
"Signor Ferraro
mi dovete subito mandare due mila docati due orologi doro con catena oro di Francia 10 vestiti completi di castoro nero con cappottie cappelli di castoro nero e scarpe se non volete ricevere un qualche interesse positivo."
il caporale Croce
30 giugno 1866
Croce di Tola a Sisto Masci di Rivisondoli
"Caro don Sisto
Cosa ve dice il core quest'anno?
basta favoritemi 3000 docati due orilogi di oro con le catene doro di Francia dieci vestiti complete e la spesa per 60 individui. Subito senza perdita di tempo e senza scusa al contrario vi farò un altro bello carezzo meglio dell'anno passato che se non mi sono sofficienti i beni di campagna vi verrò a salutare in casa!"
lamico Croce
7 giugno 1866
Domenico Cannone a Liborio Angeloni di Roccaraso
"Cari Signori Liborio,
Si adatte quelli scarsi di ammazzani queli pochi laccio. E se al momento non mandate 1000 piastre e un orologio oro con laccio doppio doro di Francia 6 vestiti 9 gordiane 10 camici 10 pajo di mutando 10 fazoletti di seta 10 pajo di prusiane 8 cappelli... so bene cannonio che vi ammazzi tutte quante avete."
lu sotto firmate il capi massi
Domenico Cannone
giugno 1866
Ordini prefettizi (trascrizioni)
Misure per contenere il fenomeno del brigantaggio
Comando dello stato d'assedio nella zona militare di Aquila
Risultando che i manifatturieri di Carbone, Legnajuoli, Lavoranti di Campagna e Pastori, tengono proviste di Pane, Farina, Formaggio ed altri generi, oltre il bisogno giornaliero[...] nell'interesse di togliere qualunque ostacolo che si presenta per la distruzione del brigantaggio, prescrive quanto appresso:
•Tutti indistintamente coloro che si porteranno in campagna per qualunque siasi motivo, non potrannoportare con loro viveri più del necessario pel mantenimento individuale di un giorno.
•Entro tre giorni dalla data di pubblicazione del presente, tutti i propietari di capanne dovranno farle aprire lateralmente in modo che nessuno vi si possa ricoverare senza esser visto, ed ove ciò non eseguibile le Capanne saranno immediatamente incendiate dalla forza pubblica.
•Dalle ore 24 italiane tutti i cani tanto dentro l'abitato, che in campagna dovranno essere rinchiusi, quelli che si troveranno fuori saranno immediatamente uccisi.
Aquila 25 ottobre 1862
Il Maggiore Generale Chiabrera
Misura per l'elargizione di premi a favore di chi combatte i briganti
Provincia del secondo Abruzzo ulteriore
Commissione provinciale per la distribuzione de' soccorsi e premi pe' casi di brigantaggio
Deliberazione del 19 Giugno 1864
Considerato che i briganti Capi-banda i quali in oggi più di tutti infestano questa Provincia, sono i famigerati Tamburrini Nunzio e Marcucci Primiano, che con l'ultime scene di sangue si sono fatti segno della pubblica esecrazione. La commissione delibera:
1°. Impartirsi un premio straordinario di Lire 4250 pari a ducati 1000 a chiunque, siasi anche dell'armata regolare, combatterà colle armi, prenderà o farà prendere vivo o morto il bandito Marcucci Primiano.
[...]
3°. Se colui che si rendesse al presente meritevole di un tal servizio, fosse egli pure un bandito, presentandosi all'Autorità, oltre al premio di sopra enunciato, otterrà di essere raccomandato per la grazia Sovrana.
Aquila degli Abruzzi 19 giugno 1864
Fonte: Archivio di Stato di Sulmona
venerdì 7 gennaio 2011
mercoledì 5 gennaio 2011
martedì 4 gennaio 2011
domenica 2 gennaio 2011
Italia Antiqua: Abruzzo
Da un punto di vista etno-storiografico, ancora al giorno d’oggi è piuttosto complesso risolvere i numerosi problemi che ha sollevato e che continua a sollevare la situazione antica dell’attuale Abruzzo.
Benché, ben documentato, dai contorni piuttosto chiari, ma non nitidi, il sistema regionale abruzzese riporta ad un’unità sostanziale che giunge fino a noi.
I problemi si sollevano nel momento in cui si voglia “sezionare” la regione stessa, poiché appare unitaria nei costumi, negli usi, nelle divinità ed in tutte le manifestazioni totalmente similari tra loro, ma fondamentalmente appare divisa politicamente in almeno 6 popoli o, come vengono definiti per la prima volta in ambito italico, tribù maggiori.
Vestini, Marsi, Marrucini, Frentani, Peligni e Pretutti sono popoli che, se si escludono piccolissime “intromissioni” sannite ed eque, si trovavano interamente all’interno del territorio abruzzese.
Tuttavia, ora è possibile districare parte della matassa etnica con una principale suddivisione dell’area: si è notato un termine di distinzione tra il settore più orientale e quello più interno.
-Il primo sembra essere di stampo o tipo c.d. “piceno”, secondo alcuni addirittura preindoeuropeo, e che, compreso tra i picchi dell’Appennino e il Mar Adriatico, si sarebbe spinto dalla Romagna alla Puglia e di cui avrebbero fatto parte i Piceni propriamente detti, i Praetutti, i Marrucini, i Vestini e i Frentani.
-Il secondo, che comprende la conca peligna e le valli del Tirino e del medio Aterno e le vaste conche interne come quella marsicana e l’alta aternina.
Probabilmente, così come già gli antichi presupponevano, la parte costiera dovette essere luogo d’arrivo di genti il liriche, mentre quelle più interne erano sede di popoli sabelli di ceppo italico.
I Pretuzi saranno sempre legati alle sorti dei Piceni, e come tali saranno assimilati in futuro, occupando il litorale alle spalle del Gran Sasso (Mons Fiscellus), dal Tronto all’Aterno.
I Marrucini di stirpe sabellica, occupavano la riva destra del basso Aterno, ancor prima dei tempi storici, ossia prima che i Sanniti scendessero lungo la valle del Frentus (Fortore), avrebbero occupato tutta la costa fino al confine apulo.
I Peligni, risalite le strettoie dell’Aterno, oggi gole di San Venanzio, sboccarono nella breve conca subequana, rimanendo relegati nella vasta conca di Sulmona, loro capitale, dove istituiranno il loro centro nel celebre santuario di Ercole Curino (o Quirino).
I Vestini, anch’essi di lingua sabellica, occupavano una vasta area lungo le valli dell’Aterno e poi quella del Tirino, benché la loro capitale, Pinna, si trovasse a ridosso dell’Adriatico e dei Pretuzii, raggiungendo il mare forse spinti dal commercio del sale; il loro nome prendeva spunto dal loro dedizioso culto nei confronti della dea Vesta.
I Marsi, e forse un loro sottogruppo, gli Aequicoli, abitavano la regione detta ancora oggi "Marsica", intorno al Lago Fucino e s’incuneavano nel Lazio fino alle porte di Roma.
I Sanniti Pentri e Caraceni che detenevano il cuore dell’Appennino campano e molisano, nel V sec. a.C. i Sanniti, per cause sconosciute iniziano una frenetica espansione, verso il Tirreno attraversano il Matese e invadono la Campania; mentre verso l’Adriatico, s’insinuano nei bacini dei fiumi Sangro, Tifernus (Biferno) e Frentus (Fortore), da qui verranno chiamati Frentani, occupando una fascia costiera dall’Aterno, relegando più a nord i Marrucini.
A parte l’epoca mitica dei re, Roma incontra sul suo cammino le popolazioni “abruzzesi” nel 325 a.C., quando chiamata da Lucera contro i Sanniti. Le legioni passano attraverso le strette ma veloci valli, fino al litorale adriatico, ostacolati dai soli Vestini.
Ad un anno dalla sconfitta di Caudio (320 a.C.), con un atteggiamento piuttosto tracotante, Roma riattraversa l’Abruzzo ma, neanche questa volta, i Frentani riescono a fermare le legioni.
Nella Prima Guerra Sannitica dal 313 a.C., le vicende spingono tutte le popolazioni osco-sabelliche a schierarsi al fianco sannita, dopo una stentata neutralità.
Dal 308 a.C. Peligni, Marrucini e Marsi dichiarano guerra a Roma che già due anni dopo ha ragione dei nemici, assicurandosi il transito nel loro territorio, fino alla definitiva sconfitta nel 304 a.C.
Alla fine della Seconda Guerra Sannitica, i Romani avevano sottomesso tutte le popolazioni dell’attuale Abruzzo.
Nel 294 a.C. i Marsi si ribellano a Roma contro l’istituzione della colonia latina a Carseoli, subendo una sconfitta definitiva.
Da questo momento in poi tutte le popolazioni rimarranno sempre fedeli a Roma, soprattutto sui campi di battaglia con le “forniture” di grandi quantitativi di agguerritissimi soldati, contro Pirro, contro i Galli e contro Annibale fino alla fine della Seconda Guerra Punica, nonostante la pressione sia reale che psicologica effettuata da Annibale.
Un paragrafo a parte merita la questione della Guerra Sociale ossia degli alleati italici contro Roma stessa.
I continui tributi di uomini, di questa regione, voleva essere compensata dall’acquisizione del privilegio della cittadinanza romana. Tutte le “tribù” della regione si unirono in una rivolta estremamente violenta contro i Romani, probabilmente come esplosione di una situazione già da tempo sotto pressione.
Nel 91 a.C. Piceni, Marsi, Sanniti, Frentani, Peligni e Marrucini, a cui si aggiunsero poi tutti i popoli dell’Italia peninsulare, si unirono nella Lega Italica, scelsero Corfinio, ribattezzata "Italia", come capitale della nuova confederazione da opporre a Roma e dotata di strutture analoghe, schierarono un esercito di 100.000 uomini e coniarono anche monete che sancivano la creazione di uno stato, interno, parallelo e indipendente da Roma.
-I Frentani erano guidati dal pretore Caio Pontidio, i Marrucini da Herio Asinio,
-i Vestini da Tito Lafrenio,
-mentre i Marsi erano condotti da Quinto Popedio Silone e furono gli unici a consegnare una formale dichiarazione di guerra ai Romanica cui la guerra fu detta "Sociale" o anche "Marsica".
La guerra ebbe due fronti, il sabellico e il sannita.
Dopo iniziali vittorie, i soci vennero battuti dapprima nella Mársica e quindi nel Piceno, e la capitale fu di conseguenza trasferita da Corfinio a Isernia e quindi a Bovianum, la cui presa segnò l’ultima definitiva sconfitta degli Italici.
Nonostante la vittoria assoluta di Cneo Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno, Roma fu costretta dalla situazione a promulgare la Lex Plautia Papiria e ad estendere la "civitas romana" a tutti gli Italici.
Nella divisione augustea dell'Italia l'Abruzzo, con il Molise, a eccezione del Teramano, fece parte della Regio IV, denominata Sabina et Sannium; questa fu la premessa per il definitivo ingresso nel sistema di Roma, sancito dalla concessione della cittadinanza (nella prima metà del I secolo d.C.).
Simbolo della grande tenacia e combattività di tutti i Popoli d’Abruzzo rimane oggi una meravigliosa statua di guerriero detto di Capestrano, dal luogo del rinvenimento.
fonte: http://www.instoria.it/home/italia_antiqua_XIII.htm
Benché, ben documentato, dai contorni piuttosto chiari, ma non nitidi, il sistema regionale abruzzese riporta ad un’unità sostanziale che giunge fino a noi.
I problemi si sollevano nel momento in cui si voglia “sezionare” la regione stessa, poiché appare unitaria nei costumi, negli usi, nelle divinità ed in tutte le manifestazioni totalmente similari tra loro, ma fondamentalmente appare divisa politicamente in almeno 6 popoli o, come vengono definiti per la prima volta in ambito italico, tribù maggiori.
Vestini, Marsi, Marrucini, Frentani, Peligni e Pretutti sono popoli che, se si escludono piccolissime “intromissioni” sannite ed eque, si trovavano interamente all’interno del territorio abruzzese.
Tuttavia, ora è possibile districare parte della matassa etnica con una principale suddivisione dell’area: si è notato un termine di distinzione tra il settore più orientale e quello più interno.
-Il primo sembra essere di stampo o tipo c.d. “piceno”, secondo alcuni addirittura preindoeuropeo, e che, compreso tra i picchi dell’Appennino e il Mar Adriatico, si sarebbe spinto dalla Romagna alla Puglia e di cui avrebbero fatto parte i Piceni propriamente detti, i Praetutti, i Marrucini, i Vestini e i Frentani.
-Il secondo, che comprende la conca peligna e le valli del Tirino e del medio Aterno e le vaste conche interne come quella marsicana e l’alta aternina.
Probabilmente, così come già gli antichi presupponevano, la parte costiera dovette essere luogo d’arrivo di genti il liriche, mentre quelle più interne erano sede di popoli sabelli di ceppo italico.
I Pretuzi saranno sempre legati alle sorti dei Piceni, e come tali saranno assimilati in futuro, occupando il litorale alle spalle del Gran Sasso (Mons Fiscellus), dal Tronto all’Aterno.
I Marrucini di stirpe sabellica, occupavano la riva destra del basso Aterno, ancor prima dei tempi storici, ossia prima che i Sanniti scendessero lungo la valle del Frentus (Fortore), avrebbero occupato tutta la costa fino al confine apulo.
I Peligni, risalite le strettoie dell’Aterno, oggi gole di San Venanzio, sboccarono nella breve conca subequana, rimanendo relegati nella vasta conca di Sulmona, loro capitale, dove istituiranno il loro centro nel celebre santuario di Ercole Curino (o Quirino).
I Vestini, anch’essi di lingua sabellica, occupavano una vasta area lungo le valli dell’Aterno e poi quella del Tirino, benché la loro capitale, Pinna, si trovasse a ridosso dell’Adriatico e dei Pretuzii, raggiungendo il mare forse spinti dal commercio del sale; il loro nome prendeva spunto dal loro dedizioso culto nei confronti della dea Vesta.
I Marsi, e forse un loro sottogruppo, gli Aequicoli, abitavano la regione detta ancora oggi "Marsica", intorno al Lago Fucino e s’incuneavano nel Lazio fino alle porte di Roma.
I Sanniti Pentri e Caraceni che detenevano il cuore dell’Appennino campano e molisano, nel V sec. a.C. i Sanniti, per cause sconosciute iniziano una frenetica espansione, verso il Tirreno attraversano il Matese e invadono la Campania; mentre verso l’Adriatico, s’insinuano nei bacini dei fiumi Sangro, Tifernus (Biferno) e Frentus (Fortore), da qui verranno chiamati Frentani, occupando una fascia costiera dall’Aterno, relegando più a nord i Marrucini.
A parte l’epoca mitica dei re, Roma incontra sul suo cammino le popolazioni “abruzzesi” nel 325 a.C., quando chiamata da Lucera contro i Sanniti. Le legioni passano attraverso le strette ma veloci valli, fino al litorale adriatico, ostacolati dai soli Vestini.
Ad un anno dalla sconfitta di Caudio (320 a.C.), con un atteggiamento piuttosto tracotante, Roma riattraversa l’Abruzzo ma, neanche questa volta, i Frentani riescono a fermare le legioni.
Nella Prima Guerra Sannitica dal 313 a.C., le vicende spingono tutte le popolazioni osco-sabelliche a schierarsi al fianco sannita, dopo una stentata neutralità.
Dal 308 a.C. Peligni, Marrucini e Marsi dichiarano guerra a Roma che già due anni dopo ha ragione dei nemici, assicurandosi il transito nel loro territorio, fino alla definitiva sconfitta nel 304 a.C.
Alla fine della Seconda Guerra Sannitica, i Romani avevano sottomesso tutte le popolazioni dell’attuale Abruzzo.
Nel 294 a.C. i Marsi si ribellano a Roma contro l’istituzione della colonia latina a Carseoli, subendo una sconfitta definitiva.
Da questo momento in poi tutte le popolazioni rimarranno sempre fedeli a Roma, soprattutto sui campi di battaglia con le “forniture” di grandi quantitativi di agguerritissimi soldati, contro Pirro, contro i Galli e contro Annibale fino alla fine della Seconda Guerra Punica, nonostante la pressione sia reale che psicologica effettuata da Annibale.
Un paragrafo a parte merita la questione della Guerra Sociale ossia degli alleati italici contro Roma stessa.
I continui tributi di uomini, di questa regione, voleva essere compensata dall’acquisizione del privilegio della cittadinanza romana. Tutte le “tribù” della regione si unirono in una rivolta estremamente violenta contro i Romani, probabilmente come esplosione di una situazione già da tempo sotto pressione.
Nel 91 a.C. Piceni, Marsi, Sanniti, Frentani, Peligni e Marrucini, a cui si aggiunsero poi tutti i popoli dell’Italia peninsulare, si unirono nella Lega Italica, scelsero Corfinio, ribattezzata "Italia", come capitale della nuova confederazione da opporre a Roma e dotata di strutture analoghe, schierarono un esercito di 100.000 uomini e coniarono anche monete che sancivano la creazione di uno stato, interno, parallelo e indipendente da Roma.
-I Frentani erano guidati dal pretore Caio Pontidio, i Marrucini da Herio Asinio,
-i Vestini da Tito Lafrenio,
-mentre i Marsi erano condotti da Quinto Popedio Silone e furono gli unici a consegnare una formale dichiarazione di guerra ai Romanica cui la guerra fu detta "Sociale" o anche "Marsica".
La guerra ebbe due fronti, il sabellico e il sannita.
Dopo iniziali vittorie, i soci vennero battuti dapprima nella Mársica e quindi nel Piceno, e la capitale fu di conseguenza trasferita da Corfinio a Isernia e quindi a Bovianum, la cui presa segnò l’ultima definitiva sconfitta degli Italici.
Nonostante la vittoria assoluta di Cneo Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno, Roma fu costretta dalla situazione a promulgare la Lex Plautia Papiria e ad estendere la "civitas romana" a tutti gli Italici.
Nella divisione augustea dell'Italia l'Abruzzo, con il Molise, a eccezione del Teramano, fece parte della Regio IV, denominata Sabina et Sannium; questa fu la premessa per il definitivo ingresso nel sistema di Roma, sancito dalla concessione della cittadinanza (nella prima metà del I secolo d.C.).
Simbolo della grande tenacia e combattività di tutti i Popoli d’Abruzzo rimane oggi una meravigliosa statua di guerriero detto di Capestrano, dal luogo del rinvenimento.
fonte: http://www.instoria.it/home/italia_antiqua_XIII.htm
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